Ecco le storie di malagiustizia che ci avete mandato nelle scorse settimane. Ieri abbiamo portato il dossier al ministro Cancellieri. Immagini a cura di VISTA Agenzia Televisiva Parlamentare / Alexander Jakhnagiev
Le vostre lettere alla Cancellieri
Malagiustizia, consegnato il dossier al Ministero
Il nostro inviato Luca Fazzo consegna al ministro Cancellieri le lettere che raccontano le storie di malagiustizia arrivate nelle scorse settimane a ilGiornale.it. Immagini a cura di VISTA Agenzia Televisiva Parlamentare / Alexander Jakhnagiev
Giustizia, al ministro le denunce dei lettori "La riforma è urgente"
Roma - Signor ministro, in Italia ci sono 9 milioni di processi pendenti. Cittadini vittime della giustizia lumaca si sono visti riconoscere risarcimenti per 340 milioni. Le sembrano numeri degni di un paese civile?
«No, non lo sono. Sono numeri che devono farci capire l'urgenza di provvedere in un campo dove da anni non si provvede».
Sono le cinque di ieri pomeriggio, e nello studio del ministro di Giustizia Anna Maria Cancellieri arrivano le notizie sull'incredibile assalto al reparto della polizia penitenziaria a Gallarate che trasportava un ergastolano. «Cose che non si vedevano da trent'anni», dice preoccupata la Cancellieri. Ma sul suo tavolo c'è un grande faldone di carte che racconta come la giustizia italiana abbia anche un volto immutabile: quello dei processi interminabili, della giustizia negata. Sono le mail piovute in queste settimane sulla mail del Giornale. Il ministro legge con attenzione una delle tante storie, quella di una donna che da dieci anni attende una sentenza.
Cosa direbbe a questa donna, se la incontrasse?
«Che ha ragione, dieci anni sono un tempo inaccettabile. E il dramma di questa signora è il dramma di tantissimi cittadini che hanno del tutto perso fiducia nella giustizia. Questa è la cosa che fa più male. Un paese che perde fiducia nella giustizia non può andare avanti».
E quindi cosa farete?
«Interverremo in maniera laica ma decisa. Ci sono cose che si possono fare da subito, basta un po' di coraggio».
Qual è l'inghippo, dove è che si ferma tutto? Sono le norme sbagliate o sono gli uomini che non lavorano?
«Più che norme sbagliate vedo leggi scritte in maniera assurda, incomprensibile a chi non abbia tre lauree, e così negano la certezza del diritto. La norma poco chiara tradisce i cittadini, per questo nella Repubblica Veneta le leggi erano scritte in dialetto».
E gli uomini non hanno colpe?
«Gli uffici giudiziari hanno personale molto anziano e demotivato. Servirebbero uffici con gente premiata se porta a casa i risultati».
Lei parla dei cancellieri e degli impiegati. Io vorrei sapere se non esiste un problema di produttività dei magistrati.
«Io vedo soprattutto un problema di efficienza del sistema, di produttività collettiva. Tant'è vero che abbiamo esperienze luminose come Torino, dove grazie a prassi rigorose si sono azzerati gli arretrati, e Milano, dove i tempi di attesa sono ormai quelli europei. Bisogna esportare queste esperienze in tutta Italia».
La giustizia civile ha tempi tali che ci sono zone del paese dove il recupero crediti e gli sfratti vengono gestiti direttamente dal crimine organizzato.
«Lo so, ed è gravissimo. Il senso di impunità favorisce i più arroganti mentre i cittadini non sanno più a chi rivolgersi. Conosco storie di gente avvilita che ha investito tutti i suoi risparmi in un appartamento, e non riesce a sfrattare il prepotente che non gli paga l'affitto. Posso assicurare che non li considero drammi minori».
Nel frattempo, siccome le sentenze definitive arriveranno chissà quando, la custodia cautelare viene usata come espiazione anticipata della pena.
«Questo è l'altro problema che abbiamo. È passata la mentalità per cui l'unico conto che si paga è il carcere preventivo. Ma ci si dimentica che esiste una presunzione di innocenza. Per questo sono contenta che il Parlamento abbia in esame una norma che rende la custodia cautelare più difficile e che la riporta ai principi che il legislatore aveva individuato a suo tempo. Ma ricordo anche che c'è nel paese una forte richiesta di giustizia, la popolazione non è mai contenta, mai soddisfatta. E il nostro dovere è anche rendere inoffensivi quanti costituiscono un pericolo».
Per due volte di fila, due sentenze di grande importanza sono state oggetto di interviste dei giudici prima ancora della stesura delle motivazioni. Lei oggi ha inviato gli ispettori a quello del caso Meredith, cosa intende fare in futuro?
«Due magistrati che raccontavano le sentenze senza che fossero pubblicate: di fronte a questi fatti i cittadini non sanno più a chi credere e perché credere. Io penso che si debba essere rigorosi e avviare anche delle azioni disciplinari».
Le vostre storie di malagiustizia sul tavolo del ministro: abbiamo consegnato le lettere che avete mandato al Giornale. La Cancellieri: "Tempi biblici, interverremo"

Cancellieri: "Prometto che interverremo"
Il ministro Cancellieri legge le lettere dei cittadini: "Hanno ragione. Questa è la cosa che fa più male. Un paese che perde fiducia nella giustizia non può andare avanti". E promette: "Interverremo in maniera laica ma decisa. Ci sono cose che si possono fare da subito, basta un po’ di coraggio". Immagini a cura di VISTA Agenzia Televisiva Parlamentare / Alexander Jakhnagiev
Massacra la rivale: gli amici ridono e girano un video
Un conto è saperlo, tutt'altro conto è vederlo, sparato nell'oceano del web attraverso il solito spietato strumento del filmato su Youtube. Un conto è sapere che l'adolescenza metropolitana di oggi è un terreno dove crescono la violenza e l'abbruttimento. Un altro è vedere su Internet un minuto e quarantaquattro secondi che raccontano meglio di un trattato una generazione senza speranza. Due ragazzine. Si saprà poi che hanno quindici anni. Una con gli occhiali, un brutto giaccone grigio, i calzoni della tuta, bionda con cenni di ricrescita scura. L'altra appena più alta, i lunghi capelli scuri, i jeans. La prima picchia la seconda. Colpi su colpi. L'ultimo, il più impressionante, un calcio in testa, dopo averla tirata a terra per i capelli e aver preso la mira. Intorno, ed è davvero ciò che fa più impressione, il coro di questa tragedia: un coro di altri ragazzi, coetanei delle due, forse anche loro amici. Nessuno muove un dito. Solo i telefonini, sollevati in alto a ritrarre la scena, fanno capire che il coro è consapevole della anormalità di quanto accade. Per il resto, non un gesto, non una smorfia di spavento. Il vuoto degli sguardi e dei gesti.
Accade a Bollate, mercoledì, davanti all'istituto tecnico che porta (invano) il nome di Primo Levi. Di mezzo c'è un ragazzo conteso. La bionda non va al «Primo Levi», ma sa che ci va la mora che sospetta di insidiarle il fidanzatino. Ma è difficile immaginare un amore così totale e profondo da spiegare tanta violenza. Qualcosa, nei gesti e nelle facce, dice che quello che conta davvero per la bionda è marcare il territorio, rivendicare la propria identità. Ma cosa spiega l'indifferenza degli altri, di quelli che guardano?
Inizia in modo quasi tranquillo. Le due parlano, altre tre ragazze accanto ridono. Solo il linguaggio del corpo della bionda - che freme, si muove, si prende la testa tra le mani - fa capire che qualcosa sta per accadere. La colonna sonora del video sono il turpiloquio e le bestemmie dei ragazzi che filmano, i «cazzo» e i «Dio c...» usati come interiezione. Dopo quaranta secondi, quasi a freddo, parte il primo calcio, poi un altro. La mora non sembra spaventata, «dai basta cretina». Ancora un calcio, uno schiaffo sul naso. Anche le due ragazze iniziano a bestemmiare, la mora cerca di andarsene tenendosi il naso, ma la bionda la insegue, la strattona.
E inizia il pestaggio vero e proprio, calci e pugni. «Vai così, vai cattiva», ride un ragazzo in sottofondo mentre la mora cerca di proteggersi. La bionda la insegue, seguita dal codazzo che non vuole perdersi lo spettacolo. La raggiunge, chiede a una amica di tenerle gli occhiali per poter picchiare meglio. «Per favore aiutatemi!», urla la mora, ma nessuno si muove. E partono i calci alla testa.
Vicino a Milano, nel febbraio del 2014.

Processo al super poliziotto: sfilano questori e magistrati
Un procuratore della Repubblica aggiunto, tre questori, una sfilza di ufficiali dei carabinieri e dirigenti di polizia, sette «pentiti» e un avvocato specializzato nella loro difesa: tutti chiamati sotto giuramento a raccontare come funziona davvero il mondo sotterraneo della giustizia, degli sbirri, dei confidenti, delle dritte e dei favori. Sarà un processo interessante quello che entrerà nel vivo il prossimo 7 aprile davanti alla quarta sezione del tribunale di Milano. Sul banco degli imputati siederà un uomo solo, un commissario di polizia. Ma ieri il giudice Marco Tremolada, contro il parere della Procura, ha autorizzato per intero la lista dei testimoni chiamati in aula dal commissario per dimostrare che lui ha fatto solo il suo dovere, e se ha camminato nel fangolo ha fatto per conto dello Stato.
Il commissario si chiama Carmine Gallo, e negli archivi della stampa di tutto il mondo è quello che ha risolto il delitto Gucci. Anche lì, non fu questione di intuito sopraffino ma di avere il confidente giusto, perché è questo che Gallo sa fare: parlare con chi sta dall'altra parte della barricata e magari medita di saltarla, rendersi credibile, non tradire la parola. In questo modo scoprì gli assassini di Gucci, e nello stesso modo fece liberare Alessandra Sgarella, l'ultima milanese vittima dell'Anonima Sequestri: il cui vedovo, Pietro Vavassori, compare anche lui nella lista dei testimoni.
A portare Gallo sotto accusa per rivelazione di segreto è l'inchiesta della procura di Venezia sui favori che avrebbe ricevuto uno dei «pentiti» più importanti arruolati da Gallo, il falsario e riciclatore Federico Corniglia. All'inizio l'accusa era addirittura di associazione a delinquere, ma l'ipotesi si è dissolta per strada, e a Milano è stato trasmesso solo il fascicolo a carico di Gallo per rivelazione di segreto. Qui la Direzioneantimafia, che per anni ha avuto Gallo come uno dei suoi investigatori di fiducia, ha chiesto e ottenuto il suo rinvio a giudizio.
Gallo si proclama innocente: ma la sua innocenza, dice il suo avvocato Antonella Augimeri, si può comprendere solo se si capiscono le prassi e le regole nella gestione dei confidenti e dei pentiti. Il tribunale è stato d'accordo. Così sul banco dei testimoni sfileranno Alberto Nobili, procuratore aggiunto, che con Gallo ha lavorato per anni all'epoca della gigantesca retata di Nord Sud; i questori Massimo Mazza, Francesco Messina e Vittorio Rizzi, che dovranno riferire «sui rapporti personali e professionali» con Gallo quando «si occupava prevalentemente della gestione dei collaboratori di giustizia»; i pentiti Saverio Morabito, Michele Amandini, Mario Inzaghi, Giorgio Tocci, Salvatore Pace , Federico Corniglia e il più temibile di tutti, Tonino Schettini. Che proprio da Gallo fu arrestato.
"Omicidio per incuria", dieci mesi a Domenici
Condanna mite, ma condanna. Per Leonardo Domenici, ex sindaco di Firenze e oggi europarlamentare del Pd, il pubblico ministero aveva chiesto quattro anni di carcere per omicidio colposo, indicandolo come principale responsabile della catena di inadempienze che aveva reso possibile la morte di una giovane donna. Ieri, dopo lunga camera di consiglio, il giudice Francesco Maradei infligge a Domenici meno di un quarto della pena richiesta: dieci mesi, con la condizionale. Una sentenza che rifila alla vittima, la ricercatrice della Crusca Veronica Locatelli, l'ottanta per certo delle colpe, accusandola in sostanza di essersi messa in pericolo di sua iniziativa. Ma quel venti per cento che resta è sufficiente a dichiarare colpevole l'ex primo cittadino.
È il secondo processo per i morti di Forte Belvedere, il castello che sovrasta Firenze e che per anni ha ospitato eventi e concerti. Due processi perché due furono i morti, a distanza di due anni. Il primo a precipitare nel vuoto fu Luca Raso, il 2 settembre del 2006. Che la mancanza di protezioni rendesse rischioso il Forte lo avevano detto in realtà anche una serie di altre morti, quelle di cani precipitati dalle mura. Ma nessuno era intervenuto. E, incredibilmente, neanche la tragedia di Luca aveva spinto il
Comune a rompere gli indugi, mettendo in sicurezza il Forte o chiudendolo. Così il 15 luglio 2008 a precipitare era stata Veronica Locatelli, 37 anni, regista e autrice teatrale.
Su entrambe le morti aveva indagato la Procura della Repubblica e si era andati ai giudizi: ma tra lentezze e resistenze che avevano portato le famiglie di Luca e di Veronica a parlare di un clima di pressioni e di condizionamento. «A me, donna di sinistra, questo processo ha fatto scoprire una Firenze che non conoscevo - disse la madre di Veronica - la politica fiorentina ha fatto cose vergognose per evitare che avessimo giustizia. E quando Domenici è stato rinviato a giudizio gli hanno espresso solidarietà. A lui, non a noi».
Per la morte di Luca, venne condannato a un anno un ex assessore. Per la morte di Veronica, sul banco degli imputati, Domenici sedeva insieme a due funzionari comunali e a tre dipendenti della cooperativa che aveva in gestione le attività. Ma sono stati tutti assolti tranne lui, l'ex sindaco, che il giudice ha ritenuto evidentemente il punto chiave della catena di comando. Soprattutto dopo la morte di Luca Raso, era impensabile che la situazione di emergenza al Forte non fosse sotto gli occhi del primo cittadino, ha sostenuto il pubblico ministero che ha chiesto la condanna. Ma tra la requisitoria e la sentenza è passato un tempo quasi interminabile: la richiesta di condanna per Domenici venne pronunciata dal pm nell'ottobre 2012, ma al momento della sentenza il giudice decise invece che servivano altri interrogatori; nel marzo dell'anno scorso nuova requisitoria e nuova richiesta di condanna; ma prima della sentenza sono passati altri undici mesi.
Condannato l'ex sindaco pd di Firenze. Nel 2008 una ragazza cadde dalla Fortezza: non c'erano protezioni

I fondi per l'infanzia usati dall'ex assessore per gli spot elettorali
Una sfilza di capi d'accusa piomba ieri mattina sul capo di Mariolina Moioli, fino al 2011 assessore all'Educazione del comune di Milano e donna forte della giunta di Letizia Moratti. Una inchiesta del pool Pubblica amministrazione della Procura, condotta dal pm Tiziana Siciliano e coordinata dal procuratore aggiunto Alfredo Robledo, analizza punto per punto la gestione dei progetti di utilità sociale varati dall'assessorato della Moioli nel periodo più delicato, quello a ridosso delle elezioni del 2011.
E la conclusione dei pm è drastica: i progetti finanziati dal Comune in alcuni casi non esistevano nemmeno, e in altri venivano utilizzati solo per arricchire gli amici della Moioli, quasi tutti nell'area della Cisl e della Compagnia delle opere, braccio nel business di Comunione e liberazione, da cui poi arrivavano i finanziamenti sottobanco della campagna elettorale dell'assessore. I soldi stanziati dal Comune per i progetti vennero, secondo i pm, utilizzati per pagare le interviste sotto elezioni della Moioli su Radio 105 ed anche - ed è l'episodio più colorito - per una megacena da 98mila euro il 6 maggio 2011, alla presenza dell'assessore e della sindaca Moratti (quest'ultima, secondo i pm, «inconsapevole della truffa in atto»).
La tempesta era data per probabile dall'ottobre 2012, quando era stato arrestato Patrizio Mercadante, il più importante dirigente dell'assessorato della Moioli, accusato di corruzione per la gestione degli appalti sulle case vacanze del Comune. Anche quella prima fase dell'inchiesta si muoveva tra Cisl e Cl. Ma i rapporti di collaborazione e di fiducia tra Mercadante e la Moioli erano così stretti e notori che erano in molti a ritenere che la Guardia di finanza avrebbe finito con lo scavare anche intorno al ruolo dell'ex assessore.
E così è accaduto. Al termine delle indagini, la Procura contestata alla Moioli i reati di truffa, peculato, turbativa d'asta e finanziamento illecito. Nel mirino ci sono almeno cinque campagne finanziate dall'assessorato sotto la gestione Moioli: «I giovani chiamano, Milano risponde», «Maturità senza paura», «Made in Milano», «Uno sguardo alla città». Progetti che esistevano solo sulla carta, secondo i pm. «Progetti non solo esistenti, ma validi e addirittura splendidi», ribatte ieri l'avvocato Benedetto Bonomo, legale di Mercadante.
Di altri progetti - come i lavori al Parco Trotter o in una serie di centri sociali - la Procura ammette l'esistenza, ma sostiene che i finanziamenti vennero truccati per fare in modo che ad approfittarne fosse una «amica ultraventennale» della Moioli, la bergamasca Myriam Gafforelli, di professione procacciatrice d'affari e madre dell'imprenditore Daniel Pezzini. I costi di lavori e forniture, secondo i pubblici ministeri, sarebbero stati gonfiati fino al doppio, in modo da garantire cospicue provvigioni alla «amica ultraventennale» dell'assessore. A scucire la grana fu, su richiesta della Moioli, anche A2a.

Guede sta per uscire. E per Meredith non c'è ancora giustizia
Eh sì: vaglielo a spiegare agli inglesi che per la giustizia italiana il tempo è relativo, che si allunga e si restringe. Che un processo che potrebbe durare un paio d'anni ne dura otto o dieci. E che una condanna a sedici anni di carcere può ridursi alla metà, basta comportarsi bene. Paradossi cui da queste parti siamo orma abituati. Ma tutto quello che succede intorno al delitto di Perugia costringe a occuparsi della giustizia italiana anche i giornali inglesi e americani, schierati su fronti opposti sulla tragedia della povera Meredith Kercher, ma concordi nel mostrarsi esterrefatti di fronte a quanto accade nei tribunali del Belpaese, alle sentenze che si smentiscono, si accavallano, si applicano a metà.
Stavolta a scandalizzare il Daily Mirror - quindi stampa popolare inglese, quindi connazionale della vittima, quindi ferocemente colpevolista verso la yankee Amanda Knox e il suo bell'italiano Raffaele Sollecito - è una notizia che viene dal carcere di Viterbo dove sta rinchiuso l'unico condannato definitivo della vicenda, l'ivoriano Rudy Guede, che sta scontando una pena di sedici anni per omicidio volontario. «Ha ottenuto un permesso in segreto per lasciare la sua cella così da poter proseguire gli studi in storia» tuona il Mirror, aggiungendo che per gli amici di Meredith questa notizia suona come un «sick joke», un brutto scherzo: «Potrà andare a studiare nella stessa università di Meredith».
In realtà Guede non è mai uscito di cella, né in segreto né ufficialmente. Ma la notizia del Mirror non è falsa, è solo un po' prematura. Guede tra poco uscirà, perché questo gli consente la legge italiana. Comincerà con qualche permesso premio, e un po' alla volta potrà chiedere la semilibertà. É già arrivato a metà della pena: è vero che la metà di sedici fa otto, ma (e anche questo non sarà facile spiegarlo agli inglesi) c'è da tenere conto della liberazione anticipata, 45 giorni ogni sei mesi.
Già così, non c'è da stupirsi se i giornalisti forestieri non si raccapezzano granché. Ma a rendere ancora più imperscrutabile Oltremanica quanto accade quaggiù c'è l'altalena dei processi paralleli, quelli ai presunti complici di Guede, ovvero Amanda e Raffaele, condannati, poi assolti, poi di nuovo condannati. E così il bilancio a tutt'oggi è che per l'uccisione di Meredith ci sono tre colpevoli, ma due di questi possono ancora sperare di essere assolti e comunque se ne stanno a piede libero a casa loro, mentre l'unico che è in galera (e che vive, va detto, questa esperienza con dignità) tornerà a vedere il sole senza scacchi tra poche settimane, e in ogni caso ben prima che sia concluso il processo ai suoi presunti complici.
Anzi. I conti con la giustizia per Guede potrebbero chiudersi del tutto anche prima del previsto, perché qualche giorno fa il Parlamento ha convertito in legge il famoso decreto svuotacarceri, quello che alza la liberazione anticipata a 75 giorni ogni sei mesi, in pratica uno sconto di 150 all'anno, e quindi di fatto dimezza le pene. In un sussulto di rigore, la Camera ha escluso i colpevoli di omicidio dal beneficio, ma intanto il decreto per un po'è rimasto in vigore anche per gli assassini, e quindi Guede potrebbe comunque chiederne i benefici. Ma questo forse è difficile da spiegarlo non solo agli inglesi.
Amanda e Lele liberi e lui potrà godere di permessi. E presto sarà fuori grazie alla "buona condotta"

Abu Omar, lo schiaffo della Consulta ai giudici: "Avete violato il segreto di Stato"
«Non spettava»: vengono ripetute spesso, queste due parole, nelle motivazioni depositate ieri sera della sentenza con cui la Corte Costituzionale ha accolto i conflitti di attribuzione sollevati dai governi Monti e Letta nel caso Abu Omar. Vengono annullate le sentenze che hanno portato alla condanna di Nicolò Pollari, ex capo dei servizi segreti militari, e dei suoi uomini, a partire dal capo del controspionaggio Marco Mancini. E il concetto, alla fine, è semplice: «non spettava» nè alla Cassazione nè alla Corte d'appello di Milano, e non spetta in genere alla magistratura ordinaria, valutare fin dove si possa spingere il velo del segreto di Stato. É il governo, l'autorità politica, e nessun altro, a sapere quali interessi pubblici siano in gioco quando si parla di sicurezza dello Stato. E non sta ai giudici sindacare.
É, di fatto, la pietra finale sulla vicenda iniziata quasi dieci anni fa, quando un commando della Cia prelevò a Milano Abu Omar, predicatore islamico già allora in odore di estremismo e poi condannato per terrorismo internazionale. Il prossimo 24 febbraio, quando la Cassazione aprirà l'ultima udienza, non potrà che prendere atto di quanto ha stabilito la Corte Costituzionale. E le condanne di Pollari (dieci anni), Mancini (nove anni) e degli altri 007 verranno cancellata. Il caso Abu Omar rimarrà tema da libri di storia e di diritto. Ma quale sia stato il ruolo del Sismi nella vicenda, se i nostri servizi abbiano saputo, ostacolato, collaborato, tutto questo resterà per sempre coperto da segreto di Stato.
Già una volta, nel 2009, la Corte Costituzionale aveva sancito la prevalenza degli interessi della sicurezza pubblica sul dovere della magistratura a indagare e perseguire i reati (come indubbiamente fu, per il nostro ordinamento, il sequestro di Abu Omar). Ma la Cassazione se ne era infischiata, e interpretando a suo modo la sentenza aveva riportato Pollari & C. sul banco degli imputati. Così i governi Monti e Letta si erano ritrovati costretti, come già i loro predecessori Prodi e Berlusconi, a ribadire l'esistenza del segreto di Stato e a chiedere l'intervento della Corte Costituzionale.
Ed ecco le motivazioni con cui la Consulta dà ragione al governo e torto ai giudici: «La disciplina del segreto involge il supremo interesse della sicurezza dello Stato-comunità alla propria integrità ed alla propria indipendenza», si legge nelle motivazioni. «L'apposizione del segreto da parte del Presidente del Consiglio dei ministri - cui spetta in via esclusiva l'esercizio della relativa attribuzione di rango costituzionale, in quanto afferente la tutela della salus rei publicae, e, dunque, tale da coinvolgere un interesse preminente su qualunque altro, non può impedire che il pubblico ministero indaghi sui fatti di reato, ma può inibire all'autorità giudiziaria di acquisire ed utilizzare gli elementi di conoscenza coperti dal segreto. Un ambito, questo, nel quale il Presidente del Consiglio dei ministri gode di un ampio potere discrezionale, sul cui esercizio è escluso qualsiasi sindacato dei giudici comuni, poiché il giudizio sui mezzi idonei a garantire la sicurezza dello Stato ha natura politica».
La Corte Costituzionale spazza via le sentenze della Cassazione e della Corte d'appello di Milano contro gli uomini del Sismi accusati del rapimento dell'imam. Ecco le motivazioni

Il congresso della Cgil finisce a botte
Le mani addosso tra di loro, finora, non se le erano ancora messe. Ieri la Cgil milanese deve prendere atto che un'altra frontiera è stata valicata: e il confronto interno, sempre più aspro e lacerante, segna il passaggio alle vie di fatto, con un sindacalista spedito all'ospedale dai suoi stessi compagni, e un dirigente storico dell'organizzazione come Giorgio Cremaschi che viene accusato di avere cercato a tutti i costi lo scontro ai soli fini della propria visibilità mediatica.
Tutto accade al teatro Franco Parenti di via Pier Lombardo, dove ieri era convocata la riunione dei quadri dirigenti della Cgil nei luoghi di lavoro per discutere dell'accordo nazionale sulla rappresentanza. Si tratta di un accordo contestato apertamente dai «duri» dell'organizzazione sindacale, con in testa la Fiom di Maurizio Landini. Anche in vista di una assemblea calda e difficile, la Cgil aveva deciso che a dirigere i lavori sarebbe stata Susanna Camusso, il segretario generale, che a Milano ha fatto tutta la sua carriera sindacale prima di arrivare ai vertici nazionali. Una, per capirsi, che sa per che verso prendere le contestazioni.
Ma neanche la Camusso probabilmente si aspettava quanto accade al Franco Parenti, con l'irruzione di Giorgio Cremaschi seguito da una decina di compagni. Della Fiom, Cremaschi - pur non avendo lavorato in una fabbrica metalmeccanica per un solo giorno dei suoi sessantasei anni di età - è stato dirigente prima a Brescia, poi a Torino, poi a Roma. Attualmente in Fiom non ha più alcuna carica, ma si sente ugualmente assai vicino alla leadership di Maurizio Landini: una leadership che, a costo di una rottura con le tradizioni della Cgil in questo settore, sta incarnando una deriva radicale che la rende più simile alla Fim Cisl degli anni Settanta e Ottanta che alla vecchia, seria e responsabile organizzazione dei metalmeccanici comunisti dell'epoca di Bruno Trentin e Pio Galli.
Sta di fatto che Cremaschi si presenta in teatro, chiede di parlare, non si capisce bene a che titolo. Gli viene detto di no dal servizio d'ordine. Lui insiste, e il servizio d'ordine della Cgil lo ferma senza troppi complimenti. Sul parapiglia che ne segue, come al solito, le versioni contrastano. Uno dei seguaci di Cremaschi crolla al suolo dicendo di essere stato colpito, e viene portato fuori a braccia. Cremaschi stesso, e di questo ci sono le immagini, viene afferrato per la collottola e portato su per le scale. Conseguenza inevitabile: della discussione sulla rappresentanza i media si disinteressano, mentre le immagini di Cremaschi strattonato fanno il giro del web. Ma anche l'incidente di via Pier Lombardo dà l'occasione alle diverse anime della Cgil di dimostrare la lontananza che le separa: con da una parte Nino Baseotto, segretario regionale, che dice «sarebbe stato carino da parte di chi ha fatto questa buriana lasciare la parola ai rappresentanti dei luoghi di lavoro che oggi sono qui», e Susanna Camusso che va giù ancora più piatta, «Cremaschi ha mancato di rispetto ai rappresentanti del mondo del lavoro che oggi dovevano parlare, questa scena l'abbiamo già vista, a Roma il 30 aprile, quando fece la stessa cosa all'inizio dei lavori per avere trenta secondi di televisione, senza l'interesse di ascoltare gli altri»; e dall'altra Maurizio Landini, che pur ricordando che Cremaschi non è più della Fiom, afferma che siamo davanti ad una prova della «gestione autoritaria della Cgil».

Il sequestro Abu Omar? Legittimo se compiuto per la sicurezza del Paese
Milano - Ci sono voluti dieci anni, quattro processi, due interventi della Corte Costituzionale e una grazia firmata dal presidente della Repubblica perché la straordinaria vicenda del rapimento di Abu Omar, imam milanese con simpatia per la guerra santa, arrivasse alla medesima conclusione cui, con e meno fatica, si è arrivati negli altri Paesi, qua e là per il mondo, dove la Cia in questi anni ha fatto sparire dalla circolazione i sospetti di terrorismo: e cioè che si tratta di vicende così delicate e così strettamente legate alla sicurezza degli Stati, che il governo ha diritto di coprirle con il mantello del segreto di Stato. E che la magistratura non ha il diritto di sollevare quel mantello. Nelle motivazioni, depositate giovedì sera, della sentenza con cui ha confermato l'esistenza del segreto e cancellato così le condanne di Nicolò Pollari, ex direttore del Sismi, e di quattro 007, la Corte Costituzionale si spinge però ancora più in là. E, in un passaggio che costituisce un inedito assoluto per la cultura italiana del diritto, scrive che anche un sequestro di persona può essere compiuto nell'interesse dello Stato, e come tale essere coperto dal segreto. «Pare arduo negare - scrive la Consulta - che la copertura del segreto si proietti su tutti i fatti, notizie e documenti concernenti le eventuali direttive operative, gli interna corporis di carattere organizzativo e operativo, nonché i rapporti con i servizi stranieri, anche se riguardanti le renditions ed il sequestro di Abu Omar. Ciò, ovviamente, a condizione che gli atti e i comportamenti degli agenti siano oggettivamente orientati alla tutela della sicurezza dello Stato».
Va ricordato che Pollari, il suo vice Marco Mancini e le altre «barbe finte» finite sotto processo sono attestati su tutt'altra linea: sostengono di non avere mai avuto alcun ruolo nel rapimento dell'imam, e affermano che se il governo - anzi, quattro governi di diverso colore, da Prodi a Berlusconi a Monti fino a Letta - non avessero imposto il segreto, essi avrebbero potuto dimostrare la loro innocenza. Ed è quanto Pollari torna ad affermare anche ieri: «Quando ho avuto notizia di fatti simili, ho svolto tutte le attività necessarie per impedire che chiunque li mettesse in atto», dice il generale. Ma quale sia la vera verità: quale ruolo abbia avuto il Sismi dell'epoca di Pollari o quello dei suoi predecessori; quali appoggi abbiano avuto gli uomini della Cia; come abbiano saputo che Abu Omar non era più pedinato, e si poteva dunque prelevare impunemente; insomma tutto il vasto retroterra di appoggi e di complicità, ma anche di rivalità, che ha accompagnato il rapimento del barbuto estremista, è destinato a restare nascosto nelle cassaforti di Palazzo Baracchini e di Palazzo Chigi. Pollari e i suoi escono di scena: il prossimo 24 febbraio la Cassazione prenderà atto che le condanne inflitte a Milano (dieci anni a Pollari, nove a Mancini, cinque agli altri) sono state inflitte utilizzando atti coperti da segreto, e quindi le azzererà: forse prosciogliendo tutti, o al massimo rispedendo il fascicolo a Milano per un nuovo processo dall'esito segnato. Scrive la Corte Costituzionale, nella sentenza scritta da Paolo Grossi, luminare di diritto canonico: «L'apposizione del segreto da parte del Presidente del Consiglio dei ministri, cui spetta in via esclusiva l'esercizio della relativa attribuzione di rango costituzionale, in quanto afferente la tutela della salus rei publicae, e, dunque, tale da coinvolgere un interesse preminente su qualunque altro, non può impedire che il pubblico ministero indaghi sui fatti di reato, ma può inibire all'autorità giudiziaria di acquisire ed utilizzare gli elementi di conoscenza coperti dal segreto».
Da segnalare, che la vera vittima di questa sentenza è a questo punto lui, Abu Omar, il rapito: che oggi dovrebbe trovarsi da qualche parte in Egitto, con sul capo una condanna a sei anni di carcere emessa in Italia nel dicembre scorso, ma anche il diritto a vedersi risarcito dallo Stato italiano ben un milione di euro in quanto vittima del Sismi. Di questo risarcimento, dopo la sentenza di ieri, l'imam-terrorista dovrà rassegnarsi a fare a meno. E magari dall'Italia qualcuno prima o poi chiederà la sua estradizione.
La sentenza che scagiona gli 007 e certifica il segreto di Stato è uno schiaffo alla Procura di Milano

Pollari: "Non ho colpe su Abu Omar Gli Usa non ci avvisarono"
«Ma le pare che con il rapporto che abbiamo con il mondo arabo avremmo potuto collaborare a una operazione del genere?». Solo alla fine dell'intervista il generale Nicolò Pollari, ex direttore del Sismi, si lascia un po' andare. E dice chiaramente che dietro al caso Abu Omar non ci sono solo diversità di cultura e di regole tra i servizi segreti italiani e quelli americani. Ma anche strategie assai diverse su come muoversi nel difficile scenario dell'Islam internazionale.
Generale, la sentenza della Corte Costituzionale che ha confermato il segreto di Stato sul caso Abu Omar spazza via la sua condanna a dieci anni di carcere. Contento?
«Il segreto di Stato non l'ho messo io, e anzi ho chiesto invano di esserne sollevato per dimostrare la mia innocenza. D'altronde sarebbe inverosimile che quattro governi di orientamenti diversi si trovassero d'accordo solo nel proteggere la mia persona. Figuriamoci se fanno i conflitti per difendere me».
E allora perché Prodi, Berlusconi, Monti e Letta hanno scelto di imporre il segreto sul rapimento dell'imam, a costo di scontrarsi con la magistratura?
«Ci possono essere anche motivazioni che non conosco. Di sicuro lo hanno fatto per tranquillizzare gli altri paesi, e dimostrare che questo è un paese serio».
In che periodo gli americani ci avvisarono che volevano portare via Abu Omar?
«Non ho mai detto che ci abbiano avvisati. Di certo se io avessi saputo che a qualcuno pungeva vaghezza di fare questa cosa avrei creato le condizioni perché ciò non avvenisse. Io ogni qualvolta ho avuto notizia che qualcuno potesse avvicinarsi a una prospettiva di questo genere mi sono impicciato per impedirlo».
Una intera comitiva di agenti segreti americani sbarca in Italia a rapire un presunto terrorista senza che i nostri servizi se ne accorgano? E cosa ci state a fare?
«Di chi entra in italia si occupa la polizia di frontiera. Se un organismo di intelligence interagisce con un organismo dello Stato la cosa non mi riguarda. Ho letto negli atti processuali che gli americani interagivano con la polizia di stato e con i carabinieri. Bisognerebbe chiedere a loro il perché di questa interazione».
L'impressione è che gli americani qui si muovessero come a casa propria.
«Nel mio Sismi non c'era subordinazione né metus verso nessuno. Noi siamo un organo di questo paese, non abbiano complessi di inferiorità verso nessuno, siamo l'espressione di una piccola realtà ma dotati di spiccato senso di autonomia».
Dopo quanto accaduto, l'inchiesta, gli arresti, i processi, gli americani si fidano ancora di noi?
«Io non mi sono mai occupato se si fidassero o no, io mi occupavo degli interessi del paese. Nei rapporti internazionali la collaborazione e fatta di lealtà, ma la mia lealtà finiva dove iniziavano i reati. E il Sismi guardava a se stesso. Noi avevamo la nostra efficienza nel mondo di cui hanno beneficiato molti paesi. Certo, nel mondo dell'intelligence la fiducia riguarda soprattutto le persone e, come è noto, si conquista lentamente e si perde rapidissimamente. Suppongo che la fiducia verso le persone non sia venuto meno, e anzi si siano meravigliati dello spirito di sopportazione che abbiamo dimostrato in questi anni. Il dottor Marco Mancini è stato messo addirittura in carcere».
Ma ad accusarvi era un funzionario del Sismi.
«Non so se ho mai visto in vita mia il colonnello D'Ambrosio, non ho mai visto in vita mia Bob Lady. Ma gli americani sanno come sono andati i fatti, e sanno che noi non c'entriamo. E lo sanno anche gli egiziani».
La Consulta smonta la condanna dell'ex capo del Sismi. "Segreto di Stato opposto da 4 governi"
Cinque panchine d'oro per arredare una via Costano 200mila euro
E meno male che l'impresa Mami, vincitrice dell'appalto, ha offerto un robusto ribasso del 26,8 per cento. Anche così, a leggere il cartello e a guardare il progetto, quelle su cui i milanesi potranno poggiare il fondoschiena tra qualche settimana saranno le panchine più care del mondo. Cinque panchine, duecentomila euro. Totale, quarantamila a panchina. Chissà di cosa sono fatte. Tutto accade nel centro più centro che si può: via Marconi, il breve tratto di strada che da piazza del Duomo va verso piazza Diaz. Tratto di strada da sempre brutto e irrisolto, stretto tra l'Arengario e Palazzo Reale, e solo di recente tornato un po' a sorridere con l'apertura del Museo del Novecento. Ma che bisognasse in qualche modo metterci più compiutamente le mani erano in molti a pensarlo. E così, dopo l'elaborazione del progetto da parte degli uffici tecnici del Comune, è partito il cantiere. La risistemazione di via Marconi è stata inserita all'interno del progetto che in modo un po' aulico viene definito «interventi mirati per il miglioramento e il recupero di spazi pubblici in grado di garantire l'immagine coordinata della città». Piano e progetto portano le date del 2009 e del 2010, ancora sotto la giunta Moratti, ma i lavori in piazza del Duomo sono iniziati solo di recente. Sono stati alzate palizzate e transenne, e come la legge prevede sono stati affissi i cartelli con nomi dei progettisti, importo, impresa esecutrice. Ci sono anche le immagini destinate a far capire ai passanti il senso dell'operazione: com'era prima la via e come sarà dopo, grazie al rendering, l'elaborazione computerizzata del progetto.
Proprio qui, però, nascono i problemi. Perché i milanesi che si trovano a guardare i progetti faticano a cogliere la differenza tra il prima e il dopo. Come nel famoso gioco della Settimana Enigmistica «Aguzzate la vista», bisogna mettersi di buzzo buono per cogliere la diversità tra le due immagini. E le diversità sono davvero minimali. Spariscono cinque fittoni, ovvero paracarri. E compaiono cinque panchine di pietra. Fine. Costo totale dell'operazione, sempre in base a quanto comunica il cartello, duecentomila euro. Possibile? Lo stupore non scema granché se si guarda l'altro rendering, che propone il «prima» e il «dopo» da un'altra angolazione, verso il Museo del Novecento. Qui i fittoni ricompaiono, prendendo il posto delle «parigine», i dissuasori in metallo; e, sempre per la serie «Aguzzate la vista», due righe bianche curvilinee sulla pavimentazione vengono sostituite da due righe rosse parallele. Fine. Come è possibile che un simile intervento possa costare duecentomila euro - ovvero quattrocento milioni delle vecchie lire - è un piccolo mistero. Ma il vero problema è che, a guardarle, le cinque panchine hanno un'aria dannatamente scomoda.
Gli interventi di riqualificazione cambiano ben poco. E i pregiatissimi pezzi sembrano anche scomodi

Il «ritratto» nella relazione annuale della Dna il caso
Enrico Lagattolla
In fondo, non è cambiato nulla da quando Francesco Saverio Borrelli la cacciò dal pool antimafia accusandola per iscritto di «una carica incontenibile di soggettivismo, una mancanza di volontà di porre in comune risultati, riflessioni, intenzioni». Sono passati ventitrè anni, e Ilda Boccassini non è cambiata. Anche adesso, ad accusarla non è un inquisito ma un suo stesso collega, un magistrato come lei. Stavolta si tratta di Filippo Spiezia, sostituto procuratore nazionale antimafia, chiamato a stendere la parte dedicata a Milano della relazione annuale sullo stato della lotta al crimine organizzato. La relazione è stata divulgata dal capo della Direzione nazionale antimafia Franco Roberti - sbarcato nel luglio scorso sulla poltrona lasciata libera da Piero Grasso, approdato alla presidenza del Senato - e dà atto dei successi della direzione distrettuale antimafia di Milano, il pool diretto da Ilda Boccassini, nella lotta al crimine organizzato. Ma poi arrivano le dolenti note. Perché Spiezia lancia accuse esplicite contro il pool di Ilda, colpevole di non raccontare a nessuno quello che fa, e di non condividere le informazioni neanche al proprio interno.
Sono accuse gravi, perché la legge prevede il contrario: i pool locali hanno l'obbligo di comunicare alla Direzione nazionale le proprie attività, in modo da permettere a Roma di svolgere la funzione di coordinamento; e all'interno dei pool è previsto lo scambio di notizie sui fascicoli, per individuare i punti di contatto. Va ricordato che a prevedere questi obblighi fu la legge istitutiva della Dna voluta da Giovanni Falcone, che la Boccassini ha sempre considerato una sorta di padre spirituale.
E invece ecco quanto si legge nella relazione della Dna: esistono «perduranti criticità nei rapporti con la Dda di Milano, che incidono sull'esercizio delle funzioni di questa Dna». Queste difficoltà di dialogo impediscono di «cogliere tempestivamente e in modo sostanziale i nessi e i collegamenti investigativi tra le altre indagini in corso sul territorio nazionale» che presentano «profili di collegamento» con quelle in corso nel capoluogo lombardo. E non si tratta di dimenticanze, di distrazioni: da parte del pool di Ilda c'è «la preclusione posta a conoscere specificatamente gli atti relativi ad indagini in corso e, tanto meno, le richieste cautelari avanzate, essendo state quest'ultime rese conoscibili solo dopo l'esecuzione delle misure» di custodia cautelare.
Dei suoi colleghi romani, insomma, la Boccassini non si fida. Il guaio è che a quanto pare non si fida neanche degli stessi pm del suo pool: le problematiche «riguardano lo scambio informativo all'interno dello stesso ufficio», perché «le notizie relative alle indagini dei singoli procedimenti non risultano essere patrimonio comune di tutti i magistrati componenti della Dda».
È la traduzione di quanto a Milano era affidato finora ai brontolii da corridoio della Procura: quello di una squadra cruciale, il pool antimafia, affidato a un magistrato famoso per la sua determinazione investigativa e la capacità di lavoro, ma altrettanto nota per fidarsi solo di se stessa e di pochi e selezionati pm. Forse aveva paura che, se l'avesse raccontato ai romani, i colleghi avrebbero avvisato Berlusconi che stava indagando su di lui.
Tutta colpa del caratteraccio: storia di Ilda la Rossa, scaricata dai suoi stessi colleghi
«La verità - racconta un magistrato che la conosce bene - è che Ilda non ha mai voluto al suo fianco colleghi, ma solo gregari. É talmente convinta di essere dalla parte della ragione che fatica a elaborare il dissenso. Per questo, alla fine, si è ritrovata a litigare con tutti, o quasi».
Nulla di nuovo sotto il sole, si dirà: è raro che gli esseri umani migliorino con l'età, e Ilda Boccassini, compiuti da poco i sessantatrè anni, non fa eccezione. Le asprezze del suo carattere sono da sempre note. Ma da questa mattina, nella carriera della dottoressa, c'è un nuovo, scomodo, capitolo: la relazione piovutale addosso dalla Direzione nazionale antimafia, altrimenti nota come Superprocura, ovvero l'organismo giudiziario che deve coordinare l'attività dei pool antimafia di tutte le procure italiane. Il pool milanese - nome tecnico, Direzione distrettuale antimafia - è uno dei più importanti. E alla sua guida c'è lei, la Boccassini, procuratore aggiunto della Repubblica. Sotto la sua guida, il pool antimafia ha portato a segno retate su retate contro quanto rimane di Cosa Nostra al nord, e soprattutto contro i clan della 'ndrangheta. Sempre sotto la sua guida, la Dda milanese ha condotto l'inchiesta su Silvio Berlusconi per il caso Ruby, coronata dalla condanna dell'ex premier a sette anni di carcere.
Ma sotto la sua guida, dice la Direzione nazionale, la Dda milanese si è anche trasformata in organismo lontano dai criteri di collaborazione che sono alla base della legge che ha creato i pool e la superprocura stessa. Fu, a ben ricordare, una delle più importanti intuizioni di Giovanni Falcone, che per questo venne messo in croce dai suoi stessi colleghi, che lo accusarono di aprire la strada al controllo dei pm da parte del governo: la creazione di una struttura centralizzata che superando campanilismi senza senso coordinasse le attività antimafia di tutte le procure italiane. Perchè questo possa accadere, è indispensabile che dalle procure locali il flusso di informazioni verso Roma sia costante. Ma proprio qui, scrive la Dna, casca l'asino. Milano, ovvero la Boccassini, non ci racconta niente. Peggio: anche al suo interno, il pool antimafia di Milano non fa circolare le informazioni.
Così, all'improvviso, sulla Boccassini ricade l'accusa che la ha accompagnata per tutta la sua carriera. L'accusa di essere un cavaliere solitario. Di non fidarsi di nessuno. Di non saper lavorare in gruppo. Per questo nel 1991 il suo capo di allora, Francesco Saverio Borrelli, la estromise dal pool antimafia. Lei l'anno dopo se ne andò in Sicilia a dare la caccia agli assassini di Falcone. Ma anche qui i problemi vennero a galla in fretta: si scontrò frontalmente con il procuratore di Palermo, Giancarlo Caselli, e se ne tornò al nord. A Milano, ha ottenuto la guida del pool antimafia, ma anche qui non sono state rose e fiori: al suo arrivo se ne andò quasi subito Celestina Gravina, una delle menti storiche del pool; e poco dopo anche Mario Venditti, altro pm di lungo corso, preferì cambiare incarico. Allontanamenti mai motivati ufficialmente con i dissapori con «la capa». Ma a Palazzo di giustizia tutti sanno che dietro c'è l'insofferenza, in particolare dei pm più anziani, verso il modo della Boccassini di gestire la squadra.
Basta leggere le intestazioni dei fascicoli per capire, d'altronde, che la Boccassini si fida - per le cose cui annette importanza - di un paio di sostituti al massimo. A tutti gli altri assegna i fascicoli di secondo piano, e, come ha rilevato la Dna, non racconta nemmeno quali inchieste sono in corso. Proprio a uno dei suoi pm di fiducia, Paolo Storari, la Boccassini aveva chiesto che venisse assegnata anche la nuova indagine su Berlusconi, il cosiddetto Ruby ter. Ma il procuratore Edmondo Bruti Liberati ha preferito assegnare il delicato fascicolo ad un altro pool e a un altro pm. Non si sa quale sia stata la reazione della Boccassini.
Il problema è che da parecchio tempo Ilda ha manifestato la convinzione che il ruolo di procuratore aggiunto le sta stretto, e che sia venuto il momento per il Csm di assegnarle la guida della procura di una grande città. Le sue domande finora sono state sempre respinte. Ma ora sta puntando su Firenze. Ha l'anzianità e i titoli per potercela fare, indubbiamente. Ma il giudizio decisamente critico della Direzione nazionale antimafia rischia di convincere il Csm che è rimasta la Ilda di sempre: un mastino delle indagini, un magistrato dalla volontà di ferro e dalle capacità non comuni. Ma priva di quelle capacità di dialogo e di mediazione senza le quali organismi anche meno complessi di una Procura faticano ad andare avanti.
Dalle liti con Borrelli alla rottura con Caselli, fino alla bocciatura da parte della superProcura, così la Boccassini ha finito col ritrovarsi isolata

Osa criticare Boccassini: pm cacciato
Milano - É durata poco la messa in stato di accusa di Ilda Boccassini, procuratore aggiunto della Repubblica e capo del pool antimafia di Milano. Neanche il tempo di asciugare l'inchiostro sui giornali che riportavano la relazione della Procura nazionale antimafia che attribuisce alla dottoressa con i capelli rossi una lunga serie di violazioni degli obblighi di collaborazione con i colleghi e con i suoi stessi sostituti: e dai vertici della Procura nazionale parte un comunicato che, sconfessando la relazione della stessa Procura, tesse le lodi di Ilda e del suo pool. Ma la notizia è soprattutto un'altra: l'autore della relazione contro la gestione della Boccassini viene allontanato dal suo posto. Non sarà più lui a occuparsi di quanto accade a Milano. Il magistrato che paga col cambio di mansioni le critiche alla Boccassini è Filippo Spiezia, napoletano, 51 anni, in forza come sostituto alla Direzione nazionale antimafia (che è il nome ufficiale della superprocura). Alla Dna, ognuno dei sostituti ha la competenza su una determinata area del paese: mantiene i contatti con i pool antimafia di quel territorio, riceve le notizie, coordina le indagini. Spiezia aveva la competenza ad occuparsi di Milano. É in questa veste che ha dovuto occuparsi del pool diretto da Ilda Boccassini, seguendone le inchieste, venendo spesso a Milano, dialogando con i componenti del pool del capoluogo lombardo. Quando è venuto il momento di mettere nero su bianco, nella relazione annuale della Dna, le sue valutazioni sulla situazione milanese, Spiezia ha dapprima dato atto dei numerosi successi incassati dal pool di Ilda nella caccia al crimine organizzato. Ma poi ha, senza tanta diplomazia, indicato anche le «criticità» della interpretazione del suo ruolo da parte della Boccassini, sia nei rapporti con la Dna che all'interno del pool stesso. «Perduranti criticità nei rapporti con la Dda di Milano, che incidono sull'esercizio delle funzioni di questa Dna», impedendo di «cogliere tempestivamente e in modo sostanziale i nessi e i collegamenti investigativi tra le altre indagini in corso sul territorio nazionale», «preclusione posta a conoscere specificatamente gli atti relativi ad indagini in corso e, tanto meno, le richieste cautelari avanzate». D'altronde «le notizie relative alle indagini dei singoli procedimenti non risultano essere patrimonio comune di tutti i magistrati componenti della Dda».
La relazione di Spiezia andava dunque a toccare un tasto dolente del profilo professionale della Boccassini, cui spesso i suoi capi, pur riconoscendone le capacità professionali, hanno accusato di essere refrattaria al lavoro di squadra, di non fidarsi di nessuno che non la pensi esattamente come lei. In passato, sia Francesco Saverio Borrelli, suo capo a Milano, che Giancarlo Caselli, che lo fu a Palermo, si erano scontrati con lei proprio su questi temi, e Ilda ne era uscita sconfitta. Stavolta invece a perdere è il collega che ha osato accusarla: il nuovo capo della Dna, Franco Roberti, di fronte alla arrabbiatura di Ilda - sostenuta apertamente dal procuratore capo Edmondo Bruti Liberati - ha disposto che d'ora in avanti ad occuparsi di Milano non sarà più Filippo Spiezia ma un altro sostituto nazionale, Anna Canepa. Motivo, come si spiega lo stesso Roberti, le «difficoltà di dialogo» tra Spiezia e il pool milanese, ovvero con la Boccassini. Davanti a queste difficoltà, sarebbe stato lo stesso Spiezia a gettare la spugna: dopo avere messo per iscritto il suo pensiero sulla famosa collega.
Il giudice Spiezia, autore della relazione contro Ilda "la rossa", è stato subito allontanato dal suo posto

Ecco perché i clandestini entrano nelle case popolarila storia
«E dire che a vederla sembra una bella casa. Il giardino, gli alberi... Ma dentro è allucinante. Siamo nelle mani degli abusivi. E poche mattine fa sono tornati alla carica per sfondare un'altra porta e impadronirsi di un altro appartamento. Io ho fatto il mio dovere, e ho chiamato la polizia e l'Aler. Bene, non si è fatta vedere nè l'una nè l'altra. Così quelli hanno continuato per ore a fare i loro comodi, cercando di scassinare la porta, fin quando si sono arresi e se ne sono andati. Ma torneranno, questo è sicuro».
La signora che fa questo racconto chiede di non mettere nè nome nè indirizzo: e come darle torto, quando a ripetizione si legge di inquilini delle case popolari costretti a vivere nella paura o a cambiare quartiere per avere denunciato il racket degli abusivi? Basti sapere che la storia si svolge in zona San Siro, uguale a tante altre che avvengono nei quartieri Aler della città e dell'hinterland. E che a lasciare di sasso non è tanto la protervia degli abusivi quanto l'ignavia di chi dovrebbe fronteggiarli. «Il 113 - racconta l'inquilina regolare - mi ha risposto che avrebbero avvisato il pronto intervento Aler. Il numero verde Aler mi ha risposto che sarebbero usciti appena possibile. Sa quando sono arrivati? Il giorno dopo, alle sette di sera, a rappezzare i danni».
Ad abitare nella casa di San Siro la signora è arrivata due anni fa, quando («il peggior sbaglio della mia vita») ha chiesto di lasciare la casa popolare dove abitava, «non c'era la messa a terra e non potevo neanche attaccare il condizionatore». «Quando sono arrivata qui l'appartamento di sopra era già sfitto, non so da quanto. Aveva la porta blindata ma l'avevano sfondata, poi hanno messo una lastra di ferro. L'anno scorso ha iniziato a venirmi giù l'acqua in casa, ho chiamato l'Aler e sono usciti. Di sopra era pieno di piccioni morti e di tutti i loro escrementi. Un orrore».
Ed è per impadronirsi di questa spelonca da trentacinque metri quadri che gli abusivi l'altro giorno sono tornati all'attacco. «Nelle altre scale è un disastro, ci sono appartamenti dove la gente va e viene ogni settimana, facce che cambiano, in sette in una stanza, uomini che sputano sulle scale. Credo che il 70 per cento siano tossicodipendenti. Così quando ho sentito che stavano sfondando anche sopra di me sono uscita a sbirciare: con cautela, eh, che qui si rischia. Erano lì con gli attrezzi che lavoravano con calma. Non so cosa sia stato a fermarli. Di certo non l'intervento delle guardie giurate, che si sono viste solo il giorno dopo».
A convivere con il disastro dell'abusivismo, la signora e gli altri inquilini perbene del palazzone di San Siro hanno dovuto imparare sulla loro pelle. «Il portone è stato divelto, non c'è più nessun controllo su chi entra e chi esce. Qualche settimana fa, quando era sceso il freddo, c'erano interi gruppi di senza tetto che salivano a dormire nei solai».
«Io - dice ancora la malcapitata - ho chiesto all'Aler di poter cambiare di nuovo casa: meglio soffrire il caldo ma star tranquilla che vivere in questo schifo. La verità è che siamo in mano ai delinquenti e nessuno fa niente. E pensare che siamo a Milano, la città dell'Expo e di tante belle parole. Ma a me sembra di vivere a Scampia».
«Boom di corruzione con Serravalle»
É una montagna di soldi, il totale dei danni che le amministrazioni pubbliche in Lombardia hanno subito per effetto di corruzione e sprechi, e di cui nell'ultimo anno i colpevoli sono stati chiamati a rispondere: 179 milioni di euro cui la Corte dei conti ha iniziato a dare la caccia, senza illudersi di recuperarli tutti, ma nella speranza di impedire ai colpevoli di godersi in pace il maltolto. É una cifra enorme soprattutto se confrontata all'anno precedente: erano stati solo 11 milioni nel 2012. Il procuratore regionale della Corte dei conti della Lombardia, Antonio Caruso, nel suo discorso di ieri non ha fornito l'elenco dettagliato delle vicende e degli appalti che hanno portato a dissipare il malloppo, ma ha indicato il buco più profondo scavato nelle casse degli enti locali lombardi: l'affare Serravalle, l'operazione di acquisto delle azioni dell'autostrada deciso dalla Provincia di Milano, che da solo - tra esborsi inutili della Provincia e svalutazione delle quote in mano al Comune - avrebbe provocato un danno di oltre cento milioni.
Fu, come è noto, una operazione fortemente voluta dal Partito democratico, e in primis del leader indiscusso del Pd milanese, il presidente della provincia Filippo Penati, ex sindaco di Sesto San Giovanni. Secondo le indagini della procura di Monza, che per questo ha portato Penati sul banco degli imputati, non fu un caso di incapacità ma di corruzione: dal gruppo Gavio, che cedette le sue quote alla Provincia ad un pezzo robustamente gonfiato, si sdebitò a suon di tangenti, utilizzate per finanziare la campagna elettorale di Penati. Sono passati anni, ma solo ora quei nodi vengono al pettine, e solo ora la Corte dei conti può chiedere ai responsabili di risarcire il danno.
Fu un caso episodico, l'affare Serravalle, o la prova che a vent'anni dall'inchiesta Mani Pulite il sistema della tangente è ancora radicato e diffuso quanto prima? Secondo il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, i paragoni con il passato sono improponibili: «Sono convinto che i fenomeni di corruzione purtroppo continuino ma non c'è più quel sistema corruttivo che Mani Pulite aveva smontato. Oggi ci sono singoli episodi di corruzione, molto gravi alcuni, meno altri, estremamente pericolosi e su cui bisogna tenere gli occhi aperti e i fari accesi ogni giorno». Anche episodi come quelli dei giorni scorsi, con gli arresti di vicesindaco e assessore all'ambiente di Cologno Monzese, accusati di avere imposto tangenti con sconcertante disinvoltura sugli appalti per la nettezza urbana, non hanno convinto il sindaco che la tangente sia tuttora una prassi endemica.
L'analisi che arriva dalla Corte dei conti è più pessimistica: anche se va ricordato che è una analisi fatta col senno di poi, basata su quanto emerso dalle inchieste penali e non da un efficace sistema di vigilanza contabile. Secondo il procuratore Antonio Caruso, «il cammino da compiere appare ancora molto ripido e la velenosa pianta corruttiva è tuttora ben lungi dall'essere non solo estirpata ma anche più semplicemente ridotta in modo apprezzabile». A rendere ostico contrastare il fenomeno c'è anche una certa tendenza all'omertà: «Nella prassi gli illeciti penali e contabili derivanti da fenomeni corruttivi sono connotati da una assai scarsa propensione alla denuncia». In Lombardia, ha concluso Caruso, la corruzione «è liquida, diffusa ovunque e difficile da recuperare»

Sequestro Abu Omar, il pg di Cassazione: "Annullare le condanne"
La condanna per sequestro di persona di Nicolò Pollari e degli altri uomini del Sismi accusati del sequestro Abu Omar è stata inflitta violando il segreto di Stato e utilizzando atti che non potevano essere utilizzati, nonostante che il segreto su di essi fosse stato apposto e confermato da tre diversi governi: per questo il procuratore generale della Cassazione, Galasso, ha chiesto stamane l'annullamento delle condanne inflitte dalla Corte d'appello di Milano e la trasmissione degli atti al capoluogo lombardo per un nuovo processo. Per il pg, si tratta della conclusione obbligata dopo la sentenza della Corte Costituzionale che ha dato ragione su tutta la linea al governo, accogliendo i conflitti di attribuzione sollevati dal consiglio dei ministri contro la magistratura. La Consulta ha stabilito che la salus rei publicae, l'interesse dello Stato alla sua sicurezza, viene prima di qualunque altro interesse ed obbligo: compreso quello della magistratura a perseguire i reati.
A venire annullata, in particolare, deve essere secondo il pg Galasso la sentenza della Corte d'appello milanese che ha inflitto dieci anni di carcere a Pollari, nove al capo del controspionaggio Marco Mancini e cinque altri 007. Ma a venire smentita sarebbe di fatto la stessa Cassazione, che per prima aveva contestato la legittimità del segreto di Stato apposto sulla vicenda del rapimento dell'imam, effettuato a Milano nel febbraio 2003 da una squadra di agenti della Cia.
La parola è passata adesso agli avvocati difensori. Se la sentenza, che è prevista per la giornata di oggi, accogliesse la richiesta del pg e gli atti tornassero a Milano per un nuovo processo, l'intera vicenda si avvierebbe quasi inevitabilmente verso la prescrizione, chiudendo senza vincitori né vinti lo scontro tra istituzioni in merito alla complessa vicenda. E gli unici condannati con sentenza definitiva resterebbero l'ex capocentro Cia di Milano Bob Lady e gli altri 007 americani che parteciparono, in modo a dire il vero un po' maldestro, alla preparazione e alla esecuzione della rendition. Insieme agli agenti Cia è stato condannato anche l'ex comandante della base Usa di Aviano dove Abu Omar venne imbarcato su un aereo per la Germania, Joseph Romano III, che però è stato graziato dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.
Chiesto l'annullamento della condanna di Pollari e degli altri uomini del Sismi accusati del sequestro dell'ex imam
