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L'attentato-suicidio dei Gap raccomandato da Togliatti

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Il Migliore impose di usare i giovanissimi nelle azioni contro i nemici. Come nel 1944 a Sesto San Giovanni...

Chissà se Giangiacomo Feltrinelli, editore rivoluzionario, e i suoi seguaci che negli anni Settanta si diedero alla lotta armata, avevano studiato fino in fondo la storia dei Gap. La banda di Feltrinelli venne chiamata così, Gruppi di azione partigiana, in omaggio alla struttura clandestina, diretta emanazione del Partito comunista, che durante la guerra civile era stata la punta di diamante della Resistenza a Milano e nel suo hinterland. Era un mito, quello dei Gap, che aveva permeato profondamente il movimento del Sessantotto, e che fu importante nello spingere verso il terrorismo alcuni settori radicali dell'ultrasinistra: mito formato da ortodossia ideologica, e soprattutto da efficienza militare. Ma il tempo passa, la storia di quegli anni viene riscritta senza furori di parte. E anche il mito dei Gap ne esce ridimensionato. Del cinismo di alcune scelte dei Gap, come dimostra l'attentato di via Rasella a Roma, si è ampiamente dibattuto. Ma ora un libro di Marco Manuele Paolini costringe a rimettere in discussione anche il lato del mito che sembrava meno scalfibile: la capacità operativa, la compartimentazione ferrea.

Al centro del libro di Paolini, Il ragazzo della Quinta (Mursia, pagg. 146, euro 14) ci sono un ragazzo e un attentato. Il ragazzo si chiamava Felice Lacerra, era nato nel 1927 a Sesto San Giovanni da una famiglia di immigrati, a quindici anni era già operaio alla Breda. L'attentato è quello che proprio a Sesto, la sera del 10 febbraio 1944, prende di mira la locale Casa del Fascio, dove è in corso la riunione per la nomina del fiduciario. L'azione in sé è maldestra, e provoca meno danni di quanto i gappisti si proponevano facendo irruzione con mitra e bombe a mano: due repubblichini uccisi, un altro paio feriti. Ma ben più disarmante è il pressapochismo nella preparazione dell'attentato, che avrà conseguenze catastrofiche per gli organizzatori. I Gap sestesi verranno smantellati quasi per intero dalle indagini successive all'attacco.

Era un lavoro crudo, quello dei Gap. Non si trattava di combattere a viso aperto, in montagna, affrontando i reparti ben più armati della Rsi e degli occupanti tedeschi, ma di uccidere a sangue freddo, alle spalle. Lavoro necessario, ma che selezionava inevitabilmente un certo tipo di militante, pronto alla freddezza e ai sacrifici della clandestinità. «Raccomandiamo di non aver paura di mettere avanti i giovani, i quali hanno coraggio e audacia», scriveva Palmiro Togliatti. E in effetti i quadri dei Gap erano spesso sui vent'anni. Ma per l'attentato a Sesto si scelse di mettere in prima linea addirittura un sedicenne: Felice Lacerra. A lui venne affidato il ruolo più difficile: l'infiltrato. Si iscrisse al Pnf, iniziò a frequentare la Casa del fascio, si conquistò la fiducia dei camerati, gestendo un ruolo da agente doppio che avrebbe spezzato i nervi a gente ben più adulta di lui. Fu lui a segnalare ai Gap la data della riunione, e ad aprire dall'interno le porte al commando armato.

Se già questa scelta appare azzardata, ancora più incomprensibile appare quella di non allontanare Felice da Sesto subito dopo l'attacco. La mattina dopo, il ragazzo andò a lavorare in Breda come se niente fosse, ovviamente venne arrestato, e si può immaginare quale trattamento gli fu riservato. Fece il nome di un partecipante all'irruzione, Luigi Ceriani il quale, fermato a sua volta, cantò ben più di Felice, facendo arrestare l'intero distaccamento sestese dei Gap. In carcere alcuni resistettero, altri parlarono. I due capi, Egisto Rubini e Oreste Ghirotti, si uccisero in cella per non cedere alle torture.

In aprile viene arrestato Primo Grandelli, dei Gap di Milano che avevano collaborato all'azione con i sestesi. Incredibilmente, ha con sé un quaderno con i nomi di tutti i compagni che vengono arrestati in blocco. I Gap a quel punto non esistono praticamente più, e si dovrà attendere l'arrivo in città di Giovanni Pesce perché la struttura armata del Pci venga ricostituita. «Fu tutto uno sbaglio, dall'inizio alla fine», dirà Carlo Camesasca, il gappista che pochi mesi prima aveva partecipato all'uccisione del federale di Milano, Aldo Resega. D'altronde sono gli stessi Gap che l'8 agosto dello stesso anno in viale Abruzzi metteranno una bomba su un camion della Wehrmacht che distribuiva aiuti alimentari: non morì neanche un tedesco, ma restarono uccisi sei milanesi in coda per il cibo. La rappresaglia nazista fu la strage di piazzale Loreto.

Insomma, altro che efficienza. Coraggio, indubbiamente, ma anche pressapochismo e decisioni sciagurate. E il giovane Felice Lacerra? Fu deportato a Fossoli, vicino Carpi, in un campo di concentramento dal volto umano. La mattina del 12 luglio, sessantasette prigionieri del campo vennero portati dalle Ss in un poligono, a Cibeno, e uccisi con un colpo alla nuca. Felice era uno di loro. Lo riconobbero i genitori quasi un anno dopo, esumato dalla fossa comune, dal libretto della mensa della Breda.


Il controllo casuale poi la sparatoria con i poliziotti: la belva di Berlino muore a Milano

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Il treno da Chambery, la foto in stazione Centrale e alle tre del mattino gli agenti lo fermano a Sesto San Giovanni. Amri estrae una calibro 22 e ferisce un uomo al grido «poliziotti bastardi». Poi il collega lo atterra

Il sole pallido dell'antivigilia non riesce ad asciugare la pozza di sangue. Qui, sull'asfalto di una brutta piazza di periferia, è finita la corsa di Anis Amri, la belva della strage di Berlino. E, guardando la pozzanghera di sangue che non si secca, ci vuole tutta la carità cristiana di questo mondo per non pensare che qui, in piazza Primo Maggio, davanti alla stazione dei treni di Sesto San Giovanni, Amri ha avuto quel che si meritava. Ma è inevitabile dire che qui si è compiuto il destino che questo giovane uomo dalle labbra carnose si è costruito con le sue stesse mani, quando si è arruolato nelle file della jihad, quando ha ammazzato un camionista per rubargli il tir, quando si è lanciato a massacrare uomini e donne innocenti nel mercato natalizio di Breitscheidplatz. E da ultimo alle tre del mattino di ieri, quando ha cercato di mandare al creatore un poliziotto. «Poliziotti bastardi», sono le ultime parole della sua vita. Requiescat.

Le forze di sicurezza di tutta Europa gli davano la caccia: tre giorni intensi, frenetici, seganti da errori e da piste false. E che terminano quasi per caso, con il controllo che nel cuore delle notte la volante «Alfa Sesto» decide di compiere i piazza Primo Maggio. Un passaggio di routine, davanti a uno dei tanti obiettivi sensibili cui, nei giorni tesi di queste feste, si dà un occhio particolare. Alla guida c'è Luca Scatà, accanto a lui il capopattuglia Cristian Movia. È Movia a notare l'uomo con lo zainetto in spalla che si aggira nella piazza, e a decidere di dargli un'occhiata. Molto altro da fare non c'è, nella quiete della notte sestese.

La volante si ferma, Movia e Scatà scendono. Tranquilli loro, la guardia abbassata; apparentemente tranquillo l'uomo. Gli chiedono i documenti. Non li ho, risponde quello. «Svuota le tasche e lo zaino e metti tutto sul cofano della nostra macchina». L'uomo continua a sembrare tranquillo. Quando in mano gli appare una pistola, le Beretta dei poliziotti sono ancora nelle fondine. Movia si prende una pallottola alla spalla ma riesce a restare in piedi, apre il fuoco anche lui, l'uomo si lancia dietro l'Alfa 159 degli agenti per sparare ancora. Scatà fa il giro e gli pianta due colpi al costato. L'uomo crolla a terra rantolando. Muore mentre i lettighieri di un'ambulanza cercano di rianimarlo.

In tasca non ha niente che possa identificarlo. Parecchi soldi, centinaia di euro, ma né documenti né telefono. È dalle impronte digitali che cinque ore dopo arriva la rivelazione che trasforma un giallo di periferia in un caso mondiale. Il corpo, ormai risposto in un cassettone dell'obitorio di Milano, è quello di Amri. Non è servito chiedere riscontri ai tedeschi: sono impronte che gli archivi italiani hanno in mano fin dal 2011, quando il sedicente profugo partecipò alla rivolta del centro di accoglienza di Lampedusa e finì in carcere all'Ucciardone, a compiere giorno dopo giorno la sua trasformazione da piccolo spacciatore di droga in martire di Allah. L'11 luglio 2015, quando lasciò il carcere di Palermo, era già avviato sulla strada del terrore. Sparisce dall'Italia, destinazione Germania. E riappare ieri notte nel cuore della Lombardia. Con sé porta una Walther 22, la stessa pistola usata a Berlino per uccidere il camionista polacco.

Il riconoscimento di Amri trasforma la mattina di ieri in una sequenza di riunioni convulse. Forze di polizia, magistrati, uomini dei servizi segreti incrociano informazioni alla ricerca di una risposta: come è arrivato qui, cosa ci faceva? Le prime indicazioni le danno i biglietti ferroviari, unica traccia rimasta nello zainetto del morto. Dicono che dalla Germania, Amri era arrivato in qualche modo a Chambery, in Savoia. Nella serata del 22 sale su un treno per Torino e da lì prosegue per Milano, probabilmente col treno che arriva in stazione Centrale poco prima dell'una di notte. Lì lo ritraggono le telecamere di sicurezza. E dalla Centrale si sposta a Sesto, tappa finale del suo viaggio.

Alcuni passaggi di questo percorso devono ancora essere chiariti. Ma soprattutto incombe, inquietante, la domanda: perché? Cosa ha spinto il terrorista di Berlino a peregrinare fin qui? A Milano, per quanto raccontano le sue schede criminali, Amri non aveva mai vissuto. A Sesto San Giovanni, a poche centinaia di metri dal luogo dove è morto, c'è una moschea: ma nella geografia delle comunità islamiche è considerata una delle più pacifiche. In queste ore si analizzano a ritroso i vecchi tabulati del cellulare del tunisino, prima della rivolta di Lampedusa e dell'arresto, alla ricerca di contatti milanesi. Ma l'ipotesi principale è che Milano e Sesto fossero solo punti di transito. Se ci fosse stata una base operativa, un confratello pronto ad accoglierlo, Amri non si sarebbe trovato solo, alle tre di mattino, a Sesto. Ma da lì partono treni e pullman verso Sud. È lì, quasi sicuramente, che cercava rifugio.

Ecco le domande che restano sulla morte del killer di Berlino

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La coincidenza inquietante. E come si è spostato il tunisino dentro a Milano?

Milano - Coincidenze assai singolari, domande senza risposta, contraddizioni vistose. La fuga e la morte di Anis Amri avranno bisogno di chissà quanto tempo per venire ricostruite con chiarezza. Per ora, è inevitabile notare che alcuni passaggi sfuggono a una ricostruzione logica: sia nei comportamenti di Amri che nelle ore successive alla sua morte.

La più vistosa è la vicinanza tra la piazza dove il tunisino ha trovato la morte, a Sesto San Giovanni, e il capannone di Cinisello Balsamo da cui era partito il camion Scania, guidato dal polacco Robert ukasz Urban, con cui Amri - dopo avere ammazzato l'autista - compie la strage a Charlottemburg. Sesto e Cinisello sono confinanti, quasi la stessa città. Se non si tratta di una «inverosimile coincidenza», come la definisce il questore De Iesu, può voler dire che il percorso del tir è stato monitorato fin dall'inizio, in vista del suo dirottamento, e che in qualche modo ieri Amri volesse ricongiungersi ai suoi complici.

La seconda riguarda gli spostamenti di Amri dopo l'arrivo a Milano, nella serata di giovedì. Se arriva dalla Francia l'approdo è a Milano Centrale, da cui è agevole raggiungere Sesto con la metropolitana che a quell'ora, però, non è più in funzione, ha cessato il servizio. Amri in Centrale viene immortalato dalle telecamere, intorno all'una. È da solo. Ma come fa a raggiungere da lì Sesto San Giovanni? Treni a quel punto non ce ne sono più. Esiste un servizio di autobus sostitutivi del metrò, ma la linea per Sesto passa distante dalla Centrale, in piazzale Loreto oppure a piazza Lima. Come fa il tunisino in fuga e braccato, che in teoria non conosce la città, ad arrivare a prendere l'autobus? E i mezzi di superficie dell'Atm, tutti dotati di telecamera di bordo, perché non registrano la sua immagine?

E c'è, soprattutto, la domanda di fondo: è stato davvero un controllo casuale? O (come peraltro, nel disordine delle prime versioni, affermavano anche fonti autorevoli) i movimenti del fuggiasco erano in qualche modo già sotto controllo? Di certo c'è che alle tre di notte, davanti alla stazione di Sesto, Amri non era l'unico a poter richiamare l'attenzione. Dentro e all'esterno della stazione, come racconta la barista, «di notte c'è un sacco di gente». Senzatetto, profughi, stranieri. Eppure a venire fermato e controllato dalla volante è solo Amri. Fiuto soprannaturale, botta clamorosa di fortuna, o cos'altro?

Certo, se Amri fose stato nel mirino, ad aspettarlo a Sesto ci sarebbero stati i Nocs e non due agenti tra cui un ragazzo inesperto. Ma gli interrogativi restano. E poi c'è la signora Elia, che abita proprio sopra il luogo del conflitto a fuoco. «Io gli spari non li ho neanche sentiti. Ma alle tre e mezza mi hanno svegliato i poliziotti che volevano sapere se avevo visto qualcosa». Cosa poteva avere visto?

La Procura apre un'inchiesta Amri aveva complici a Milano

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Ripreso in stazione a Lione il killer di Berlino, viaggiava senza documenti e cellulare. E non era a Sesto per caso

Milano - Da solo, sempre da solo. Davanti alle telecamere della stazione di Lione, a mezzogiorno del 22 dicembre, come sotto gli occhi di quelle di Milano Centrale, tredici ore più tardi. I fotogrammi della stazione di Lyon-Part-Dieu vengono individuati ieri. E man mano che i tasselli della lunga fuga di Anis Amri vengono a galla, il viaggio del terrorista tunisino appare sempre più anomalo: Amri viaggia senza cellulare e senza nemmeno i documenti, che ha lasciato sul tir usato per la strage di Berlino. Eppure non sembra uno sbandato, anzi. Si muove lucidamente, come seguendo un percorso fissato fin dall'inizio, prima di seminare la morte al mercatino natalizio di Breitscheidplatz. Ma quale fosse il punto d'approdo finale, dopo la tappa in cui Amri ha trovato la morte, davanti alla stazione di Sesto San Giovanni, ancora nessuno lo sa.

A Milano, è la convinzione degli inquirenti, Amri era di passaggio. Forse verso Sud, le zone d'Italia che conosceva meglio; o forse verso Est, nella ex Jugoslavia, dove poteva cercare appoggi. Ma il sospetto degli investigatori è che, qualunque fosse la sua destinazione finale, nel capoluogo lombardo o nel suo hinterland, l'ex spacciatore di droga ormai ottenebrato dal fanatismo religioso potesse avere riferimenti precisi. È intorno a questa ipotesi che ruota la più delicata delle due inchieste giudiziarie scaturite dalla sparatoria in cui Amri ha trovato la morte: è l'indagine aperta dalla Procura di Milano e condotta dal pm Alberto Nobili, capo del pool antiterrorismo.

Anche la procura di Monza, competente sul territorio di Sesto San Giovanni, ha un fascicolo sull'episodio, limitato ai minuti della sparatoria e destinato a venire archiviato rapidamente per «morte del reo», visto che il comportamento del poliziotto che ha ucciso Amri, Luca Spatà, è un caso da manuale di legittima difesa. Il contenitore in cui invece confluiranno i risultati delle indagini febbrili in corso in queste ore è quello sul tavolo del pm Nobili, l'inchiesta aperta per il reato di associazione con finalità di terrorismo. Il fascicolo è attualmente a carico di ignoti ma è chiaro chi sia nel mirino dell'indagine: i complici milanesi di Amri. Nel territorio lombardo, è l'ipotesi investigativa, agiva una cellula jihadista coinvolta nella fuga dello stragista di Berlino. È in questa cellula, verosimilmente, che si nascondono gli agganci che hanno portato il tunisino, nella notte tra giovedì e venerdì, dopo avere fatto tappa a Chambery e poi a Torino, a spostarsi dalla stazione Centrale di Milano allo scalo sestese. Nello zaino, la stessa calibro 22 usata a Berlino per ammazzare il camionista polacco Lukasz Urban.

E in questo fascicolo confluiranno anche le notizie che il pm Nobili ha chiesto alla magistratura tunisina sull'indagine che nel paese maghrebino ha portato all'arresto di tre persone, tra cui un nipote di Amri, che era in contatto con lo zio sul sito protetto Intelligence e da lui riceveva aiuti economici e inviti per trasferirsi in Germania e attivare una cellula dell'Isis. Il nipote avrebbe confessato che il terrorista di Berlino era l'emiro in Germania della brigata Abou Al-Wala. Anis Amri era un capo, dunque: non un lupo solitario o una scheggia impazzita.

Sim tedesca, numeri italiani: a Milano Amri aveva una base

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Nel cellulare trovato sul tir la rete italiana del capo della cellula Isis. Che conosceva bene il capoluogo lombardo

Milano - Anis Amri cammina dritto, spedito: come chi sa dove andare e conosce la strada. Sono le 00.58 del giorno in cui morirà. Il terrorista tunisino viene immortalato da una telecamera della stazione Centrale mentre si dirige all'uscita est dell'atrio, l'unica aperta. Un fotogramma sfocato, il volto coperto quasi per intero dal cappuccio. Sono gli abiti a dare la certezza che si tratti di lui: identico zaino, scarpe uguali, la stessa felpa che inzupperà col suo sangue tre ore più tardi, a Sesto San Giovanni.

Non è un'immagine confortante, quella che la Digos milanese decide ieri di divulgare. Racconta che l'autore della strage di Berlino a Milano non vagava a casaccio. Voleva andare a Sesto e sapeva dove prendere i rari autobus notturni che sostituiscono la metropolitana. D'altronde, e questa è la vera e inquietante novità, Amri non era un «lupo solitario», un fanatico individualista, e nemmeno un semplice militante. Era un capo. Un emiro, cioè un gerarca della brigata Abu Walaa, il più insidioso dei gruppi salafiti legati all'Isis che operano in questo momento in Germania.

Dei legami tra Amri e il network di Abu Walaa aveva parlato la Cnn nei primi giorni dopo la strage di Berlino, quando ancora il terrorista era in fuga. Ma l'altro ieri a Fouchanam a sud di Tunisi, vengono arrestati due ragazzi e una ragazza; uno dei maschi è il nipote di Amri, ed è lui a parlare con gli investigatori del ruolo dello zio. «È l'emiro della Katibat (ovvero la brigata o colonna, ndr) Abu Al Walaa in Germania», dice il giovane. Vuol dire che Amri ha preso il posto dell'imam che ha dato il nome alla brigata, l'iracheno (di al-Tamin) Abu Al Walaa e del suo vice, il serbo Boban Simeonovic, arrestati entrambi in novembre dall'antiterrorismo tedesca. La brigata è radicata soprattutto nella Westfalia e nella Sassonia meridionale, ed era stato proprio Simeonovic a accogliere e addestrare Amri alla fine del 2015, quando era arrivato in Germania dall'Italia.

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Amri è un capo, dunque: che più passa il tempo e si ricostruiscono i suoi movimenti, più sembra muoversi con intelligenza e lucidità. Dopo la strage l'emiro scende verso l'Italia aggirando la frontiera svizzera, cambiando spesso treno, comprando i biglietti in contanti. Le telecamere lo ritraggono anche nella piccola stazione di Bardonecchia, sulla strada tra Chambery e Torino. Non ha un cellulare, non può fare nuovi piani o stringere nuovi accordi. Ha in mente già una strada segnata, e lo porta a Milano e poi a Sesto.

Qui, intorno al capoluogo lombardo, c'è una cellula pronta ad accoglierlo: per nasconderlo, o anche solo per consentirgli di prendere il fiato prima di proseguire. È questa la ipotesi cui lavora il pm milanese Alberto Nobili, che ha aperto una inchiesta contro ignoti per associazione terrorista. E che Amri fosse già stato a Milano lo dicono anche i numerosi riconoscimenti che vengono segnalati alle forze di polizia, da parte di cittadini convinti di averlo incrociato nei mesi passati. È una faccia particolare, quella di Amri, difficile confonderla. Anche se poi, al momento di firmare il verbale, spesso i testimoni si tirano indietro, come colti da una improvvisa incertezza o da una comprensibile paura.

Se davvero nei mesi scorsi Anis Amri era passato per l'hinterland milanese, allora trova spiegazione la più inverosimile tra le strane coincidenze di questa vicenda: l'approdo di Amri in piazza Primo Maggio a Sesto, ad appena un chilometro e mezzo da via Cantù a Cinisello Balsamo, ovvero dal luogo da cui era partito il 16 dicembre il camion guidato dal polacco Lukasz Urban. Il tir non sarebbe stato scelto a caso, a Berlino, ma individuato fin dall'inizio dalla «cellula milanese».

Sono, come si vede, ipotesi inquietanti. Per capirci qualcosa di più, si stanno frugando i tabulati del cellulare abbandonato da Amri sul camion della strage. Ha una sim tedesca, ma ha fatto numeri italiani.

L'eurosicurezza fa flop: Amri indisturbato ha girato mezza Europa

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Dalla Germania si è spostato in Olanda e poi in Francia e a Milano. Arrestato un complice

Milano - È il fallimento del sistema di sicurezza europeo, del coordinamento tra intelligence e apparati di polizia del Vecchio Continente sbandierato in vertici e comunicati ma in realtà mai davvero partito. A sei giorni dalla morte a Sesto San Giovanni di Anis Amri, il terrorista della strage di Berlino, una delle poche cose chiare è che l'estremista tunisino ha potuto muoversi per mesi indisturbato, nonostante i suoi legami con gli ambienti della jihad fossero conclamati. E ora Italia e Germania si rinfacciano la responsabilità della mancanza di comunicazione.

«Il 10 maggio scorso - fa sapere la tv tedesca Wdr citando fonti dei servizi di sicurezza - la polizia criminale della Westfalia individuò Amri come soggetto pericoloso e lo comunicò all'Italia». Niente affatto, replicano a stretto giro di agenzia dal Viminale: è stata l'Italia già nel giugno 2015 a inserire nella banca dati Schengen, a disposizione di tutti i paesi del blocco «storico» dell'Unione europea, il nominativo di Amri come soggetto pericoloso, e la stessa segnalazione venne ribadita direttamente ai tedeschi nel febbraio di quest'anno quando il tunisino presentò domanda di soggiorno in Germania. Insomma, un caos di cui l'ex profugo divenuto «emiro» della brigata terrorista Abu Al Walaa ha approfittato per muoversi liberamente nei mesi prima della strage.

Ora su quei mesi si scava, ripercorrendo a ritroso le mosse dell'estremista, sia in Italia che in Germania. In Italia scattano una serie di perquisizioni, nel mirino ci sono una serie di correligionari con cui Amri ha condiviso il carcere durante i suoi quattro anni di detenzione in Sicilia, quando si è compiuta la sua trasformazione in militante jihadista. Vengono torchiati estremisti - tra cui uno in provincia di Latina - che potrebbero avere notizie sulla rete di appoggi di cui Amri godeva in Italia, e che puntava ad usare durante la latitanza. Contemporaneamente si muove anche la polizia tedesca, che ha in mano il cellulare di Amri, e arresta un tunisino il cui numero compariva nella rubrica ed è stato contattato dal terrorista nelle ore precedenti la strage.

In realtà, secondo quanto riferiscono i media tedeschi, fino a pochi minuti prima di lanciarsi con il Tir sul mercato natalizio di Breitscheidplatz, Amri telefonò e inviò messaggi in continuazione. Ed è un dettaglio singolare, perché abbandonando poi il telefono vicino al luogo della strage lasciò in mano alla polizia elementi preziosi: un comportamento che contrasta con la cautela e con la efficacia con cui invece si mosse dopo il massacro. Al punto che ancora oggi non si sa come abbia compiuto la prima parte della fuga, da Berlino all'Olanda; e non è nemmeno chiaro se abbia raggiunto Lione partendo da Amsterdam o piuttosto da Nijmegen, come sostiene la France Press. Nella cittadina olandese, a ridosso del confine tedesco, l'uomo sarebbe salito sul pullman Flixbus che lo ha portato a Lione, probabilmente cambiando a Lilla: un viaggio di ottocento chilometri, senza telefono né passaporto, ma con in tasca la Erma Werke calibro 22.

«Sono sicura che non lo ha fatto di sua volontà: era giovane, qualcuno lo ha spinto a compiere questa strage», dice la madre del terrorista, intervistata da Rainews; e il fratello dice «lo hanno indottrinato». Ma i tasselli che vengono a galla raccontano invece di un capo addestrato e lucido, in grado di colpire e poi di attraversare mezza Europa indisturbato. E avrebbe continuato chissà quanto, se la notte dell'Antivigilia non avesse incrociato la Volante «Alfa Sesto».

La polizia italiana senza software per riconoscere i volti nei video

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Gli spostamenti di Amri ricostruiti visionando migliaia di fotogrammi. Molti Paesi ce l'hanno ma per noi costa troppo

Milano - Un lavoro estenuante, incollati al monitor del computer, fotogramma dopo fotogramma. La tecnologia che ha consentito di individuare gli spostamenti di Anis Amri tra Bardonecchia, Torino, Milano e Sesto San Giovanni - ultima tappa della lunga fuga del terrorista di Berlino - è la più antica di tutte: l'occhio umano. Nell'era del Grande Fratello, dei software fantascientifici, le indagini sulle otto ore trascorse in Italia dall'autore della strage di Breitscheidplatz sono affidate unicamente al lavoro certosino di decine e decine di poliziotti, che dalla mattina del 23 dicembre, quando l'uomo ucciso a Sesto è stato identificato in Amri, setacciano il contenuto di una infinità di telecamere di videosorveglianza alla ricerca del passaggio del tunisino.

Il software di riconoscimento facciale, quello che si vede all'opera abitualmente in film e serie tv, esiste davvero. È, per esempio, uno dei mezzi di lavoro abituale della polizia di frontiera degli Stati Uniti, che registra e archivia le fattezze di chiunque passi i valichi di confine. Ma costa molto. Troppo? Forse oggi, per la prima volta, ci si accorge davvero di come uno strumento simile sarebbe indispensabile per fronteggiare l'emergenza terrorista. Le città italiane sono costellate da una rete di occhi elettronici ormai quasi capillare. Ma la massa di immagini raccolte rischia di servire a poco se non si dispone degli strumenti informatici per analizzarli in tempo reale che hanno invece a disposizione le polizie di altri paesi.

Le prime immagini di Anis Amri individuate dopo la sua morte sono, come è noto, quelle contenute nei filmati della Stazione Centrale di Milano, e diffuse l'altro ieri dalla Digos milanese. Gli inquirenti avevano i fotogrammi della stazione sul loro tavolo già a mezzogiorno di venerdì 23, quando dal conflitto a fuoco di piazza Primo Maggio erano passate appena nove ore, e ancora meno ne erano passate dal riconoscimento - grazie alle impronte digitali - del terrorista in fuga nel cadavere di Sesto. Ma per rendere possibile questo risultato è stato necessario un lavoro febbrile e inevitabilmente a rischio di «errore umano», realizzato passando alla moviola decine di ore di registrazioni.

In questo caso, ad agevolare il compito ha contribuito la certezza sugli abiti indossati da Amri durante i suoi spostamenti, che potevano essere solo i medesimi che portava quando è morto. Così più che un volto nei fotogrammi delle telecamere, si sono cercati le scarpe, i pantaloni, la felpa scura col cappuccio. I pantaloni, in particolare, sono risultati particolarmente riconoscibili, perché si trattava in realtà di tre paia, indossate una sopra l'altra per proteggersi dal freddo, e pertanto sembravano quasi imbottiti. Altrettanto manualmente si sono svolte le ricerche a Torino e a Bardonecchia sui filmati delle stazioni locali, arrivate anch'esse a individuare la presenza del terrorista.

Con un software di riconoscimento automatico, la ricerca sarebbe stata indubbiamente più veloce. E la velocità, in questi casi, è un fattore fondamentale. Basti pensare a un terrorista ancora vivo e in fuga, da bloccare prima che possa colpire di nuovo; o, nella vicenda di Amri, a un eventuale complice che fosse stato filmato insieme a lui. Anche in quel caso, il controllo delle immagini si sarebbe fatto a mano, secondo dopo secondo. Altro che Person of interest.

A Latina una base di Amri: nel blitz cellulari sequestrati

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Il terrorista ospite di entrambe le case perquisite dalla Digos e abitate da due tunisini. Forse voleva tornare lì

Milano - Anche se il premier Gentiloni cerca di tranquillizzare gli italiani («Non risultano particolari reti che Amri avesse in Italia») emergono legami col Lazio dopo le perquisizioni della Digos a Campo Verde (Latina). Gli accertamenti del pm Francesco Scavo hanno già consentito di stabilire che il terrorista nel 2015 era stato ospite in entrambe le case e ora dall'esame del materiale, alcuni documenti in arabo, e dai telefoni cellulari sequestrati potrebbero emergere nuovi elementi. Nelle due abitazioni risiedono due sorelle italiane, entrambe sposate con due tunisini. Uno di questi è detenuto a Velletri per droga.

La polizia lavora per ricostruire i movimenti e le intenzioni del terrorista dopo l'arrivo in Italia, nel tardo pomeriggio del 22 dicembre. Ieri emergono due dettagli che sembrano confermare che la destinazione del fuggiasco fosse il Centro o il Sud: le telecamere della stazione di Torino lo ritraggono mentre cerca sulla biglietteria elettronica l'orario di un treno per Roma, prima di ripensarci e comprare il biglietto per Milano; e nel capoluogo lombardo la Digos scova un testimone, per ora l'ultimo ad avere parlato con Amri prima della sua morte: è un salvadoregno che lo incontra alle due di notte in piazza Argentina. «Dove si prendono i treni per Roma o per Napoli?» «Alla stazione Centrale», «Ma vengo da lì, non ce ne sono più». Ha fretta, Amri, di raggiungere una destinazione precisa. Resta da capire quale.

E il suo nome rimarrà negli annali del terrorismo anche come protagonista di una performance imbarazzante degli apparati di sicurezza tedeschi. Che prima hanno sottovalutato la sua pericolosità, classificandolo - nonostante segnalazioni inequivocabili dei suoi legami con l'Isis - al «livello 5», cioè «basso rischio»; e dopo la strage hanno inanellato errori uno dopo l'altro, arrestando come autore dell'attentato un pakistano del tutto estraneo alla vicenda, e fermando poi come complice di Amri un tunisino che ieri è stato rilasciato con tante scuse. Per non parlare del fatto che della lunga fuga di Amri dopo la strage l'unico tratto non ancora ricostruito è proprio quello in terra tedesca, da Berlino a Nijmegen, appena oltre il confine olandese. Mentre le polizie di tutta Europa individuano il passaggio del jihadista nelle stazioni ferroviarie delle loro città, i tedeschi ancora non sanno - almeno ufficialmente - come Amri si sia allontanato dalla capitale dopo avere lanciato il Tir sulla folla, né come abbia coperto gli oltre seicento chilometri fino a Nijmegen.

Le falle della Sicherheit vengono a galla ieri, quando lo Spiegel rivela che la Bnd, il servizio segreto federale, era al corrente che Amri aveva fatto ricerche su come realizzare una bomba, e si era messo a disposizione di reti legate all'Isis per compiere attentati suicidi; altrettanto noti erano i suoi otto alias, con uno dei quali - Ahmad Zaghoul - aveva aggredito un funzionario dell'ufficio immigrazione, mentre con altri aveva ottenuto illegalmente sussidi sociali; ed era noto che aveva frequentato la moschea di Dortmund ed era stato indottrinato da Boban Simeonovic, braccio destro dell'imam iracheno Abu Al Walaa, oggi in carcere per terrorismo.

Si scopre anche che da febbraio a settembre era stato pedinato perché sospettato di avere preparato un attentato, e che i controlli erano stati sospesi per insufficienza di indizi, nonostante Amri avesse dimostrato, secondo un rapporto citato dallo Spiegel, una «esperienza del funzionamento della polizia e della cospirazione» inconsuete anche per un islamista radicale. Sono parole che sembrano confermare quanto raccontato dal nipote di Amri alla polizia tunisina, secondo cui lo zio era diventato un «emiro». A novembre, un mese prima della strage, i servizi tedeschi perdono le sue tracce.


E la questura frena: "Anis? Qui per caso"

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Ma i legami del terrorista con la Lombardia sono sempre più evidenti

Milano Il questore di Milano si ostina a negare l'evidenza, e a negare che il terrorista di Berlino avesse una rete di legami e di appoggio in Lombardia: il dato più inequivocabile di tutti, la partenza del Tir della strage da Cinisello Balsamo e l'approdo di Amri a Sesto San Giovanni (1,5 km di distanza, fonte Google Maps) secondo il questore De Iesu «può sembrare la chiusura di un cerchio ma in realtà sembra essere solo un caso». Ovviamente il questore sa che casi del genere non si verificano neanche in fisica quantistica. Ma d'altronde la parola d'ordine in questo momento sembra essere «tranquillizzare»: il messaggio per l'opinione pubblica deve essere che Anis Amri era un «lupo solitario», come lo definisce ieri il ministro degli Interni Marco Minniti. E non importa se invece risultanze investigative precedenti e successive alla strage lo collocano al vertice della Brigata Abu Al Walaa, uno dei più temibili bracci operativi dell'Isis in Germania.

«Al momento non abbiamo elementi per dire che Anis Amri avesse collegamenti a Sesto San Giovanni o Cinisello Balsamo», dice il questore. Dell'inesistenza di una rete di appoggio aveva d'altronde parlato l'altro ieri il premier Gentiloni, e lo stesso aveva fatto il ministro Minniti. Quest'ultimo però aveva però aggiunto: «Non diremo mai se c'è una rete o meno, affermarlo significherebbe lanciare un warning e il mio ruolo non lo permette». Insomma, la verità sui collegamenti del terrorista tunisino nel nostro paese non viene detta, un po' per non mettere sull'avviso i suoi complici, e un po' per non allarmare troppo l'opinione pubblica.

Ma la pervicacia con cui Amri ha puntato la prua della sua fuga verso l'Italia rende inverosimile che l'emiro della brigata Al Walaa si preparasse a vagare senza meta per il nostro paese. E anche alcune incertezze dimostrate nella fase finale del suo viaggio, come quando a Torino ha esitato se comprare il biglietto per Roma o per Milano, difficilmente possono escludere che la sua fuga fosse stata pianificata fin dall'inizio e potesse contare su appoggi sia al nord che al sud del paese.

Un dato è certo, ed è che l'apparato di sicurezza italiano ha funzionato: sia nel 2015, quando ha individuato e segnalato per tempo la deriva integralista imboccata dall'ex profugo, sia nell'intercettarlo e neutralizzarlo durante la sua fuga. Invece in Germania gli apparati di polizia e di intelligence ormai sono sotto il tiro incrociato della stampa: al punto che ieri il ministro dell'Interno del Nord Reno-Westfalia Ralf Jäger è dovuto intervenire in loro difesa, «non erano emersi elementi che rivelassero un suo (di Amri, ndr) progetto, non possiamo arrestare qualcuno solo perché è considerato pericoloso». E il capo della BfV, i servizi segreti, Hans George Maassen ha definito «ingiustificate» le critiche che piovono sull'intelligence. É lo stesso Maassen che a febbraio dello scorso anno aveva lanciato l'allarme: «L'Isis invia deliberatamente i propri terroristi tra i rifugiati e questo è un fatto con cui la polizia deve fare i conti».

Pace fatta tra le toghe milanesi La Boccassini vice di Greco

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Il capo sceglie Ilda come braccio destro e la riempie di elogi. Ma l'incarico è a tempo: tra 10 mesi lei torna pm

Milano «Esperienza, capacità professionale, efficacia nel coordinamento del Dipartimento affidatogli, correttezza, autorevolezza e prudenza nei rapporti con la Polizia giudiziaria e le autorità locali, riservatezza assoluta, costante informativa al Procuratore di ogni dato rilevante riguardante sia l'ufficio che le indagini in corso». Un magistrato perfetto, praticamente: che risponde al nome di Ilda Boccassini. Ed è per questo che da dopodomani la Boccassini assumerà l'incarico più prestigioso della sua carriera giudiziaria: sarà lei a tutti gli effetti il «vice» di Francesco Greco, procuratore della Repubblica di Milano, che il 29 dicembre l'ha designata come proprio vicario con le motivazioni che abbiamo appena citato tra virgolette.

Pace fatta, dunque, dopo le tensioni palpabili che accompagnarono pochi mesi fa l'insediamento di Greco alla guida della Procura milanese. Quel giorno Ilda Boccassini se ne restò chiusa nel suo ufficio, disertando la cerimonia: e furono in molti a leggere il gesto come una silenziosa protesta della dottoressa contro la decisione del Csm, che aveva bocciato con zero voti a favore la sua autocandidatura al posto di procuratore capo, nominando Greco quasi all'unanimità. Nonostante la comune provenienza dalle fila di Magistratura democratica, i due magistrati erano entrati in concorrenza per lo stesso posto, appena lasciato libero da Edmondo Bruti Liberati; Greco aveva prevalso alla grande; e la Boccassini sembrava averla presa piuttosto male.

Ora invece Greco la chiama al suo fianco come procuratore vicario, designandola a svolgere le sue funzioni in «caso di assenza o impedimento». Certo, oggi tra i procuratori aggiunti la Boccassini è quella con maggiore anzianità, e quindi la sua nomina poteva essere quasi un atto dovuto. Ma Greco va ben più in là, e motiva la sua scelta con giudizi che definire positivi è assai poco: anche perché vanno controcorrente rispetto a alcuni clichè che circondano la dottoressa. La «efficacia nel coordinamento del dipartimento affidatogli», cioè il pool antimafia, non è condivisa da alcuni dei pm più esperti, che in questi anni se ne sono andati in polemica con la dottoressa; e un grande vecchio come Ferdinando Pomarici ebbe a stigmatizzare i criteri con cui la collega sceglieva i suoi collaboratori. Nella gestione delle inchieste antimafia ci sono stati molti successi, ma anche pasticci come l'inchiesta sull'uccisione del procuratore torinese Bruno Caccia, riaperta senza rispettare le regole. Ed è rimasto memorabile lo scontro con la Procura nazionale antimafia, cui - secondo il pm Filippo Spiezia - la Boccassini tenne nascoste in ben 49 casi le informazioni che era tenuta a trasmettere.

Ciò nonostante, diventa il braccio destro del procuratore Greco: ma solo per dieci mesi. Il 10 ottobre scadrà dall'incarico di procuratore aggiunto e di vicario del capo, e Ilda tornerà semplice pm.

"È legittimo criticare Fedez" L'accusa chiede di archiviare la querela del rapper contro Porro

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Milano Rapper, iconoclasta, fustigatore di costumi, difensore dei no-global: Fedez ha fatto della libertà di linguaggio e di opinione una delle sue bandiere, ma guai a criticare lui, perché partono le querele e le richieste di risarcimento a cinque zeri. Che però vanno a sbattere contro il buon senso di un pubblico ministero che chiede di archiviare tutto. Non amare Fedez non è reato.

A finire nel mirino del rapper - che all'anagrafe si chiama Federico Leonardo Lucia - era stato il vicedirettore del Giornale, Nicola Porro, nei giorni caldi a ridosso dell'inaugurazione di Expo 2015. La violenza fuori controllo del Primo Maggio era stata preceduta da una serie di episodi durante i cortei degli studenti, che Fedez aveva difeso a spada tratta, «sono atti di protesta e non di vandalismo». Quando pochi giorni dopo Milano era stata messa a soqquadro, Porro aveva invitato il rapper a fare autocritica. Manco per niente. E a quel punto il giornalista aveva auspicato per il brillante giovanotto l'intervento della «mamma di Baltimora», ovvero la signora divenuta celebre in tutto il mondo per avere riportato a casa a schiaffoni il figlio adolescente che partecipava a una rivolta.

Apriti cielo, Fedez aveva deciso di chiedere l'intervento dell'odiata giustizia borghese (un po' come quando durante una rissa aveva chiesto l'intervento della polizia, altre volte da lui simpaticamente definita «sbirri di merda») mettendo la pratica in mano agli avvocati; ed era partita la querela per diffamazione aggravata a mezzo stampa, con relativa richiesta di risarcimento: centomila euro da Porro e altri centomila dal Giornale. Nei confronti del conduttore di Matrix, d'altronde, il rapper ha il dente avvelenato fin da quando aveva osato rendere noto di non apprezzare il testo della sua canzone Eternit.

Nei giorni scorsi, la Procura di Milano ha chiesto l'archiviazione della querela affermando che le tesi di Porro erano «legittima espressione del diritto di critica».

Svolta digitale in Procura tutti i reati nel «cervellone»

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Forze dell'ordine e pm in contatto in tempo reale L'iter, dal crimine al processo, sul portale on line

Luca Fazzo

Basta scartoffie e telefonate nel cuore della notte tra Volanti e pubblici ministeri. Nell'era digitale anche la macchina della repressione si aggiorna, e affida all'informatica l'intero percorso della lotta al crimine: dalla scoperta del reato fino al processo. Magistrati e forze di polizia verranno chiamati ad uno sforzo tecnologico non indifferente, ma alla fine il nuovo sistema dovrebbe garantire tempi più rapidi e risparmi di energie.

Il D-day per la svolta tecnologica della Procura milanese è fissato per il 12 gennaio, quando il capo, Francesco Greco, ha convocato una assemblea («partecipazione obbligatoria», ha specificato) di tutti i suoi sostituti. Al centro della svolta, i programmi informatici che dovranno utilizzare sia polizia e carabinieri che i pm di turno per inserire in tempo reale, utilizzando il Portale Ndr, ovvero «notizie di reato», tutti i fattacci della città. Da Ps e Cc le notizie partiranno attraverso sistemi di posta certificata e verranno inserite dal pm di turno entro ventiquattr'ore nel cervellone in funzione da pochi mesi, chiamato Sicp. Da quello stesso istante, il reato avrà un numero di registro e un pm titolare che lo accompagneranno fino al processo.

Si tratta dell'ultimo passaggio del progetto di modernizzazione della giustizia, percorso non privo di inciampi e di resistenze. L'introduzione del Sicp ha creato nei mesi scorsi malumori espliciti tra i cancellieri, che si sono visti piombare addosso un carico di lavoro decisamente gravoso. Per non parlare delle preoccupazioni sulla resistenza del sistema a incursioni informatiche, specie dopo che in una inchiesta romana erano emersi gli appetiti di una cricca di faccendieri per prendere in mano un altro dei tasselli del sistema, il Tiap: ma il ministero della Giustizia reagì garantendo che si tratta di una struttura tecnica a prova di hackeraggio.

Così si parte. E a Milano la sfida è particolarmente imporrante, perché la Procura meneghina deve fronteggiare una massa imponente di notizie di reato: l'ultimo dato disponibile, relativo al 2014-2015, parla di una media di 630 notizie di reato al giorno, quasi ventitremila all'anno. Tenere il passo di questa ondata continua è sempre stato difficile, e ritardi anche consistenti nell'iscrizione dei fascicoli erano diventati cronici.

Nella circolare diffusa dal procuratore Greco in vista dell'assemblea si spiega che la polizia dovrà iscrivere immediatamente sul portale perquisizioni e sequestri di cui chiede la convalida, così come le richieste di intercettazioni. Il pm di turno «dovrà effettuare controlli periodici sul portale per verificare l'inoltro di nuove notizie di reato sia nel giorno del turno che nella mattinata del giorno successivo». E, a meno che non si tratti di reati che richiedano specializzazioni particolari, assegnerà a se stesso l'inchiesta.

L'ultima frontiera del terrore: "L'Isis userà le armi chimiche"

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I timori dei servizi di intelligence per capitali e città europee A rischio acquedotti, metropolitane e aule universitarie

Se la guerra chimica del terrorismo islamico contro l'Occidente non è ancora stata lanciata, c'è un eroe da ringraziare: il preside della facoltà di fisica di Mosul, che nel novembre 2015 venne giustiziato sulla piazza di Ninive per non avere voluto mettere il suo sapere a disposizione dell'Isis. Ma da allora un anno è passato, e il Califfato ha arruolato qualcuno più disponibile di quel professore senza nome.

Così ieri dal governo britannico parte l'allarme: la chimica e la biologia sono le nuove armi cui lo Stato islamico si affida. «Non hanno ostacolo morale a usare armi chimiche contro le popolazioni e, se potessero, lo farebbero in questo Paese», dice il ministro degli Interni Ben Wallace in una intervista al Sunday Times, «il numero di vittime che potrebbe essere coinvolto sarebbe la peggior paura di tutti». E così facendo alza il velo pubblicamente su uno scenario cui gli specialisti dell'intelligence occidentale stanno lavorando da tempo, in silenzio per non creare ulteriore panico in una opinione pubblica già logorata dalla sindrome della bomba o del camion killer: quello dell'attacco con «dirty bombs», bombe sporche, ordigni resi micidiali non dal potenziale esplosivo ma dalla carica di veleni o virus che potrebbero spargere senza trovare ostacoli in qualunque metropoli occidentali. Scenari da incubo, perché contro la Morte Nera non esiste carroarmato che possa fare da scudo.

Acquedotti, mezzi di trasporto, luoghi affollati, comunità ad alto interscambio come le facoltà universitarie: tra i possibili bersagli c'è solo l'imbarazzo della scelta. Il ministro Wallace non parla a vanvera, perché dell'investimento dei gerarchi del Califfato nella guerra chimica ci sono purtroppo notizie incontrovertibili. E almeno in un caso le autorità di un paese occidentale hanno dovuto correre ai ripari: è successo in Francia, dove si sono dovute alzare le misure di sicurezza intorno all'acquedotto che alimenta Parigi, dopo che fonti attendibili avevano riferito di un inquinamento imminente da parte di cellule jihadiste. D'altronde già tra il 2002 e il 2003 l'allora leader di Al Qaeda, Al Zarkawi, aveva pianificato l'attacco alla metropolitana di Londra con proteine di ricina in grado di provocare la morte cellulare.

Il sogno originario di Osama bin Laden era, in realtà, costruirsi un'arma nucleare, ma il progetto si era arenato di fronte alle difficoltà tecniche. Da allora le CW, le chemical weapons, sono salite al primo posto nei piani di sviluppo del terrorismo islamico. La svolta è arrivata nel giugno 2014, con la conquista di Muthanna, dove era basata la principale fabbrica di armi «non convenzionali» del regime di Saddam.

I ricercatori del Califfato hanno davanti a sè un esempio cui rifarsi, il più importante attacco chimico condotto finora su una città sviluppata: l'attentato al sarin, un gas nervino, realizzato nel metrò di Tokio compiuto nel 1995 dalla setta di Aum Shinrikyo, ben più efficace (dodici morti) degli attacchi all'antrace realizzati negli Usa a ridosso dell'11 settembre. Ma il timore dell'intelligence occidentale è che oggi il livello tecnologico del Califfato sia già molto più avanti, dopo la campagna di reclutamento varata dall'Isis arruolando chimici, fisici, biologi e informatici per realizzare CW ad alto potenziale.

A preoccupare l'antiterrorismo è la varietà quasi infinita di varianti che questa strategia può imboccare. In un accampamento dell'Isis in Siria, per esempio, venne ritrovato il computer di un miliziano tunisino con migliaia di studi sulle armi chimiche, compreso un progetto di utilizzo come arma della peste bubbonica di provenienza animale. Ma il sentiero più battuto pare sia quello degli Rdd, ordigni radiologici in grado di combinare esplosivi tradizionali con dosi ingenti di radio e celsio, usati nel trattamento del cancro e quindi di libera circolazione.

«La Chiesa non capisce» E sfregia due sacerdoti

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I preti aggrediti al volto con un coccio di bottiglia Uno è grave. Fermato 42enne senza fissa dimora

Luca Fazzo

La paura fa irruzione nella basilica romana alle 18 dell'ultimo sabato del ponte di Natale, tra la folla dei fedeli: e per qualche minuto è forte l'angoscia di trovarsi di fronte a una riedizione italiana del dramma di Rouen, dove il parroco venne sgozzato davanti all'altare dalla furia di un estremista islamico. Invece la dinamica del dramma viene chiarita in fretta, e si scopre che a insanguinare la navata di Santa Maria Maggiore è un italiano al cento per cento, un ciociaro con problemi psichici che ieri decide di risolvere a colpi di cocci di bottiglia i suoi conti in sospeso con la società in genere e con la Chiesa in particolare.

L'uomo fa irruzione in chiesa, appare fin da subito in stato confusionale. Si fanno avanti in due, a cercare di farlo ragionare: uno è il vice prevosto di Santa Maria Maggiore, con lui c'è il prete addetto alla sagrestia. L'esagitato non sente ragioni, inveisce contro i due religiosi, poi li colpisce furiosamente. I due sacerdoti cadono a terra uno dopo l'altro in una pozza di sangue, cercando di chiedere aiuto. I soccorsi arrivano e portano entrambi i feriti all'ospedale più vicino, a preoccupare di più sono le condizioni del responsabile della sagrestia che è ricoverato in codice rosso. Insieme all'ambulanza arrivano i carabinieri, l'aggressore non ha cercato di fuggire, viene fermato e identificato. Basta poco per accertare che il fanatismo religioso non c'entra niente, l'uomo è noto da tempo ai servizi sociali per i suoi problemi di equilibrio mentale. «Non ce l'avevo con loro due, ma sono un incompreso, la Chiesa non mi ha capito», dice l'uomo dopo essere stato catturato.

Sono da poco passate le 18 quando Renzo Cerro sale la grande scalinata e penetra all'interno della basilica. È nato a Roccasecca, in provincia di Frosinone, 42 anni fa, e da anni i suoi problemi sono noti ai servizi sociali e ai carabinieri del paese di origine: ha avuto problemi di droga, è stato in carcere, poi è scivolato progressivamente in una sorta di schizofrenia. In passato ha chiesto aiuti e appoggi alla Chiesa, ma i tentativi di riportarlo su un percorso di normalità sono finiti in nulla. E ieri pomeriggio Cerro è un uomo disperato e senza controllo di se stesso, che si muove per Roma deciso confusamente a chiedere giustizia o a farsela da sé.

Solo oggi, forse, si scoprirà perchè prende di mira proprio Santa Maria Maggiore, nel rione Prati. La chiesa potrebbe avere richiamato la sua attenzione perché è una chiesa particolare, una sorta di enclave vaticana in territorio italiano, sotto il controllo diretto della Santa Sede, con a capo un cardinale, il polacco Stanislaw Ryilko, e nientemeno che il re di Spagna come canonico onorario. Anche per questo la basilica è controllata a vista da una camionetta dell'esercito. A quell'ora Santa Maria Maggiore è piena di gente, si sta celebrando la Messa e almeno duecento persone sono assiepate nei banchi. L'apparizione di Cerro viene subito notata da una parte dei fedeli, perché l'uomo dà evidenti segni di turbamento. Punta diritto contro don Angelo Gaeta, il responsabile della sagrestia, inveisce confusamente, richiama l'attenzione anche di padre Adolfo Ralph. Nella chiesa sono momenti di panico, Cerro colpisce entrambi i preti che cadono al suolo. Ma non cerca di fuggire. Rimane lì, quasi inebetito.

«La Chiesa non capisce» E sfregia due sacerdoti

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I preti aggrediti al volto con un coccio di bottiglia Uno è grave. Fermato 42enne senza fissa dimora

Luca Fazzo

La paura fa irruzione nella basilica romana alle sei dell'ultimo sabato delle vacanze di Natale, tra la folla dei fedeli: e per qualche minuto è forte l'angoscia di trovarsi di fronte a una riedizione italiana del dramma di Rouen, dove davanti all'altare il parroco venne sgozzato dalla furia di un estremista islamico. Invece la dinamica del dramma viene chiarita in fretta, e si scopre che a insanguinare la navata di Santa Maria Maggiore è un ciociaro con problemi psichici che ieri ha deciso di risolvere a colpi di cocci di bottiglia i suoi conti in sospeso con la società in genere e con la Chiesa in particolare.

L'uomo fa irruzione in Santa Maria Maggiore poco dopo le 18 ed appare fin da subito in stato confusionale. A quell'ora la chiesa è piena di gente, si sta celebrando la Messa e almeno duecento persone sono assiepate nei banchi. L'apparizione di Cerro viene subito notata da una parte dei fedeli perché l'uomo dà evidenti segni di turbamento. Si fanno avanti in due, a cercare di farlo ragionare: uno è il viceprevosto di Santa Maria Maggiore don Angelo Gaeta, con lui c'è il prete addetto alla sagrestia, padre Adolfo Ralph. L'esagitato non sente ragioni, inveisce contro i due, poi li colpisce furiosamente usando il coccio come un'arma. I due sacerdoti cadono a terra uno dopo l'altro in una pozza di sangue, cercando di chiedere aiuto nel panico generale. I soccorsi arrivano ed entrambi i feriti vengono portati all'ospedale più vicino: a preoccupare sono le condizioni del responsabile della sagrestia, ricoverato in codice rosso. Insieme all'ambulanza arrivano i carabinieri. Forte è la paura della violenza terroristica. Ma l'aggressore non ha cercato di fuggire, viene fermato e identificato. E basta poco per accertare che il fanatismo religioso non c'entra: l'uomo è noto da tempo ai servizi sociali per i suoi problemi di equilibrio mentale: «Non ce l'avevo con loro due, ma sono un incompreso, la Chiesa non mi ha capito», dice dopo essere stato catturato.

Renzo Cerro è nato a Roccasecca, in provincia di Frosinone, quarantun anni fa: ha avuto problemi di droga, è stato in carcere, poi è scivolato in una sorta di schizofrenia. In passato ha chiesto aiuti e appoggi alla Chiesa, ma i tentativi di riportarlo su un percorso di normalità sono finiti in nulla. E ieri pomeriggio Cerro è un uomo disperato e senza controllo di se stesso, che si muove per Roma deciso confusamente a chiedere giustizia o a farsela da sé.

L'aggressione ai due sacerdoti ha creato sulle prime, inevitabilmente, sconcerto e interrogativi, è ancora troppo fresco lo choc del luglio scorso quando due estremisti islamici fecero irruzione nella chiesa di Saint-Etienne du Rouvray, vicino Rouen, urlando «Allah Akbar» e uccidendo ferocemente l'anziano parroco Jacques Hamel, 86 anni.

Esclusa la matrice terroristica, solo oggi, forse, si scoprirà perché prende di mira proprio Santa Maria Maggiore, nel rione Prati. La chiesa potrebbe avere richiamato la sua attenzione perché è una chiesa particolare, una sorta di enclave vaticana in territorio italiano, sotto il controllo diretto della Santa Sede, con a capo un cardinale, il polacco Stanislaw Ryilko, e nientemeno che il re di Spagna come canonico onorario. Anche per questo la basilica è controllata a vista da una camionetta dell'esercito.

E nei prossimi giorni si potrà capire anche se l'aggressione di ieri sera è legata in qualche modo alle inchieste, una vaticana e l'altra della Procura di Avellino, contro padre Stefano Manelli, il fondatore dei Francescani dell'Immacolata che fu esautorato nel 2013 da Papa Francesco a causa di presunti abusi: di potere, di gestione economica e anche sessuali.

I due sacerdoti feriti a Santa Maria Maggiore, infatti, sono stati fra gli accusatori di Manelli, protagonista di una vicenda nella quale si contano due morti ancora misteriose: quella di un frate filippino e quella del commissario inviato dalla Santa Sede, padre Fidenzio Volpi.


Lo Stato non paga le protesi all'artificiere ferito a Firenze

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Il militare che ha perso un occhio e una mano non è stato assicurato. Così come i poliziotti in prima linea

Luca Fazzo

Le scritte sono apparse sui muri di Milano, ironia feroce sul poliziotto ferito a Firenze a Capodanno mentre cercava di disinnescare una bomba: «Artificiere fatti i c... tuoi, a Firenze avevamo ragione noi»: quasi una rivendicazione dell'attentato, che doveva colpire una libreria dell'ultradestra e invece ha straziato l'agente Mario Vece, che ha perso un occhio e una mano; e ancora, sempre peggio: «Polizia a Firenze, «Guarda mamma, senza mani!». Insieme alle scritte sui muri piovono contro il poliziotto ferito gli insulti dei siti «antagonisti», che gli danno praticamente del torturatore: colpa di una vecchia vicenda di quando era in servizio a Pistoia, e patteggiò la pena per le percosse che il suo equipaggio aveva inflitto a alcuni giovani fermati. Uno dei fermati, si scoprì poi, era il figlio di Vannino Chiti, allora sottosegretario alla presidenza del Consiglio.

Ora quel vecchio episodio viene rispolverato da siti e blog per infierire su un uomo che ha rischiato la vita per fare il suo dovere: e c'è persino chi su Facebook definisce l'esplosione che ha quasi ucciso Vece un atto di «giustizia divina». Ora il Siulp, il sindacato di polizia cui aderisce il ferito, ha deciso di dire basta, e ha affidato all'avvocato Massimiliano Annetta il mandato di querelare chi ha insultato l'agente ferito. Ma gli insulti che piovono sull'agente non sono l'unico aspetto sconcertante della vicenda. A rivelarlo ieri è Antonio Lanzilli, segretario generale del Siulp fiorentino, che ha annunciato l'apertura di un conto corrente per raccogliere gli aiuti economici al collega: una iniziativa resa indispensabile dalla circostanza che gli uomini delle forze dell'ordine non sono assicurati. Nonostante facciano uno dei lavori statisticamente più pericolosi della Terra, i poliziotti non sono tutelati in alcun modo dai rischi di infortunio cui vanno incontro. Sia quando si tratta di infortuni lievi, sia nei casi drammatici come quello di Vece. «In alcune ragioni d'Italia - racconta Lanzilli - gli agenti feriti in servizio si sono visti chiedere il ticket al pronto soccorso. E hanno dovuto pagarlo di tasca propria».

Una volta esistevano le strutture sanitarie interne alle forze di polizia, che sono state progressivamente smantellate. Oggi gli uomini che lo Stato manda in prima linea, negli scontri di piazza come a bordo delle Volanti che pattugliano le strade, sanno che se accade loro qualcosa dovranno arrangiarsi da soli.

«Il caso di Mari Vece rende eclatante questa lacuna», spiega Lanzilli. A nove giorni dall'attentato, il poliziotto ferito è ancora in condizioni critiche, anche se è lucido: ieri è stato operato alla testa per ricomporre i danni alle ossa craniche, che sono stati investiti in pieno dallo scoppio; ma le conseguenze peggiori sono quelle all'occhio destro, che appare irrecuperabile, e al braccio sinistro, che rischia di dover essere amputato fin quasi all'altezza del gomito. Per Vece, insomma, si prepara un calvario medico che lo costringerà a fare i conti con i tempi della sanità pubblica; e per avere delle protesi dovrà mettersi in lista d'attesa. I suoi colleghi di tutta Italia lo sanno, e per questo fin dalle prime ore dopo l'attentato è scattata la gara della solidarietà e sono iniziate ad arrivare le offerte di contributi.

Ieri, anche il Giornale decide di scendere in campo affianco al poliziotto ferito, mandato a rischiare la vita senza assicurazione: e, oltretutto, in condizioni operative che hanno destato numerose perplessità, senza l'utilizzo di robot-artificieri e nemmeno senza adeguate protezioni. «Ma di questo non diciamo nulla - commenta Lanzilli - perchè se ne sta occupando la magistratura».

I colleghi dell'artificiere: "Rischiamo la vita, servono leggi più giuste"

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Moglie e figlie dell'agente Vece in ospedale. "Grazie a tutti quelli che ci stanno aiutando"

Chissà di cosa ha paura la questura di Firenze, che allontana i giornalisti dal reparto dell'ospedale Careggi dove è ricoverato Mario Vece, il poliziotto devastato dalla bomba di Capodanno. Dei criminali che hanno piazzato la bomba davanti a una libreria neofascista, esplosa mentre Vece cercava di disinnescarla, non c'é traccia. C'è invece traccia, e corposa, della superficialità con cui Vece è stato mandato allo sbaraglio, e che Vece potrebbe confermare se gli fosse consentito di parlare: senza protezione, senza utilizzare un robot-artificiere come si fa in tutto il mondo: e che in Italia, accusa ieri il segretario del Sindacato autonomo di polizia Gianni Tonelli, «non si possono usare perché grazie ai tagli della spending review oggi ci sono in servizio solo robot obsoleti, attrezzi acquistati decenni fa e mai rimpiazzati». Così la mattina di Capodanno Vece é stato mandato contro la bomba a mani nude: e, come si è scoperto ieri, senza neanche l'ombra di una assicurazione che lo tutelasse dai rischi del suo mestiere. Così oggi le spese per curare Vece dovranno venire coperte dalla generosità dei colleghi, degli amici, dei semplici cittadini; e dei lettori del Giornale, che ieri ha deciso di intervenire ad aiutare il poliziotto con i fondi raccolti nel 2013 proprio per il sostegno medico e legale agli uomini delle forze dell'ordine. E di cure, l'artificiere avrà bisogno a lungo. Ieri ha lasciato la terapia d'urgenza ed è stato trasferito al quinto piano, reparto di chirurgia maxillo-facciale, dopo essere stato operato al cranio. Il bulbo oculare, che sembrava esploso, è stato ricostruito, e così pure l'orbita e i dotti lacrimali. Ma nessuno può sapere se e quanto quell'occhio riuscirà a tornare a vedere. E ancora meno speranze ci sono per la mano, investita anch'essa dall'esplosione. «Non è stata troncata di netto, ma ne resta veramente poco», spiegano al Careggi. Vece, dunque, è atteso da un percorso lungo e penoso: non dissimile da quello che in questo stesso ospedale sta vivendo un altro servitore dello Stato come lui, il carabiniere Giuseppe Giangrande, ferito a revolverate davanti alla Camera dei Deputati nel 2013. Entrambi, come tutti i loro colleghi, mandati nella trincea della sicurezza pubblica senza assicurazione. Come è possibile? «Solo in questo casi eclatanti - spiega il sindacalista Tonelli - l'opinione pubblica si accorge di quello che per noi è un dramma quotidiano: siamo abbandonati al nostro destino. In teoria lo Stato dovrebbe farsi carico delle spese mediche, ma questo accade solo dopo che una commissione ministeriale ha riconosciuto che l'infortunio è dipeso da cause di servizio, e questo comporta un'attesa tra i cinque e i dieci anni. Nel frattempo dobbiamo arrangiarci». Per rimediare a questa assurdità, il Sap ha predisposto una proposta di legge che prevede che nei casi in cui la «causa di servizio», come nel ferimento di Vece, è palese, l'iter dei rimborsi venga accelerato. Intanto, la moglie e le due figlie del poliziotto ferito si avvicendano al suo capezzale, interrogandosi sulla follia criminale che ha ridotto l'uomo forte e deciso che avevano a casa in questo corpo fasciato e sedato. Ringraziano chi le sta aiutando in questo momento, e non fanno polemiche. Ma che Stato è uno Stato che non protegge i suoi difensori? Ogni anno, seimila appartenenti alle forze dell'ordine finiscono al pronto soccorso: «e a non fargli pagare il ticket - dice Tonelli - è solo il buon cuore del medico di guardia». Avvilente.

Dalla caccia ai mafiosi ai servizi segreti: inizia la nuova vita del capitano "Ultimo"

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Sergio De Caprio, ora colonnello, entra nell'Aise. Controllerà l'operato degli 007

Ha dato la caccia prima ai mafiosi e poi ai politici corrotti. Adesso per il carabiniere più famoso d'Italia arriva una sfida nuova e di scottante attualità: fare pulizia all'interno dei servizi segreti, dare la caccia agli 007 che giocano sporco o lavorano per il nemico. Un mondo difficile, dove anche le disonestà e i tradimenti tendono a venire coperti dal segreto. E dove, come si è appreso con l'indagine romana sui pirati informatici di EyePiramid, anche ex capi dell'intelligece si sono rivelati vulnerabili agli hackeraggi.

Lui è Sergio De Caprio, meglio noto come «Ultimo», colonnello dei carabinieri. Un ufficiale anomalo, fin da quando -giovane capitano - in due stanze disadorne della caserma milanese di via Moscova, dava la caccia ai latitanti di Cosa Nostra al Nord, circondato dallo scetticismo dei suoi capi: ne nacque il blitz della Duomo Connection, l'inchiesta che per prima scoperchiò i fili sotterranei che univano mafia e politica nella ex «capitale morale». Da allora è passato un quarto di secolo, e per «Ultimo» è stato un periodo di successi ma anche di amarezze. Ora arriva la svolta: si toglie la divisa da carabiniere e mette i panni borghesi dell'agente segreto, chiamato a fare parte dell'Aise, il servizio che si occupa di sicurezza esterna. Da tempo l'Aise corteggiava De Caprio. A rompere gli indugi e a volerlo con sè è stato l'attuale direttore dell'agenzia, Alberto Manenti, che ha puntato su di lui per un ruolo specifico: Reparto Sicurezza, ovvero l'ufficio «affari interni» del servizio segreto. Un reparto cruciale ma storicamente poco considerato negli equilibri interni agli 007. La decisione di Manenti ha un significato inequivoco: potenziare il reparto, dare la caccia a chi sgarra con efficienza e senza indulgenze.

«Ultimo» non potrà dirigere il reparto, perché non ha il grado richiesto (serve almeno un generale di divisione). Ma gli è stata assegnata una sezione con garanzia di relativa autonomia operativa. Spia tra le spie, avrà dalla sua parte un vantaggio: di lui non esistono fotografie, è un uomo senza volto se si eccettua quello prestatogli da Raoul Bova che lo impersonò in una serie televisiva di successo.

La scelta di Manenti, condivisa con il comandante dei carabinieri Tullio Del Sette, non ha fatto piacere a tutti: non solo all'interno del l'Aise, ma anche tra i magistrati che di De Caprio si fidavano e che contavano su di lui per le loro inchieste più delicate; e ora dovranno farne a meno. Alla guida del Noe, il Nucleo operativo ecologico dei carabinieri, «Ultimo» aveva trasformato un reparto sonnacchioso in una macchina da indagini sui «poteri forti». Il pmHenry John Woodcock, che sul lavoro del Noe di De Caprio ha costruito molte delle sue inchieste, pare abbia manifestato esplicitamente il suo disappunto: ma senza risultato.

Così per De Caprio si apre una vita nuova, e chissà se nel nuovo ufficio si porterà il manifesto che teneva al muro nella sua stanzetta in via Moscova, l'uomo che in piazza Tien an Men ferma da solo una colonna di carri armati; e che riassumeva bene la sua filosofia composita, decisamente anomala per l'Arma di allora e forse di oggi, un mix di indisciplina programmatica e di amore per la «gente semplice». Non sarà amato dentro i servizi segreti come non era amato tra gli ufficiali dei carabinieri, cui quel collega ruvido e scanzonato divenuto eroe da telefilm è sempre risultato indigesto. Si può giurare che andrà per la sua strada senza guardare in faccia nessuno. Ma sapendo che anche nel mondo delle spie vige la legge di tutte le burocrazie, che perdona tutto tranne il successo. Una legge che De Caprio ha dovuto sperimentare sulla sua pelle, quando scese dal Nord in Sicilia per dare la caccia a Totò Riina, da sempre latitante indisturbato. «Ultimo» lo catturò nel centro di Palermo, e lo Stato lo ringraziò mettendolo sotto processo.

I segreti d'Italia in mano ai pm E possono diventare pubblici

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I dossier dei fratelli Occhionero sono negli Stati Uniti Una rogatoria li farebbe rientrare. Il rischio fuga di notizie

La speranza, per gli hackerati, è che la rogatoria verso gli Stati Uniti, dove i fratelli Occhionero hanno imboscato su un server i frutti delle loro incursioni, arrivi tardi o preferibilmente mai. Perché il giorno in cui i segreti grandi e piccoli custoditi in quelle mail approderanno in Italia finiranno di essere segreti: questo è certo. In un modo o nell'altro diventeranno di pubblico dominio. Lo faranno ufficialmente, depositata agli atti dell'inchiesta; o, nel più classico stile nazionale, circoleranno illegalmente ma alla luce del sole, grazie alla messe di fuga di notizie che costella ogni indagine. E se poi non dovessero trapelare per filo e per segno, lo scenario si farà ancora peggiore, perché a entrare nell'orbita del gossip saranno voci incontrollate e incontrollabili, approssimazioni, brandelli di conversazioni forse esistenti o forse inventate di sana pianta. Insomma, un caos in grado di alimentare per mesi il mercato del pettegolezzo politico-istituzionale.

Certo, è possibile che alla fine si scopra che ha ragione Giulio Occhionero, e che in quei file ci sia poco o nulla. Magari si scoprirà che Matteo Renzi non è stato così tonto da aprire la mail che il 30 giugno 2016 gli arrivò alla sette del mattino, e venire così risucchiato nella rete dei pirati. Ma sul gigantesco bottino di 18.327 caselle di posta elettronica penetrate dal virus, è difficile che non ci sia ciccia a sufficienza per rendere remunerativo il business inventato dai due rispettabili fratelli romani; e, ora che il loro progetto è naufragato, per allazzare torme di reporter investigativi.

Il giorno che il materiale raccolto dagli Occhionero dovesse arrivare nelle mani del pm romano che li ha fatti arrestare, Eugenio Albamonte, si aprirebbe una questione assai complessa. Le conversazioni intercettate dai due hacker capitolini non sono intercettazioni realizzate regolarmente su ordine della magistratura, conservate e protette - dopo le mille polemiche degli anni passati - con sistemi che dovrebbero garantirne la riservatezza (e anche questi, in genere, rivelatisi inefficaci).

No, le mail acchiappate dagli Occhionero sono a tutti gli effetti dei corpi di reato, il bottino della rapina, e come tali è impossibile tenerle fuori dal processo che prima o poi i due arrestati e i loro complici dovranno affrontare. In quel processo, e ancor prima di esso alla fine delle indagini preliminari, le mail dovranno venire depositate agli atti: per consentire agli imputati di difendersi, ma anche per permettere alle loro vittime, ovvero agli intercettati, di fare valere le loro ragioni. Poiché si parla di migliaia di vittime, e pertanto di migliaia di avvocati di parte civile, immaginare che un muro compatto di scrupolo professionale tenga il malloppo protetto dai media è un po' illusorio.

Certo, esiste un precedente, l'unico grande processo celebrato finora in Italia per un caso di spionaggio privato: l'inchiesta milanese sui dossier raccolti illegalmente dall'ufficio sicurezza di Telecom all'inizio degli anni Duemila. In quella inchiesta (nonostante molti abbiano scritto il contrario) non c'era traccia di intercettazioni illecite, ma l'attività di dossieraggio era comunque corposa e documentata. Ebbene, l'intero processo è stato condotto senza trascrivere e senza depositare il contenuto dei dossier, secretati fino al provvedimento di distruzione: con qualche svantaggio forse per i diritti della difesa, ma impedendo alla radice qualunque fuga di notizie. Prima di venire inceneriti, i dossier poterono venire consultati dai difensori solo sotto il controllo dei carabinieri e senza estrarne copia. Si potrà fare altrettanto, con un caso ben più vasto come quello di EyePiramid?

Cassazione contro i pm: "Mediaset fu vittima"

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Non ci fu frode fiscale. Confalonieri e Pier Silvio Berlusconi non avevano responsabilità

Milano - Mediaset non fu colpevole ma vittima, nel caso dei diritti tv comprati dalle major hollywoodiane. È una rilettura-ribaltone, quella compiuta dalla Cassazione della lunga e complicata vicenda processuale imbastita dalla Procura di Milano scavando sui rapporti tra il gruppo del Biscione e i fornitori dei film da trasmettere sulle sue reti. I giudici della Suprema Corte, nelle motivazioni depositate ieri, non si limitano a spiegare perché hanno annullato le condanne inflitte dalla Corte d'appello di Milano a Fedele Confalonieri e Pier Silvio Berlusconi, che erano stati dichiarati colpevoli di frode fiscale. La Cassazione va più in là, e scrive nero su bianco che non ci fu alcuna frode fiscale, perché i costi messi a bilancio erano stati realmente sostenuti, e che di un eventuale ricarico effettuato su quei costi Mediaset fu semmai la vittima, quando effettuò «l'ammortamento di costi effettivamente sostenuti dall'azienda (e alterati da terzi in danno della stessa)». Più o meno quel che i legali del gruppo sostengono da sempre.

Il preannuncio del ribaltone era arrivato il 18 ottobre scorso, quando i giudici della seconda sezione penale avevano emesso il dispositivo che annullava le condanne a un anno e due mesi di carcere inflitte nel marzo 2016 a Berlusconi junior e Confalonieri dalla Corte d'appello di Milano. Alla procura milanese non era stato concesso neanche il contentino di un processo-bis, destinato probabilmente a chiudersi con la prescrizione: condanne annullate «senza rinvio», «perché il fatto non costituisce reato». D'altronde già il tribunale di Milano, nel processo di primo grado del 2014, aveva ritenuto indimostrate le accuse nei confronti dei due imputati. Ma il pm Fabio De Pasquale aveva fatto ricorso, e la Corte di secondo grado gli aveva dato ragione: colpevoli.

Ora su quella sentenza piombano i giudizi sferzanti della Cassazione, che liquida come «mere congetture» quelle che per i giudici milanesi erano prove inoppugnabili. La condanna di «Fidel» e Pier Silvio era stata emessa, scrive la Cassazione, «attribuendo agli imputati una sorta di responsabilità da posizione», ovvero ritenendo che, date le cariche ricoperte nel gruppo, «non potevano non sapere». In conclusione, scrive la Suprema Corte, il verdetto di condanna «si pone al di sotto dello standard motivazionale», modo elegante per dire che non sta in piedi.

In questo troncone Silvio Berlusconi non era imputato, essendo stato prosciolto già al termine delle indagini preliminari.

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