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Channel: Il Giornale - Luca Fazzo
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Ai "cumenda" l'oro di Napoli nella truffa che vale un Picasso

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Società milanese soffia 3 milioni al Comune partenopeo. Vendeva pubblicità ma non rendeva i tributi ai clienti

È la notizia che ribalta i vecchi clichè anti-meridionali: è il milanese che truffa il napoletano. E non un napoletano qualunque, un fessacchiotto preso per strada, bensì il Comune di Napoli in quanto tale: cui una vecchia e un tempo gloriosa società milanese ha «zanzato» milioni di euro, utilizzati dai maturi coniugi che la guidavano per i propri lussi personali, tra sciarpe di cachemire e vacanze a Capri, ma soprattutto in quadri di grandi autori. Compreso un Picasso da dieci milioni, fatto poi espatriare in direzione New York, individuato tre anni fa in una galleria d'arte di Manhattan, ora confiscato e destinato ad essere venduto per risarcire i creditori bidonati dai coniugi milanesi: compreso il Comune di Napoli. Va anche segnalato che i magheggi della anziana coppia poterono andare in porto anche grazie alle complicità in tribunale, dove si tengono le aste dei beni pignorati. Altro che Napoli!

La società sichiama Aip, Azienda italiana di pubblicità, fondata a Milano il 3 marzo 1915 per occuparsi di reclame - come si diceva allora - sui treni e nelle stazioni; e passata nel corso del tempo alla riscossione di imposte pubblicitarie per conto degli enti locali. Alla testa della secolare ditta milanese, sede in via Matteo Bandello, ci sono, all'inizio degli anni Duemila, Angelo Maj e sua moglie Gabriella Amati; nel portafoglio dei clienti ci sono una sfilza di enti locali, dal Comune di Bordighera a quello di Siderno, da Pescara a Oppido Mamertina; e soprattutto il boccone più grosso, il Comune di Napoli.

La sentenza che condanna a nove anni di carcere la signora Amati (il marito, Angelo Maj, è morto a inchiesta già iniziata nel 2012) è stata depositata nei giorni scorsi dal giudice Lorella Trovato, e ricostruisce per filo e per segno il crepuscolo della Aip, che nel corso degli anni accumula nei confronti del Comune partenopeo, guidato allora da Rosa Russo Jervolino, un debito sempre crescente, grazie alla complicità del dirigente del servizio di polizia amministrativa: 3 milioni e 447 mila euro, tasse che la Aip riscuote ma non riversa al cliente, fino a quando il municipio partenopeo chiede il fallimento della società milanese: e qua si scopre che le casse sono desolatamente vuote, perché i coniugi Maj-Amnati hanno dilapidato per i fatti propri oltre 12 milioni di euro.

A quel punto alla caccia del bottino si mette anche l'avvocato del fallimento, Luigi La Marca. Così si scopre che con i soldi spariti dalla cassa sono stati comprati quadri di grande valore. Il boccone più pregiato di tutti, «Compotier et tasse» di Picasso, è stato fatto sparire tre giorni prima della morte di Maj, fingendo di venderlo a un tizio che lo ha spedito in America, e dove viene sequestrato appena prima di essere venduto all'asta.

Dodici quadri invece vengono sequestrati nella sede dell'azienda, su richiesta di Equitalia, e qui accade l'inverosimile: l'intero blocco, stimato in almeno 3 milioni di euro, viene venduto all'asta in tribunale. E, grazie alla compiacenza di un ufficiale giudizario, i coniugi lo ricomprano a un prezzo «enormemente inferiore» a quello reale, 26mila euro in tutto. Un quadro di Iacopo Palma, valore 400mila euro, viene indicato come «opera di autore non noto» e venduto alla coppia per la miseria di trecento euro. Che fine abbia fatto, non si sa.


«Stanno tornando i boss» Quarto Oggiaro ha paura

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Fine pena per capi e gregari in cella negli anni Novanta Il pm: «La droga, tradizione criminale ancora attuale»

Luca Fazzo

Il mormorio circola, anima mezze frasi nei bar di via Amoretti, cambia umori ed equilibri nei capannelli di piccoli pusher nei giardini di via Vialba. Il mormorio dice: «Stanno tornando». Stanno per tornare i vecchi, i ras e i gregari che hanno regnato a lungo su Quarto Oggiaro, e che sono finiti nelle retate degli anni Novanta e dell'inizio del secolo; e che ora a pena espiata si preparano a uscire, a riprendere le fila di un discorso mai interrotto davvero. Perché Quarto Raggio, come lo chiamavano una volta i milanesi di frontiera, non è purtroppo cambiato molto. E quando l'altro giorno il capo della polizia Franco Gabrielli ha inserito il vecchio quartiere della Tangenziale Nord tra i brandelli a rischio del territorio urbano, a Quarto Oggiaro non si è stupito nessuno. Perché qui la violenza è di casa praticamente da sempre, e le violenze più antiche e decisive si chiamano degrado e disoccupazione; a valle vengono la militanza malavitosa, l'arruolamento nei ranghi dei clan.

Che stiano davvero per uscire, i boss e i gregari, è almeno in parte inevitabile. La prima grande retata del pm Gianni Griguolo è del 1994, la sua replica, il blitz «Pavone» del pm Marcello Musso è del 2009. Chi è rimasto impigliato in quelle operazioni ha ormai scontato anni e decenni di galera, e prima o poi uscirà. Ma il problema vero è che, a differenza di altri quartieri, i repulisti giudiziari non hanno ripulito nulla. «La verità - spiega il pm Musso - è che a Quarto Oggiaro c'è una tradizione di criminalità organizzata, basata principalmente sul traffico di droga, che è ancora assolutamente attuale. C'è una continuità tra vecchia guardia e nuova guardia, e c'è una potenza economica rilevante. Uno dei capi del narcotraffico in zona, Francesco Castriotta, lo abbiamo catturato pochi giorni fa dopo sei anni di latitanza. E non si gestisce una latitanza così lunga senza grandi risorse e grandi appoggi».

Il boss più importante sarà forse l'ultimo a uscire dal carcere: Biagio Crisafulli, detto «Dentino», all'ergastolo a Fossombrone per quattro omicidi, oggi uomo apparentemente pacato e rassegnato, laurea in letteratura moderna. Ma la Procura sostiene che anche dal carcere «Dentino» continuasse a regnare, e che a Quarto Oggiaro non si muovesse foglia senza un suo cenno. Sotto processo davanti alla settima sezione del tribunale c'è insieme a lui il Gotha apparentemente immortale del quartiere, gente che in vita sua ha fatto più anni in cella che per strada, eppure per la Procura continua a contare.

Certo, Quarto Oggiaro non è solo questa, e gli sforzi della gente perbene di alzare la testa, di creare un tessuto sociale degno di questo nome, non sono privi di risultato. Ma la scelta del capo della polizia di puntare il dito sul quartiere-icona della malavita milanese non nasce da clichè o da pregiudizi ma da segnalazioni precise e numerose. Informative, rapporti e inchieste dicono che in nessun altro quartiere di Milano la continuità criminale ha attraversato con tanta solidità i decenni. E d'altronde non può essere un caso se solo qui, in questi ultimi anni hanno continuato a susseguirsi ammazzamenti su ammazzamenti, e tutti inequivocabilmente nati nel mondo del crimine organizzato: il rampollo dei Carvelli, Cecco, viene catturato e giustiziato nel 2007, due anni dopo davanti al bar di via Pascarella fanno secco Francesco Crisafulli, fratello di «Dentino»; nel 2013 uccidono uno dopo l'altro due dei fratelli Tatone, Emanuele e Pasquale. Tutti delitti di cui le inchieste hanno dato spiegazioni minimaliste, nessuna guerra tra clan, solo vecchi rancori o scontri recenti. Ma insomma: queste cose accadono solo a Quarto Oggiaro.

Quando Francesco Castriotta arriverà in Italia, estradato dalla Catalogna, sarà interessante capire se sceglierà di affrontare il tanto carcere che lo attende, o se sceglierà di cavarsi d'impaccio collaborando con lo Stato, e raccontando quanti e quali appoggi lo attendessero in zona. E lì magari se ne vedrebbero delle belle, perché - e anche questo qualcosa vorrà dire - da vent'anni a Quarto Raggio non si pente nessuno.

Speculazione e visibilità Così le agenzie di rating "vivono" di bocciature

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La mossa di Dbrs ricorda quella di Fitch del 2011: quanti affari sulla nostra pelle

«I fondamentali economici della stabilità dell'Italia nel 2011 non erano solidi, erano solidissimi», dice l'altro ieri nella sua requisitoria il pm di Trani Michele Ruggiero. Nel suo mirino, c'è il declassamento dei nostri titoli decretato più di cinque anni fa da Fitch, una delle più importanti agenzie di rating mondiali. Il processo pugliese si è trasformato in una inchiesta senza precedenti sullo strapotere dei signori del rating, le società senza volto che decidono le sorti dell'economia mondiale. Ed è difficile non ripensare alla requisitoria del pm Ruggiero quando, una manciata di ore dopo, sull'economia tricolore arriva una mazzata identica a quella firmata nel 2011 da Fitch: stavolta è Dbrs, canadese, una delle quattro regine del rating, l'unica con la sede centrale fuori dagli Stati Uniti, a spedire l'Italia nel limbo dei paesi inaffidabili.

Da «A» a «BBB»: un passaggio astruso, per l'uomo della strada, ma che invece è destinato ad avere conseguenze pesanti sulla vita quotidiana di ogni italiano, con le banche del Belpaese che vedranno stringersi cordoni della banca centrale europea, e riverseranno ovviamente i costi su prestiti e finanziamenti. Inevitabile, quando un paese se lo merita. Ma chi lo stabilisce? Che titoli, che obiettività hanno i signori del rating per decidere della sorte di una nazione? Ed è qui che la requisitoria del processo di Trani fornisce spunti poco confortanti.

«Nel 2011 il nostro Paese stava messo meglio di tutti gli altri Paesi europei», dice Ruggiero. E allora perché Fitch fece scattare il declassamento? Il pm contesta a Fitch anche di avere divulgato anzitempo il downgrade, violando ogni regola: lo fece, dice «per non perdere la propria piccola fetta di mercato, perché era l'agenzia più piccola». Per questo la Procura chiede la condanna a nove anni di carcere di David Riley, analista capo di Fitch. Il governo Berlusconi, anche se il pm nella requisitoria non lo ricorda espressamente, fu travolto dal provvedimento di Fitch.

Che garanzie ci sono che il nuovo declassamento decretato venerdì scorso abbia fondamenti più solidi e che sia immune di obiettivi politici? La stessa Dbrs, nel dossier che lo accompagna, sembra a volte voler punire gli italiani per avere provocato, col «no» al referendum, la caduta del governo Renzi e l'affossamento delle sue riforme. Ma se si va a scavare su Dbrs, si scopre in fretta che il movente attribuito a Fitch per i fatti del 2011, la ricerca di visibilità, si attaglia perfettamente anche a questa agenzia: è ancora più piccola di Fitch, anche se insieme a questa e ai due colossi Moody's e Standard & Poor's fa parte dell'unico gruppo riconosciuto dalla Banca Centrale Europea. E a tenerne le redini non sono autorità indipendenti ma due colossi finanziari pienamente coinvolte nel business mondiale della speculazione, ovvero i fondi Carlyle e Warburg Pincus, gente che detiene partecipazioni azionarie in tutto il pianeta: 40 miliardi di dollari Warbarg Pincus, addirittura 193 miliardi per Caryle, il più grosso private equity del mondo. Signori cui le fluttuazioni dei mercati, da loro stessi determinate attraverso Dbrs, interessano molto.

Fiera a rischio di «tutela»: lo smacco Salone del libro

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Anche la kermesse culturale sfilata a Torino potrebbe svolgersi con l'ente commissariato

Luca Fazzo

Chissà come staranno ridendo a Torino. Perché la prima fiera del libro a Milano, l'esposizione in joint venture con gli editori, strappata quest'estate al capoluogo piemontese - sua storica sede - tra una ridda di veleni e di polemiche, rischia di aprirsi il prossimo 19 aprile in una Fiera commissariata dall'Antimafia. Se l'udienza che si apre oggi davanti alla sezione «misure di prevenzione» del tribunale vedrà accolte le tesi del pool di Ilda Boccassini, a regnare su «Tempo di Libri» sarà il commissario giudiziario, scelto dai giudici per mettere ordine in una società considerata troppo vulnerabile alle infiltrazioni malavitose.

È questa la conseguenza più vistosa dello scenario che si aprirebbe se il tribunale giudicherà fondate le tesi della Procura, avanzate lo scorso 20 dicembre. I pm Paolo Storari e Sara Ombra ritengono che il caso Nolostand, la controllata di Fiera spa che dava appalti su appalti ad una azienda in odore di mafia, la Dominus, non si possa risolvere commissariando semplicemente Nolostand, già da sei mesi diretta da Pier Antonio Capitini, il commissario scelto dai giudici, e destinata a restare sotto tutela altri sei mesi; indagini e intercettazioni dimostrano secondo i pm che anche la capofila, ovvero Fiera spa, non è in grado di tenere la guardia alta, anche perché gestita più da politici che da manager. Neanche le recenti dimissioni dell'intero consiglio d'amministrazione, rimasto in carica solo per la gestione ordinaria e la approvazione del bilancio, darebbe garanzie certe di pulizia e trasparenza.

La decisione dei giudici non arriverà oggi, verosimilmente alla prossima udienza. Ma anche se il tribunale dovesse respingere la richiesta della Procura, lo scenario che attende la prima edizione di «Tempo di Libri» - nome ufficiale del Salone - non è dei migliori. In ogni caso, a gestire l'evento sarà una azienda depotenziata dalle dimissioni dell'intera governance. Da oggi, l'amministratore delegato Corrado Peraboni è in carica solo per la routine; il consiglio d'amministrazione dimissionario si è dato come unico obiettivo l'approvazione del bilancio 2016, che verrà portato all'esame dell'assemblea dei soci il 21 aprile, in pieno «Tempo di Libri»; venticinque giorni prima di quella data, il 27 marzo, gli azionisti della Fiera - ovvero Fondazione Fiera e la Camera di Commercio - dovranno presentare la lista del nuovo board.

Quella dedicata all'editoria non sarà l'unica fiera di settore a sentire l'influenza del momento critico vissuto dall'ente milanese: il timore è che la tempesta giudiziaria spaventi parte delle fiere ospiti, che potrebbero scegliere di rivolgersi altrove. Ma è chiaro che a subire gli effetti peggiori del clima sarà «Tempo di Libri», strappata ai torinesi proprio in nome dell'efficienza e dell'appeal milanese: messi ora drammaticamente in forse dall'inchiesta della Procura.

Mezzi bloccati, elicotteri fermi Tutti gli errori e i ritardi fatali

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Gli spazzaneve ci sono ma nessuno è capace di guidarli. Abolite le province, molte le strade senza manutenzione

E la prossima volta? Se dovesse prevalere il patriottismo di facciata, la retorica degli eroici soccorritori, la demonizzazione delle critiche, che garanzie ci sarebbero che alla prossima tragedia l'Italia si faccia trovare più preparata? Perché ormai un dato è certo: la tormenta senza fine che ha investito l'Appennino terremotato ha avuto conseguenze disastrose grazie a una impressionante serie di superficialità nei dispositivi che sul territorio dovrebbero fungere da presidi proprio contro violenze naturali di questo tipo. Se l'albergo Rigopiano si è trasformato in una tomba per chi si trovava al suo interno, è stato per colpa della lentezza dei soccorsi, prodotta sia dalla carenza di mezzi sia dagli errori umani. E colpa della lentezza sono state anche le sofferenze di centinaia e centinaia di persone nei borghi rimasti isolati.

La ricostruzione delle ultime ore di vita dei turisti e del personale del Rigopiano è inequivocabile. Alle tre del pomeriggio di mercoledì tutti gli ospiti dell'albergo erano pronti a lasciare la struttura e a raggiungere una località sicura, perché per le 15 era stato annunciato l'arrivo di uno spazzaneve che avrebbe liberato la strada. L'arrivo del mezzo viene posticipato alle 19, ma a quell'ora dello spazzaneve non c'è neanche l'ombra. Tre ore dopo, la valanga distrugge l'albergo. E anche dopo la valanga, secondo alcune testimonianze, la prefettura di Teramo liquida come «infondate» le segnalazioni della tragedia che arrivano da più parti; e d'altronde anche la sala operativa della questura teramana, denuncia il sindacalista del Sap Gianni Tonelli, è inagibile dall'ultimo terremoto. Anche questo, inevitabilmente, rallenta i soccorsi. Quando i militari riescono a aprirsi un varco fino all'albergo, per la maggior parte degli ospiti non c'è più niente da fare.

L'aspetto più inverosimile è che gli spazzaneve, nella zona investita dalla perturbazione, ci sono. Ma come denuncia il sito Zonalocale, cinque mezzi di proprietà della provincia di Chieti non hanno potuto essere impiegati per il semplice motivo che non c'è nessuno in grado di guidarli: «In tutta la Provincia abbiamo solo 35 cantonieri, di cui alcuni non guidano (non hanno la patente? O hanno un certificato di invalidità? ndr), altri sono capi cantonieri», spiega il vicepresidente della Provincia. La sostanza è che i cinque, preziosi spazzaneve restano fermi al loro posto, in piena emergenza.

Dietro la paralisi dei soccorsi c'è sicuramente il limbo in cui la abolizione delle Province ha precipitato alcune funzioni cruciali: sia quelle legate alla protezione civile, sia la manutenzione delle strade, frantumata tra Comuni e Regioni, e che ha lasciato in stato di abbandono innumerevoli arterie in tutta la penisola; e c'è un altro «buco nero» normativo, emerso drammaticamente nelle ore di ieri: si scopre che tre elicotteri del Corpo forestale di Rieti non sono potuti alzarsi in volo perché dopo lo scioglimento del Corpo, previsto dalla riforma Madia e scattato il 13 settembre, nessuno ha deciso se assegnare i mezzi ai carabinieri (che hanno assorbito la Forestale) o a i Vigili del fuoco. Così nelle ore tragiche di questi giorni, gli elicotteri sono rimasti fermi a terra, nella base dell'aeroporto Ciuffelli, come i 5 spazzaneve di Chieti. Alla fine, deve arrivare l'esercito per cercare di salvare il salvabile. Resta la debacle di un sistema di protezione civile che, nonostante l'arrivo della perturbazione fosse annunciato da giorni, ha aspettato solo mercoledì per annunciare l'arrivo «nelle prossime ore» di dodici frese a turbina per ripulire le strade. Per gli sventurati del «Rigopiano» era troppo tardi.

La crociata di Stefania nel nome del padre: "Sento meno ragli, su Craxi cambia l'aria"

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La figlia di Bettino e la lotta per una via a Milano: «Il muro di ipocrisia sta crollando»

«Ciao, sono Stefania». Un flash: quasi quarant'anni fa, la grande casa di Bettino Craxi in via Foppa: e la figlia neanche ventenne, che apre agli amici i grandi corridoi dall'arredamento un po' pesante, i cimeli di Garibaldi accumulati dal padre sugli scaffali quasi alla rinfusa. La voce è la stessa di allora. Ora viene da lontano, da Hammamet. Com'è il tempo, lì, Stefania? «Nei giorni scorsi era freddo. Oggi è bellissimo, è il tiepido inverno di Hammamet». Chissà se parla solo del clima in Tunisia o anche del disgelo improvviso, qui, sull'altra sponda del Mediterraneo, dove per la prima volta sembra potersi parlare di Bettino Craxi senza paraocchi, degli errori ma anche delle intuizioni, del coraggio come delle asperità.

Piccole cose si muovono: il ministro degli Esteri, Alfano, che scende in Tunisia a portare i fiori sulla tomba, li appoggia sul libro di marmo con l'epigrafe, «la mia libertà equivale alla mia vita»; il sindaco di Milano che si dice favorevole a «riaprire il dibattito» su una via da intitolare al primo premier socialista della storia d'Italia: laddove è chiaro che la questione, vecchia e in fondo uggiosa della via o della piazza da battezzare non è più una faccenda toponomastica bensì una questione che riguarda la politica, la memoria, persino l'identità nazionale, il bisogno di un paese di fare i conti col suo passato.

Grumo Appula, Alà dei Sardi, Castiraga Vidardo: piccoli borghi dai nomi immaginifici qua e là per il Paese hanno già dedicato una via a Craxi. Ma è ovvio che la battaglia sarà vinta quando a sdoganare Craxi sarà la sua città, quella che - anche nei lunghi anni di Palazzo Chigi - fu la capitale di «re Bettino». E il giorno che a Milano ci sarà una via Craxi ad averne il merito e a trovare finalmente pace sarà soprattutto sua figlia Stefania, questa donna ostinata e aspra, dal carattere spesso non facile ma forse pure lei come il padre in fondo timida.

È la volta buona, Stefania? O sono le manfrine consuete della politica, le aperture fasulle destinate a finire in nulla, tra tattica e menzogna? «Il clima si è davvero rasserenato, finalmente. Stavolta ho sentito meno ragli del solito». Ragli? «Esattamente. A strepitare è rimasto il Trio Manetta, quelli del Fatto, insieme a personaggi che su questa storia hanno costruito carriere da giudici e da politici, in testa il signor Di Pietro che farebbe meglio a spiegare le tante cose oscure che lo riguardano o a tacere per sempre». Ed eccola qui, inevitabile, inesauribile attraverso i decenni, la rabbia verso il pm contadino, il presunto salvatore della Patria dalle grinfie dei partiti ladri, e che già Ghino di Tacco, sulfureo alias di Craxi, accusò oltre che di umane debolezze anche di essere docile ed alacre strumento di manovre assai più grandi di lui.

Della tesi craxiana del complotto, Stefania è stata l'erede e la continuatrice: sia negli anni della latitanza ad Hammamet, quando il fax era rimasto l'unico contatto tra suo padre e il mondo; e soprattutto dopo quel pomeriggio di gennaio di diciassette anni fa, in cui entrando nella camera da letto della grande villa bianca - che da ragazzina detestava, per le vacanze francamente pallose che insieme al fratello Bobo le toccava trascorrervi, e che poi aveva imparato ad amare - trovò suo padre senza vita. Viene da chiederle, a costo di essere indelicati, se la sua rabbia costante non sia sintomo di un lutto non elaborato. «La morte di un genitore si supera, un figlio è preparato a dover seppellire suo padre. Quello che non ho elaborato e non elaboro è il senso di ingiustizia che porto nel cuore. Ho dovuto condurre una battaglia contro un muro fatto di ipocrisie e di viltà, cementato da un misto di ignoranza e opportunismo. Adesso vedo che il muro si sta finalmente sgretolando. Era ora».

Sul perché le aperture arrivino proprio adesso - troppo tardi secondo lei, troppo presto per gli irriducibili - le idee possono essere disparate. «La storia avanza con passo felpato», dice Stefania. Ma è anche convinta, e appare difficile darle torto, che conti la delusione profonda degli italiani per l'Italia di oggi, le promesse mirabolanti di una Seconda Repubblica rivelatasi la brutta copia della prima, «c'è davvero qualcuno che sente di stare meglio oggi che negli anni Ottanta?». Ciò che conta, dice, è che il clima sta davvero mutando: «Io penso che le aperture all'interno del Partito Democratico siano sincere».

Lei oggi è una donna matura, due matrimoni, tre figli, una passione politica mai sopita, che l'ha portata anche a scontrarsi duramente col fratello, colpevole di essersi schierato alla fine con gli erede dei persecutori del padre. Anzi, non del padre: di Craxi. Lo chiama così, col cognome: e così intende dire che non difende un parente per dovere filiale, ma una figura ed un epoca, spazzati via da «uno scontro tra la politica e i poteri alti, fatti di lobby economiche e finanziarie. Si può rileggere la storia di Tangentopoli - dice come storia delle privatizzazioni, che vennero presentate e poi imposte come la liberazione da tutti i mali».

Quest'anno un libro di Matteo Gerlini, Il dirottamento dell'Achille Lauro e i suoi inattesi e sorprendenti risvolti, ha raccontato come gli Stati Uniti - dichiarazioni ufficiali a parte - non avessero perdonato al governo italiano la notte di Sigonella, quando Craxi mandò l'esercito a bloccare i marines che volevano catturare il capo dei dirottatori, Abu Abbas. C'entra quella notte, Stefania, con il ciclone di Mani Pulite? «Io so cosa pensava Craxi. Craxi non ha mai pensato a una vendetta diretta per i fatti di Sigonella. Ma sapeva di essere un uomo scomodo, perché aveva difeso l'autonomia politica della nazione. Dimostrò di essere un leader e di non essere pronto a piegarsi. Insomma, era un uomo che era meglio eliminare».

Nuovo attacco a Berlusconi Processo alla «generosità»

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Il leader di Fi a giudizio per il terzo filone del caso Ruby Ha dato soldi alle ragazze per aiutarle e lo ha ammesso

Chissà se la Procura della Repubblica di Milano farà in tempo a impedire che Silvio Berlusconi ritorni in politica. Ad una manciata di giorni dall'annuncio della Corte dei diritti dell'uomo, che entro l'anno si pronuncerà sul ricorso del Cavaliere contro la sua decadenza da parlamentare, dagli uffici giudiziari del capoluogo lombardo arriva un uno-due che potrebbe tenere alla larga l'ex premier dalle cariche di governo anche se il suo ricorso a Strasburgo dovesse venire accolto. Nel giro di tre giorni, la Procura milanese riapre in grande stile le ostilità sul fronte del caso Ruby, ovvero i rapporti tra Berlusconi e le ragazze che partecipavano alle feste serali nella sua casa di Arcore: caso già sgonfiato, nei suo temi principali, dalla sentenza definitiva di assoluzione di Berlusconi dalle accuse di concussione e prostituzione minorile, ma che ha visto i pm milanesi mai domi nel dare la caccia alle colpe che il leader di Forza Italia avrebbe inanellato per mettere a tacere le ragazze, comprando a suon di milioni le loro testimonianza su quanto accadeva nelle serate di Villa San Martino.

Ieri, accogliendo la richiesta dei pm Tiziana Siciliano e Luca Gaglio, il giudice preliminare Carlo Ottone De Marchi rinvia Berlusconi a giudizio per corruzione in atti giudiziari: il processo inizierà il prossimo 5 aprile, e vedrà il Cavaliere accusato di avere dispensato oltre dieci milioni a Kharima el Mahroug e ad altre otto ragazze. Soldi che Berlusconi ha sempre ammesso e anzi rivendicato, spiegando come si trattasse di aiuti umanitari a ragazze che avevano avuto carriera e reputazione rovinate dall'essere state sue amiche. «Si processa il reato di generosità», è il commento di Federico Cecconi, l'avvocato che difende l'imputato insieme al collega Franco Coppi.

A rendere tutto più complicato, c'è che l'ordinanza di ieri arriva ad appena 48 ore di distanza da un altro segnale pesante: l'iscrizione di Berlusconi nel registro degli indagati, sempre con l'accusa di corruzione giudiziaria, in un nuovo filone Ruby (il quarto!), relativo agli aiuti che anche nei mesi scorsi avrebbe versato a quattro ex Olgettine. Si tratta, casualmente, delle stesse fanciulle (Elisa Toti, Aris Espinosa, Miriam Loddo e Giovanna Rigato) il cui fascicolo era finito davanti ad altri tribunali sparsi nella Penisola: ora i magistrati milanesi puntano a reimpadronirsi anche di quei casi, evitando il rischio che altrove qualche collega poco attento coltivi senza la necessaria efficienza il troncone affidatogli.

Di fatto, Berlusconi si trova nella situazione - a suo modo paradossale - di rischiare una condanna più pesante in questo processo di quella che gli venne inflitta in primo grado nel caso Ruby, sette anni poi cancellati in appello e in Cassazione: e questo quando è ormai assodato che durante le sue feste non accadeva nulla di illecito, e quindi eventuali bugie dette dalle partecipanti alle cene non hanno coperto alcun reato. È ben vero che i pagamenti alle ragazze sono effettivamente avvenuti (anche se dei sette milioni che sarebbero andati a Ruby c'è traccia solo in piccola parte, e peraltro la giovane marocchina iniziò a scagionare Berlusconi, secondo la stessa ricostruzione della Procura, in modo del tutto spontaneo), e che l'azione penale in casi di questo genere è obbligatoria: ma nelle intercettazioni realizzate dai pm, soprattutto negli ultimi tempi, le telefonate di alcune ragazze somigliano più a tentativi di estorsione che a richieste di aiuto.

L'Arma lascia la sede della storica «Pastrengo»

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Il Comando interregionale dei carabinieri starebbe per traslocare. Motivi di bilancio

Luca Fazzo

Ancora nulla di definitivo, nessuna decisione ufficiale, spiegano gli alti gradi dei carabinieri milanesi. Ma a segnare un percorso quasi obbligato è la dura legge del bilancio. La necessità sempre più stringente di fare quadrare i conti si prepara a fare una vittima illustre: la caserma dei carabinieri di via Marcora, a ridosso di piazza della Repubblica. È una struttura che fa parte a pieno titolo della storia della città: qui il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa comandava la divisione «Pastrengo» e la sezione speciale anticrimine, la punta di diamante dell'Arma nella lotta al terrorismo rosso. La vittoria finale contro le Br e i loro epigoni passò per le stanze blindate di questa palazzina singolare e un po' tetra, dove erano gli uffici sia di Dalla Chiesa che del suo braccio destro, il comandante della sezione, Nicolò Bozzo.

Oggi la palazzina ospita il comando interregionale dei carabinieri, la struttura che ha preso il posto delle Divisioni: un ufficio importante, ma oggi fuori dalla routine diretta della lotta al crimine. Il problema è che lo stabile non appartiene al ministero della Difesa, ma al Comune di Milano, e la sua gestione ha un costo. E quindi è quasi inevitabile che il suo futuro rientri nella partita di spostamenti che attende i carabinieri milanesi quando sarà stata ultimata la più importante operazione edilizia in corso attualmente da parte dell'Arma: la ristrutturazione della «Montebello», la grande caserma affacciata su via Vincenzo Monti, che finora ospita il Nucleo radiomobile e alcuni uffici della Legione, ma anche altre e disparate strutture, in condizioni non sempre all'altezza dei tempi. Per questo sono in corso da tempo lavori complessi e onerosi, che porteranno a una «Montebello» quasi interamente rinnovata e in grado di ospitare altri reparti oggi sparsi per la città.

Già, ma quali? Impensabile, si spiega in ambienti Arma, dismettere la caserma di via Moscova, sede storica del Comando provinciale e del Nucleo investigativo, che più di ogni altra identifica i carabinieri nell'immaginario del milanese medio. Problematico (ma non escluso) sarebbe spostare da via Lamarmora il Battaglione (i carabinieri dell'ordine pubblico) e il Ros.

Così le ipotesi più accreditate dicono che in via Vincenzo Monti potrebbe approdare il comando interregionale, la vecchia «Pastrengo»: con qualche problema per il Comune di Milano, che si troverebbe a dover inventare una nuova destinazione per il vecchio stabile littorio, con il portone ornato di bassorilievi di mitra, maschere antigas e bombe a mano. E però anche con la necessità di lasciare a futura memoria qualche traccia, nello stabile di via Marcora, del passaggio nei suoi uffici di una generazione di militari che si assunse il compito di rischiare la pelle in prima persona per difendere la democrazia, in un periodo in cui non erano in molti a sentire questo impulso.


Le trame di Re Giorgio intercettato al telefono col banchiere inquisito

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Ubi Banca, scoop di Panorama: Napolitano garantì a Bazoli: ti farò incontrare Mattarella

Se qualcuno ancora pensava che Giorgio Napolitano fosse stato arbitro e garante imparziale della vita democratica del paese, la smentita - persino brutale nella sua chiarezza - arriva da una raffica di intercettazioni della Guardia di finanza. La voce di Napolitano è nei file audio, le sue parole trascritte nei brogliacci. E questa volta non potranno venire distrutte o cancellate, come Napolitano pretese e ottenne quando a intercettarlo furono i pm palermitani dell'inchiesta sulla trattativa tra Stato e mafia.

Nessuna immunità, stavolta: uno scoop di Panorama rende di pubblico dominio quanto senza clamori era stato depositato agli atti di una inchiesta. E che inchiesta: l'indagine della Procura di Bergamo sui trucchi e le bugie che Giovanni Bazoli, il più importante banchiere italiano, presidente emerito di Banca Intesa, avrebbe messo in atto per indirizzare a suo piacimento la vita di Ubi Banca, il gruppo bancario nato dagli accordi tra finanza bresciana e bergamasca. Di queste manovre si è parlato ampiamente nel novembre scorso, quando i pm bergamaschi hanno comunicato a Bazoli e altri 38 indagati la chiusura delle indagini per ostacolo alla vigilanza della Banca d'Italia e illecita influenza sull'assemblea.

Ora Panorama scopre che Bazoli è stato intercettato a lungo dalla Guardia di finanza, e che quelle telefonate raccontano di una rete impressionante di rapporti politici e istituzionali gestiti dal grande banchiere cattolico: Bazoli parla con gli uomini di Enrico Letta e con quelli di Renzi, con direttori di giornali e con ministri, determina o ostacola a suo piacimento nomine e scelte cruciali del governo. In questo instancabile (a dispetto degli 84 anni suonati) attivismo, Bazoli ha un punto di riferimento costante: Giorgio Napolitano.

L'intercettazione Bazoli-Napolitano depositata agli atti porta la data del 19 marzo 2015, quando l'ex leader della destra Pci ha lasciato il Quirinale da poco più di un mese. Ma il rapporto tra i due, tra il vecchio comunista e il banchiere cattolico, è di ben più antica data. Secondo quanto risulta al Giornale, telefonate tra Bazoli e Napolitano sono state intercettate anche mentre il secondo era Presidente della Repubblica, ma non sono state registrate in ossequio alle prerogative della massima carica dello Stato. Poi il 3 febbraio Sergio Mattarella entra al Quirinale, e da quel momento le chiacchiere di Napolitano non sono più inviolabili.

Ed ecco, il brogliaccio delle «fiamme gialle», che racconta come Napolitano si adoperi per creare un asse anche tra Bazoli e il suo successore, Mattarella. «Napolitano specifica di avere fatto riferimento (parlando con Mattarella) anche al dialogo di questi anni tra loro, e prima ancora con Ciampi. Napolitano dice che questi (Mattarella) ha apprezzato, ed ha detto che considera naturale avviare uno stesso tipo di rapporto, schietto, informativo e di consiglio. Bazoli dice che lo cercherà per canali ufficiali nei prossimi giorni, Napolitano dice speriamo bene anche perché ha sentito fare un nome folle, ovvero di quel signore che si occupa o meglio è il factotum della 7». È un chiaro riferimento a Urbano Cairo, che punta in quei giorni a conquistare il Corriere della Sera, di cui la banca di Bazoli è azionista: la scalata riuscirà, nonostante l'opposizione di Napolitano, ma intanto Bazoli ha ottenuto che Napolitano gli aprisse un canale anche con il suo successore: il 27 marzo Bazoli, che in quel momento è già indagato, viene accolto da Mattarella al Quirinale con tutti gli onori.

Sala teste al processo Maroni «Non firmai il viaggio a Tokyo»

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Il sindaco ha deposto ieri sul caso della trasferta Expo per una collaboratrice del presidente della Lombardia

Luca Fazzo

Al terzo piano del Palazzo di giustizia Beppe Sala dovrà tornarci prima o poi, e in veste più scomoda, per rispondere da indagato al sostituto procuratore generale Felice Isnardi, che lo accusa di avere falsificato le date su un verbale di Expo per non fermare l'appalto più importante, i lavori per la Piastra. Ieri il sindaco sbarca in tribunale nel ruolo più agevole di testimone, chiamato a deporre nel processo al presidente della Regione, Roberto Maroni. Ma la veste è comoda solo fino a un certo punto, perché anche in questo processo si parla molto dell'esposizione universale, e in particolare dei favori che Maroni avrebbe chiesto per una giovane donna del suo staff, Maria Grazia Paturzo, assunta in Expo e poi aggiunta alla missione in business class per Tokyo. Entrambe le decisioni, assunzione e viaggio in Giappone, spettavano a Sala, allora amministratore delegato di Expo.

Come se la cava ieri, Sala, in aula? Bene, quando a interrogarlo è il pm Eugenio Fusco; un po' meno quando a incalzarlo è l'avvocato di Maroni, Domenico Aiello. Inanella qualche «non ricordo» di troppo, e alla fine quando gli chiedono spiegazioni su altre missioni autorizzate a spese di Expo (compresa, incredibilmente, quella di una funzionaria mandata a New York in classe Magnifica, ovvero superbusiness, 8.400 euro di biglietto) dice testualmente. «A volte firmo in maniera seriale, sulla fiducia», spiegazione già fornita dal primo cittadino quando dovette spiegare le omissioni nelle dichiarazioni dei beni e dei redditi. In questo caso - dice il sindaco - faceva tutto Christian Malangone, «era il migliore interprete del mio pensiero»: Malangone, il manager di Expo che per questa vicenda è stato condannato a quattro mesi di carcere.

Per spiegare il proprio ruolo nella assunzione e nel viaggio a Tokyo (poi abortito, perché Maroni che era il capocomitiva preferì rinunciare) della Paturzo, Beppe Sala si aggrappa al pragmatismo di fondo con cui ha gestito tutta Expo: spiegando, in sostanza, di non avere rispedito esplicitamente al mittente le richieste di Maroni perché la Regione era socia di Expo e ci metteva un sacco di soldi. La richiesta iniziale del governatore, ricorda Sala, era di due assunzioni, collegate al «World Expo Tour» che il Pirellone intendeva varare e finanziare.

«Dopo la mia resistenza, Malangone mi disse: la Regione offre la disponibilità ma chiede che ci sia la contropartita. Io dissi: al massimo una sola assunzione, e per verificare il buon andamento del Tour diamo un incarico temporaneo, così vediamo un po'». Così la Paturzo entrò in Expo, contratto di sei mesi poi rinnovato per altrettanti. Ha mai letto il suo curriculum? Chiede il difensore di Maroni. «No, mai».

La faccenda, come è noto, si complica quando per il 2 giugno 2014 il governo programma una serie di missioni pro Expo nelle principali città del mondo, a Maroni viene chiesto di andare a Tokyo. E lui chiede di imbarcare anche la Paturzo.

«Malangone mi dice di questa richiesta della Regione, io prendo tempo, digli che ci stiamo pensando, se devo essere onesto non dico radicalmente di no. Dovevo seguire la procedura ma avevo a che fare con soci che erano i finanziatori della società, era la strategia della palla in avanti... Segnalavo i miei dubbi e continuavo a non autorizzare... La mia intenzione era far sì che la Paturzo non andasse a Tokyo, ma Malangone doveva convincere la controparte che non era il caso, ricondurli al buon senso». Ancora: «In un attimo ho deciso che non doveva andare. Da questo ad alzare il telefono e dire non ci va!... Con qualche normale tattica ho cercato di scantonare». E come si spiega, chiede il pm Fusco, che Malangone in una mail che invece sblocca il viaggio della Paturzo scriva «ok, capo allineato»? «Nella mia testa significa è il capo è informato, altrimenti avrebbe scritto il capo è d'accordo».

Sta di fatto che il biglietto per la Paturzo viene ugualmente prenotato, e solo il ripensamento di Maroni impedisce che il viaggio si compia. Come mai? Qui la spiegazione Sala la dà ai cronisti, a fine udienza: «Era solo una prenotazione prudenziale. Io non avrei mai autorizzato il viaggio».

Insomma, tutto per Sala, è accaduto rispettando le regole ma cercando di non fare arrabbiare la Regione. Perché un bravo manager fa così: «Un manager gestisce anche con la sua sensibilità manageriale, non tutto è proceduralizzato». Si continua il 23 febbraio.

E la vedova dei «misteri» ora deve tornare alla sbarra

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Il marito ucciso a Desio nel 2011, il pm ha impugnato l'assoluzione della moglie rimasta sempre in silenzio

Luca Fazzo

«Il silenzio è d'oro. Avvaletevi», diceva un cartello nello studio di un grande avvocato. La signora Germania Biondo ha fatto tesoro del precetto. L'hanno arrestata, perquisita, sbattuta in galera con l'accusa di avere ammazzato l'ex marito: e lei zitta, muta come un pesce dall'inizio alla fine. In caserma, in carcere, in aula, carabinieri e magistrati le hanno chiesto: vuole rispondere, vuole discolparsi? E lei: no grazie.

Ha funzionato, almeno per ora. Nel dicembre 2015 il tribunale di Monza l'ha assolta con formula piena. Per l'uccisione del marito, Paolo Vivacqua, siciliano di Agrigento da decenni trapiantato a Desio, freddato nel suo ufficio il 14 novembre 2011, sono stati condannati in quattro: ergastolo ai due sicari, ventitrè anni al mandante e all'intermediario. Lei, la taciturna Germania, assolta e liberata. Il morto era suo marito, il mandante era il suo amante. Ma lei, dice la sentenza di primo grado, non c'entra niente.

I giochi però non sono finiti. Il prossimo 15 marzo, davanti alla Corte d'assise d'appello di Milano, il giallo si riapre, perché il pm che condusse l'inchiesta, Donata Costa, ha impugnato l'assoluzione: saldamente convinta che a spedire al creatore di Vivacqua fu il piano messo a punto dalla ex moglie e dal suo nuovo compagno, all'interno di un viluppo di rancori e quattrini reso complicato dalla figura del morto. Vivacqua, col rispetto dovuto ai defunti, non era uno stinco di santo: fatture false, soldi ai politici per sistemare piani regolatori, qualche contatto con i clan della «stidda», la mafia agrigentina. Se non fosse stato ammazzato, sarebbe prima o poi finito sotto processo.

Delle imprese del marito, Germania ovviamente sapeva tutto. E nel ricorso contro la sua assoluzione, il pm Costa indica, punto dopo punto, perché questa storia nera nella bianca Brianza non può avere come unico mandante l'amante di lei, l'investigatore privato Diego Barba. Uno che deve amarla davvero, visto che per lei si è preso anche una valanga di botte dai suoi figli, poco soddisfatti del nuovo legame della madre.

La love story tra Barba e la Biondo, dice il pm, è dimostrata da numerose prove; eppure mai, nemmeno una volta, i due si parlano al telefono. E va bene che Germania è un tipo poco loquace, ma si sono mai visti due amanti che non si chiamano? «L'assenza di contatti - scrive il pm - costituisce serio indizio a carico dalla Biondo, atteso che solo la necessità che la loro relazione non fosse scoperta dagli inquirenti può avere giustificato una simile e prolungata attenzione». «La Biondo e il Barba avevano un comune movente rispetto al togliere di mezzo Vivacqua per vivere liberamente la loro relazione»; e d'altronde «il dibattimento ha provato che la Biondo aveva una profonda rabbia nei confronti del marito, che l'aveva lasciata per una donna più giovane con cui aveva avuto un figlio, ma che non consentiva a lei di vivere liberamente e di intrattenere relazioni con un altro uomo».

Il primo progetto della coppia, secondo il pm, è meno cruento: cercano di liberarsi di Vivacqua facendolo finire in galera, spifferando alla Procura di Milano i suoi traffici di fatture false. Ma la Procura sceglie di indagare il commerciante a piede libero: purtroppo per lui. Perché «il mancato raggiungimento dell'obiettivo dell'arresto in tempi brevi ha evidentemente indotto la coppia a cambiare strategia». A mettersi, cioè, alla ricerca di un killer.

Non era (d'altronde non lo è quasi mai) solo una faccenda d'amore: in mezzo c'erano anche i soldi di Vivacqua, quelli ufficiali dei fondi neri, compresa una valigia con sei milioni che ancora non si sa che fine abbia fatto. Potrebbe dire qualcosa Germania, durante il nuovo processo: se, per la prima volta, si decidesse a parlare.

In un'aula deserta la patetica rimpatriata dei duri di Mani pulite

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Nell'anniversario dell'inizio dell'indagine solo 31 persone ad ascoltare Di Pietro e Davigo. Di Pietro confessa: "Se non mi fossi dimesso dalla magistratura mi avrebbero arrestato"

Milano - Eh sì: sono passati venticinque anni, non gliene importa (fortunatamente) più niente a nessuno, e l'aula magna del tribunale, poche ore prima gremita per un convegno sul cyberbullismo, si svuota dolorosamente quando si comincia a parlare di Mani Pulite. A popolare le rade sedie occupate una platea di trentuno persone, giornalisti esclusi. Ma in fondo va bene così, perché questo permette a Piercamillo Davigo di ripetere l'aforisma sulle prede e i predatori («abbiamo catturato le zebre lente, abbiamo affinato le specie») senza che nessuno si alzi a protestare per averlo sentito già centodue volte; e, cosa forse più grave, che lo stesso Davigo possa dire impunemente che «ho visto assoluzioni che gridano vendetta, il codice è scritto per farla fare franca ai farabutti», e amen se il codice l'ha scritto uno che si chiamava Gian Domenico Pisapia.

Va in scena così, come una piece un po' fuori moda, l'anniversario di Mani Pulite, in quella stessa aula magna in cui Francesco Saverio Borrelli lanciò il suo proclama, «resistere-resistere-resistere» tra le ovazioni dei suoi pm. Poche facce, qualche sopravvissuto: «Siamo l'associazione combattenti e reduci», scherza Di Pietro. Combattenti e reduci però tutti della stessa parte, magistrati e cronisti un tempo risolutamente schierati al loro fianco; la voce degli sconfitti, gli arrestati, i pochi avvocati con la schiena dritta, nessuno ha pensato che valesse la pena sentirla; ma d'altronde a organizzare il tutto è una associazione di marcate simpatie grilline, e grillino è l'unico politico seduto sul palco: e anche questo va bene, perché così si possono inanellare allegramente strafalcioni storici e giuridici, dicendo che il decreto Biondi del luglio 1994 venne fatto per liberare Paolo Berlusconi, che all'epoca era già libero da un pezzo, o persino che la legge Severino è stata fatta per salvare Silvio Berlusconi e Filippo Penati. Balle un tanto al chilo per una claque depressa.

Della sala deserta, gli organizzatori danno la colpa a un fantomatico complotto ordito ai loro danni. Vabbè. Di Pietro invece si consola spiegando che l'altro giorno a Borgomanero la sala era piena, e comunque «c'è la desolazione dell'opinione pubblica che non crede più che possa cambiare qualcosa»; ma non spiega cosa la famosa opinione pubblica sarebbe dovuta venire a capire, visto che non c'è l'ombra di una autocritica e nemmeno di una analisi, «noi eravamo le guardie e loro i ladri», punto e fine. Di Pietro ritira fuori la storia di quando il Sisde lo spiava e dossierava per fermarlo, spiega che Mani Pulite venne bloccata quando iniziò ad occuparsi di mafia e politica, insomma niente di nuovo sotto il sole. «La tangente Enimont - dice - era di centocinquanta miliardi, ne abbiamo trovati settanta, gli altri che fine hanno fatto?», e fa la faccia di chi conosce benissimo la risposta. «Abbiamo esagerato con le scarcerazioni», dice serio Davigo.

Erano anni che Di Pietro non metteva piede a Palazzo di giustizia. A sentirlo non è venuto neanche uno dei suoi ex colleghi.

(Mezz'ora prima del convegno, al bar sotto il tribunale. Di Pietro, che in fondo era il meno cinico del pool, mangia un boccone con un vecchio amico. Antonio, vista come è finita, rifaresti tutto? «Il magistrato sicuramente sì. Sul fatto che dopo mi sono messo a fare politica ci penserei due volte la prossima volta». Beh, potevi continuare a fare il magistrato... «Se non mi dimettevo andava a finire che mi arrestavano»).

Voti comprati dalla 'ndrangheta Zambetti condannato a 13 anni

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Stangata sull'ex assessore lombardo alla Casa della giunta Formigoni. Il suo caso fece cadere la Regione

Luca Fazzo

Non cadde ingiustamente, la giunta di Roberto Formigoni che governava la Lombardia nel 2012. Ieri, a conclusione di un processo che sembrava non dovesse finire mai, il tribunale di Milano ritiene provato che davvero i tentacoli del crimine organizzato erano arrivati fin nel cuore del Pirellone, e che un uomo-chiave della Giunta era sceso a patti con i clan: Domenico Zambetti, allora assessore alla casa, che si vede condannato a tredici anni e mezzo di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa. Per garantirsi la rielezione, avrebbe comprato pacchetti di voti controllati dalla 'ndrangheta attraverso Ambrogio Crespi, fratello del sondaggista Luigi Crespi, che si vede rifilare dodici anni.

È una condanna-batosta, e non solo per l'entità della pena (in Sicilia a Totò Cuffaro, per dare un'idea, vennero inflitti sette anni) ma perché i giudici smentiscono anche le tesi della Procura della Repubblica, che - nella requisitoria del pm Giuseppe D'Amico - aveva chiesto che il reato di associazione mafiosa svanisse dal processo, e che Zambetti venisse condannato solo per voto di scambio, pena proposta dieci anni. Invece il tribunale presieduto da Maria Luisa Balzarotti ritiene che Zambetti scese scientemente a patti con il crimine organizzato. Decisive le intercettazioni in cui Eugenio Costantino, calabrese, commerciante di oro usato, si vantava dei suoi legami con il politico: vanterie che invano Costantino in aula ha cercato di ridurre a balle, «ho iniziato a sedici anni a millantare su tutta la mia vita», «negli ultimi tempi millantavo di essere 'ndranghetista». Niente da fare, per i giudici Costantino è un criminale vero (e infatti si prende la condanna più alta, sedici anni) e veri sono i suoi rapporti con Zambetti: consacrati dal versamento di quarantamila euro al presunto boss Pino D'Agostino, compare di Costantino.

Inutilmente gli avvocati difensori di Zambetti e soprattutto di Crespi hanno cercato di dimostrare, sulla base di autorevoli analisi dei flussi elettorali, che le migliaia di voti che la 'ndrangheta doveva portare al candidato esistevano solo nelle millanterie di Costantino, e che nelle elezioni sotto accusa - le regionali del 2010, che lo vedono in lista per il Pdl - Zambetti migliora la sua performance ovunque, anche in zone a bassa penetrazione calabrese. Per il tribunale l'accordo ci fu, e il politico si asservì agli interessi del clan.

In una sentenza complessivamente severa, spiccano le uniche assoluzioni: Alfredo Celeste, all'epoca dei fatti sindaco di Sedriano, accusato di avere promesso appalti a Costantino, viene assolto «perché il fatto non sussiste», e insieme a lui il medico Marco Scalambra. Vengono invece trasmesse alla Procura, perché indaghi per falsa testimonianza, le dichiarazioni rese in aula dall'assessore regionale all'economia Massimo Garavaglia.

Fondi Expo per il tribunale Cantone manda la Finanza

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Nel mirino 16 milioni stanziati senza gare d'appalto per servizi informatici. Che ancora non funzionano

Milano - Appalti brevi manu nel tempio della giustizia e nel nome di Expo, sotto la regia del Comune di Milano: sono serviti tre anni dalle prime rivelazioni del Giornale e del blog Giustiziami ma qualcosa finalmente si muove sotto la cappa di indifferenza che ha accompagnato le notizie. Notizie chiare, evidenti, che disegnavano una incredibile disinvoltura nello spendere i fondi milionari assegnati dal governo alla giustizia milanese: ma in tutti questi anni si è fatto finta di niente.

Ieri, all'improvviso, la Guardia di finanza bussa alle porte del Comune di Milano, «stazione appaltante», ovvero regista e pagatore di quelle spese. Le fiamme gialle sono mandate da Raffaele Cantone, capo dell'Anac, l'autorità anticorruzione, sul cui tavolo era arrivato l'esposto firmato da due esponenti di punta della magistratura, il procuratore generale Roberto Alfonso e l'allora presidente della Corte d'Appello, Marta Malacarne. Sono loro alla fine dell'estate scorsa a mettere nero su bianco i sospetti venuti alla luce, dopo gli articoli di stampa, in una tempestosa riunione a Palazzo di giustizia dell'ottobre 2014, in cui venne messo sotto processo l'intero sistema di spesa dei fondi, e si decise di cambiare registro. Ma ormai il danno era fatto.

Si tratta di fondi per 16 milioni, provenienti in parte dal governo e in parte dal Comune di Milano: è Giuliano Pisapia, il 20 luglio 2011, appena insediato sindaco, a rimpolpare la dotazione. Da allora i soldi vengono spesi soprattutto in due direzioni: il nuovo sistema informatico, software e hardware destinati a diventare il cuore elettronico della giustizia milanese, e il sistema di segnalazione interna al tribunale, centinaia di grandi monitor perennemente accesi sul nulla. La fetta più grossa è la prima, e finisce quasi per intero in tasca a Finmeccanica, senza gara d'appalto, sulla base della «continuità» con appalti precedenti: è questo trucco della «continuità» il grimaldello che viene costantemente utilizzato, fino alla resa dei conti dell'ottobre 2014, per aggirare le norme sugli appalti. Un altro trucco è la interposizione di un soggetto privato, la Camera di Commercio, che non è costretto a seguire le regole dell'appalto pubblico e smista a suo piacimento gli appalti.

Chi è a gestire gli appalti? Expo non c'entra, nonostante i finanziamenti siano stati stanziati in suo nome. A dirigere tutto quanto è il Comune di Milano, che ha una sua struttura dedicata esclusivamente alle spese per gli uffici giudiziari. La struttura fa parte dell'assessorato ai Lavori pubblici, retto all'epoca dalla piddina Carmela Rozza, oggi assessore alla Sicurezza, ma rientrano in un capitolo di spesa, «beni e servizi», alle dirette dipendenze del sindaco.

A venire miracolata dagli appalti del Comune di Milano è anche un'altra società dell'orbita di Finmeccanica, la bolognese Net Service, cui i lavori vengono affidati con un'altra scusa: ha già l'incarico dal ministero della Giustizia per il «processo civile telematico», un'altra innovazione tecnologica anti scartoffie. Peccato che poi si scopra che Net Service ha approfittato di quell'appalto per impadronirsi anche del mercato «a valle», cioè i software per gli studi legali: per questo finisce nel mirino di un'altra Authority, l'Antitrust. L'inchiesta si conclude pochi giorni fa, il 27 gennaio: l'azienda bolognese viene costretta a dividersi in due tronconi e a mettere a disposizione dei concorrenti le sue conoscenze.

Il capitolo più surreale è però quello degli schermi senza senso: il costo dell'intero «sistema di segnalazione» passa da 732mila euro a un milione 559mila poi a 2.884.763 euro, e ancora non funzionano. Insomma: una vistosa serie di disinvolture all'interno dell'istituzione, la giustizia milanese, che pretende il rispetto della legge: ma solo dagli altri.

Infermiera morì per intervento Tre anni a testa per i tre medici

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È stato un regalo di compleanno dall'esito tragico: Rosa Lavorgna, una infermiera 46enne lodigiana, aveva ricevuto in dono dal marito l'operazione che desiderava da tempo, la blefaroplastica che avrebbe riportato le sue palpebre al posto giusto. Una operazione dettata non solo da vanità estetiche ma anche da esigenze funzionali, specie in considerazione della delicata professione svolta dalla donna.

Invece, da quell'intervento - una operazione di routine, che doveva iniziare e finire nel giro di un'ora o poco più - Rosa non si è più ripresa. Colpa, dice la sentenza emessa ieri dal giudice preliminare Alessandra Clemente, dell'anestesista e dei due chirurghi che quella mattina del 12 maggio 2015 nel centro medico «Montenapoleone» dovevano eseguire l'intervento. Ma qualcosa andò storto: secondo l'inchiesta, il dosaggio dell'anestetico, il propofol, era troppo alto. Quando si resero conto che le funzioni vitali della paziente stavano rallentando, i medici la fecero trasferire d'urgenza al Fatebenefratelli. Rosa Lavorgna morì sei giorni dopo senza riprendere conoscenza.

I due chirurghi si sono difesi attribuendo al solo collega anestesista la responsabilità dei dosaggi; quest'ultimo si è difeso sostenendo che, visto il tempo trascorso tra l'operazione e la morte, non si può stabilire quanto anestetico fu davvero utilizzato: ma ad accusarlo c'erano sei boli di propofol trovati nel cestino della camera operatoria. In attesa del processo, l'anestesista e uno dei chirurghi avevano trovato un accordo con la parte civile e versato un risarcimento.

Il giudice ha dichiarato tutti e tre gli imputati colpevoli di omicidio colposo e ha condannato a due anni e otto mesi di carcere i chirurghi; più pesante la pena inflitta all'anestesista, tre anni e sette mesi, perché al professionista è stata mossa anche l'accusa di peculato: il propofol infatti è un farmaco riservato all'uso ospedaliero, e per procurarselo l'anestesista non poteva fare altro che sottrarlo all'ospedale pubblico dove abitualmente lavora.

Anche il centro medico «Montenapoleone» era finito sotto inchiesta ma nei suo confronti il pm aveva chiesto l'archiviazione delle accuse. Intanto Davide Luigi Ferrari, l'avvocato dei familiari di Rosa Lavorgna, si prepara alla causa in sede civile per ottenere il risarcimento dei danni subìti dai congiunti in conseguenza di quello che doveva essere «un intervento facile».


Alleanze e giri d'affari Nelle curve di serie A la mafia è senza colori

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Strani legami tra capi ultrà di Milan e Juve schierati contro i club per gestire i biglietti

«I colori non cancellano l'amicizia - Loris libero». Il lungo striscione bianco apparve nel cuore della Curva Sud di San Siro la sera del 22 ottobre del 2006, poco prima che iniziasse Milan-Palermo. Sono passati più di dieci anni, ma nulla è cambiato. Perché di quello striscione si ritorna a parlare ora, nelle carte dell'indagine che scuote il mondo del calcio, l'inchiesta sui rapporti tra la Juventus e una tifoseria ultrà legata a doppio filo al crimine organizzato. Lo striscione «Loris libero» racconta che il problema non si ferma allo Juventus Stadium, che un filo lega ormai tifoserie di opposte sponde, e che si tratta di un filo criminale: obiettivo, da Nord a Sud, prendere possesso delle curve, del business del bagarinaggio, taglieggiare le società. Nel milieu criminale, i colori delle bandiere contano poco.

Di striscioni in difesa di arrestati e diffidati, le curve ne espongono in continuazione. Ma il lenzuolo che i milanisti appendono a San Siro quella sera di ottobre ha una particolarità: non è dedicato a un milanista. «Loris» è Loris Grancini, capo dei Viking, uno dei club più potenti della curva della Juventus. Altra particolarità: pochi giorni prima della partita Grancini è finito in galera non per un reato «da curva», ma per un regolamento di conti da Far West in una piazza milanese, quando fa sparare a un piccolo balordo che gli aveva mancato di rispetto. A eseguire l'ordine di Grancini, un ragazzotto che di cognome fa Romeo, e che - si legge nella sentenza di condanna - è «figlio di un affiliato alla 'ndrangheta».

E allora, viene da chiedersi, perché il 22 ottobre 2006 la curva rossonera prende le difese di un rivale finito in galera per un delitto da gangster? La risposta si trova in un rapporto che la Squadra Mobile di Milano invia in Procura nove giorni prima: «Nel corso degli ulteriori sviluppi investigativi, emergeva il probabile coinvolgimento nel delitto di un ulteriore personaggio identificato per Lombardi Giancarlo, potente leader del gruppo ultrà milanista Guerrieri Ultras e legato da uno stretto vincolo di amicizia con Grancini Loris nonostante la diversa fede calcistica». E chi è Lombardi? Risposta: «Sandokan», il capo incontrastato insieme al «Barone» Giancarlo Cappelli della curva rossonera. «La locale Digos - aggiunge la Mobile - comunicava di avere visto in più di una circostanza Grancini utilizzare una Ferrari e Lombardi è proprietario proprio di una Ferrari 360 Modena».

Il rapporto riappare ora nelle carte che il questore ha inviato alla sezione «misure di prevenzione» del tribunale di Milano, chiedendo che Grancini sia sottoposto alla sorveglianza speciale. A carico del capo dei Viking, ci sono i rapporti con i mafiosi calabresi del clan Pesce, arrestati nell'inchiesta sulla Juve: è a Grancini che uno dei capiclan, Giuseppe Sgrò, si rivolge il 7 aprile 2013 per chiedere il permesso di far entrare allo Stadium un nuovo club ultrà, i Gobbi. Malavitoso e capo ultrà si danno del «fratello». E Grancini accetta: «Se sono juventini problemi non ne abbiamo».

Ma le carte dell'inchiesta raccontano che essere juventini conta fino a un certo punto: anzi, Grancini è tra quelli che trasformano in una rissa furibonda tra club bianconeri l'incontro con la dirigenza della società, il 14 settembre 2006. Il legame vero, quello che apre le porte al grande business delle curve, è il legame malavitoso. E la grande amicizia tra Grancini e Lombardi, tra il capo ultrà juventino e il boss della curva rossonera, è il rapporto tra due che nel mondo del crimine hanno solidi agganci. Grancini, il bianconero, ha precedenti di ogni genere, dalla droga al gioco d'azzardo, l'ultima denuncia l'ha presa per avere picchiato la sua donna; «Sandokan» sta scontando la pena che gli è stata inflitta per i ricatti al Milan, e anche le carte di quell'indagine sono istruttive, perché raccontano di cupi legami di Lombardi con i protagonisti di storie e di droga e di sangue. Mani sporche, insomma, sulle curve: una conquista annunciata già nel 2009, quando i capi di Viking e Guerrieri si incontrarono a Milano, e c'erano anche i capi dei Boys dell'Inter, per pianificare lo sbarco.

È a questo nuovo tipo di tifoso-malavitoso che si riferiva Paolo Maldini quando disse: «Sono contento di non essere uno di voi».

Rugby, radiato Bruno Andres Doglioli: aggredì l'arbitro durante una gara

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La commissione disciplinare aveva inflitto tre anni di sospensione al giocatore, ma la Procura federale ha fatto appello, e questa mattina su Doglioli arriva la meritata stangata: radiazione a vita, non giocherà mai più a rugby

Non giocherà mai più a rugby Bruno Andres Doglioli, il giocatore argentino del Vicenza protagonista di uno degli episodi più incresciosi che si siano mai visti su un campo da rugby: quando l’11 dicembre scorso, durante la patita di serie A contro il Valsugana, colpì alla schiena con cieca violenza l’arbitro. Un gesto che sarebbe già stato grave verso un avversario, gravissimo verso il direttore di gara: e reso disgustoso dal fatto che l’arbitro in questione era una giovane donna, Maria Beatrice Benvenuti. La commissione disciplinare aveva inflitto tre anni di sospensione al giocatore, ma la Procura federale ha fatto appello, e questa mattina su Doglioli arriva la meritata stangata: radiazione a vita, non giocherà mai più a rugby.

Il provvedimento riporta il racconto quasi angosciante dell’arbitro Benvenuti: "Il suo atteggiamento per tutta la gara è stato irriguardoso, aggressivo ed indisciplinato andando a peggiorare con il passare del tempo anche in considerazione del fatto che il risultato sul campo stava assumendo dimensioni pesanti per la sua squadra. Così nel secondo tempo in seguito alla segnatura della seconda meta da parte del Valsugana sotto i propri pali il capitano del Vicenza nr.15 (Doglioli, ndr) incitava i suoi giocatori urlando “è inutile che ci lamentiamo tanto questa ci fischia tutto contro a questo punto arrangiamoci noi, facciamoci giustizia”.

L’atmosfera si faceva calda ed arrivavano due successivi cartellini gialli per falli di antigioco da parte della squadra del sopra citato. Per questo decidevo di richiamare nuovamente all’ordine il capitano del Vicenza invitandolo a calmarsi e a cambiare atteggiamento nei miei confronti ed anche della sua squadra altrimenti l’avrei espulso. Lo sollecitavo infatti a mantenere un atteggiamento consono al ruolo di capitano che aveva in campo, ma lo stesso avvicinandosi fisicamente a me continuava con i suoi toni alterati (…) Dopo pochi minuti in occasione di una rimessa laterale ho avuto l’impressione che costui mi stesse caricando da lontano ma che giunto a pochi metri da me abbia desistito perché avevo incrociato il suo sguardo; solo pochi secondi dopo si formava un ruck dove necessariamente mi sono dovuta posizione a pochi metri dalla mischia, dando dunque le spalle alla difesa (…) a quel punto sono stata colpita alle spalle ed ho sentito un colpo fortissimo sulla schiena. Sono caduta a terra sbattendo la testa sopra un giocatore che ho immediatamente riconosciuto essere il capitano del Vicenza. Costui si rialzava alla mia destra come se nulla fosse successo, senza scusarsi o assicurarsi del mio stato e si allontanava velocemente. L’impatto mi trovava completamente indifesa e mi causava un forte colpo di frusta al collo, nel cadere a terra colpivo il suolo con la fronte, la spalla destra, le gambe ed il bacino con sopra tutto il peso del corpo del giocatore che evidentemente mi aveva travolto a forte velocità e a spalla chiusa".

Nella sentenza emessa oggi, l’impresa dell’estremo vicentino viene definita "volontaria, premeditata, efferata, vigliacca e proditoria, attuata in totale spregio allo spirito del gioco del rugby, senza contare che ha anche dato una pubblicità negativa a questo sport in Italia e portato in modo negativo alla ribalta internazionale il movimento rugbistico italiano". Per questo, a Doglioli – trattato con incomprensibile indulgenza dai primi giudici – viene inflitta la pena più alta prevista dal codice sportivo. Radiazione. D’altronde, se non si radia uno così, chi mai meriterebbe di essere radiato?

Riscosso solo l'8% dell'evaso. Ma la Sicilia paga 886 legali

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La società carrozzone nata per recuperare le cartelle spende e non incassa: "Incontriamo presìdi mafiosi"

«Eh, Fiumefreddo... Farebbe bene a guardare in casa sua, a spiegare come lavorano i suoi dipendenti. Cartelle senza capo né coda, notificate fuori termine, piene di nullità»: così, da Catania, un grande tributarista racconta la vita quotidiana di quel mondo a parte che è il fisco siciliano, branca grotteschissima di quella cosa grottesca che è l'autonomia della regione pirandelliana. Antonio Fiumefreddo è il grand commis messo a capo di Riscossione Sicilia, il carrozzone che dovrebbe occuparsi di incassare le tasse non pagate: e che, come lui stesso ha raccontato mercoledì in Parlamento, non riscuote quasi nulla, recuperando nel 2015 appena l'otto per cento dei tributi non pagati, nonostante sia forte di una legione di 886 avvocati. In Sicilia pagare le tasse è un optional affidato al senso civico dei contribuenti.

Come questo sia possibile è un mistero che si perde nelle mille mani in cui il business è passato, da Cosa Nostra fino al Monte dei Paschi, senza che mai cambiasse nulla. Di certo, Riscossione Sicilia, sembra fatto apposta per proseguire nella tradizione di tolleranza verso evasori grandi e piccoli. Non a caso prima di Fiumefreddo il governatore Crocetta voleva mettere a capo del carrozzone Antonio Ingroia, che di cartelle esattoriali non si era mai occupato in vita sua. E persino il sito web di Riscossione Sicilia è tutta una rivendicazione di inefficienza, tra link che non portano da nessuna parte e recapiti di uffici aperti due giorni alla settimana.

Cinquantacinque miliardi di tasse perdute in dieci anni: sarebbero bastati per costruire sette volte il ponte sullo Stretto di Messina. Qualche concausa si potrà anche cercare nella crisi dell'economia locale. Ma è difficile non collocare i dati forniti da Fiumefreddo nella atavica vocazione siciliana a non pagare le tasse: il 41 per cento dei siciliani non presenta neanche la dichiarazione dei redditi, e chi la presenta tendenzialmente bara, l'analisi dei consumi dice che i contribuenti siciliani spendono 145 euro ogni 100 che ne dichiarano al fisco. Questo rende inevitabile che la Sicilia sia la Regione che più di ogni altra vive a spese del resto del Paese: il suo residuo fiscale, cioè la differenza tra tasse versate dai cittadini e fondi statali incassati era nel 2012 di 16 miliardi di euro, tutti soldi provenienti dal nord.

L'intero sistema tributario siciliano sembra fatto apposta per perdercisi dentro. Come tutte le regioni autonome, la Sicilia trattiene direttamente tutte le tasse, comprese Irpef e Iva; sulla regolarità delle dichiarazioni dei redditi vigila però Roma, attraverso gli uffici sull'isola della Agenzia delle Entrate, che il loro lavoro lo fanno bene. Ma le cartelle poi vengono affidate per essere incassate a Riscossione Sicilia: unica regione autonoma a non affidarsi a Equitalia, neanche il Trentino (che ha una struttura di efficienza mostruosa come Trentino Riscossioni, 85 per cento di multe stradali incassate) recupera in proprio le cartelle erariali. Pervenute a Riscossione Sicilia le cartelle si perdono nell'iperspazio. Sulle cause del disastro Fiumefreddo è esplicito, «incontriamo presidi mafiosi in cui non si entra né si notifica», ma poi si scopre che a non pagare le cartelle sono tutti, brava gente e colletti bianchi compresi, e persino il governatore Crocetta: come se non pagare le tasse facesse ormai parte della cultura locale come il pani ca meusa.

Il guaio è che il sistema va bene a tutti quanti, compresi gli enti locali, a partire dai Comuni che con i crediti per tasse che non incasseranno mai abbelliscono i bilanci: «E se togliessero quei crediti - dice il nostro avvocato - i loro bilanci sarebbero ancora più falsi di quanto già sono».

Saronno, riesumato l'unico corpo non cremato

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È il suocero dell'infermiera, che avrebbe ucciso con l'amante-medico il marito e altri pazienti

Quello forse si dimenticarono di cremarlo. L'infermiera Lucia Taroni e il medico Leonardo Cazzaniga, la coppia di amanti che avevano trasformato l'ospedale di Saronno in un'anticamera dell'obitorio mandando al Creatore una lunga serie di pazienti, sono accusati di avere ucciso tra gli altri Massimo Guerra, marito della Taroni, e Maria Rita Clerici, madre evidentemente non troppo amata della medesima, e di avere fatto subito cremare le due salme per evitare indagini future. Ma un altro morto per cui la coppia è sotto tiro non è finito nel forno inceneritore: e ora verrà disseppellito per capire se a causarne la dipartita siano stata cause naturali, o se anche questo decesso vada davvero messo nel conto della incredibile serie di «dolci morti» dispensate dalla coppia Taroni-Cazzaniga.

I resti che la Procura di Busto Arsizio ha ordinato di riportare alla luce sono quelli di Luciano Guerra, suocero della Taroni: ovvero il padre di Massimo Guerra, il marito che l'infermiera avrebbe - secondo le indagini - fatto fuori bombardandolo di farmaci inutili. Anche Guerra senior era citato nella denuncia anonima che due dipendenti dell'ospedale avevano inviato invano ai carabinieri (e che una infermiera metterà poi nero su bianco nell'esposto che dà il via all'indagine) per denunciare l'inverosimile serie di decessi che avevano colpito, nel giro di breve tempo, i familiari della donna: «Morti - si leggeva - che hanno colto in sequenza tanto ravvicinata quanto improvvisa i parenti più stretti di quella che in Ospedale è nota per essere colei che intrattiene una relazione extraconiugale con il dott. Cazzaniga», ovvero la Taroni. E in effetti la sequenza fa una certa impressione: il primo a morire, il 30 giugno 2013, è Massimo Guerra, il marito (peraltro violento, e sessualmente piuttosto brutale) dell'infermiera; il 23 agosto successivo muore, cadendo in una vasca di liquami, lo zio di Massimo, Nazzareno Guerra; il 20 ottobre muore Luciano Guerra, padre di Massimo; il 4 gennaio successivo tocca a Maria Rita, la madre dell'infermiera. Tutte morti che lì per lì non destano sospetti, neanche nel caso di Massimo Guerra, di appena 47 anni.

Il movente di questa serie di presunti omicidi non è chiaro: se la Taroni aveva in teoria qualche buon motivo per volersi liberare del marito, («guarda che essere violentati dal proprio marito è una cosa terribile», confidò a un'amica), non è chiaro perché avrebbe dovuto ammazzare la propria madre, a meno che non fosse davvero convinta di quanto trasluce nelle carte dell'inchiesta, e cioè che andasse a letto con suo marito. E ancora più incomprensibile è perché avrebbero dovuto venire uccisi anche padre e zio di Massimo Guerra, se non per un odio che rimbalzando sul marito avesse investito la sua intera famiglia. Ma del resto neanche per gli altri delitti, i pazienti vecchi e sconosciuti fatti fuori in ospedale, si intuisce un movente se non quello messo a verbale da un collega di Cazzaniga: «Delirio di onnipotenza».

Un Paperone di via Sarpi nel mirino dei giudici. Sequestrati case e negozi

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Gira in Porsche e sui suoi conti sono passati milioni. Ha «saltato» alcune dichiarazioni...

È uno dei veterani di Chinatown, uno degli esponenti di punta della generazione sbarcata in via Paolo Sarpi negli anni Novanta ed ancora saldamente in sella. Gira col Porsche Cayenne, sui suoi conti correnti sono passati milioni di euro, possiede appartamenti e negozi comprati in contanti. Ed ecco le sue dichiarazioni dei redditi: per tre anni, tra il 2005 e il 2006, denuncia tra i sette e gli undicimila euro, poi smette addirittura di fare la dichiarazione, ricomincia nel 2011 (ben 1.250 euro!), smette di nuovo, nel 2014 si risveglia e dichiara una impennata di 43mila euro. Poi più niente.

Si chiama Zeng Jinkao, in via Paolo Sarpi lo conoscono in tanti. E per la Direzione investigativa antimafia l'abisso che scorre tra le sue dichiarazioni dei redditi e il suo tenore di vita si spiega solo con le attività illecite che scorrono parallele alla rispettabile facciata di commerciante di bigiotteria. L'atto di accusa della Dia è approdato alla sezione misure di prevenzione del tribunale, presieduta da Fabio Roia, che nei giorni scorsi ha fatto scattare il sequestro di appartamenti, negozi, conti correnti, fondi di investimento. «Si può inquadrare Zheng Jinkao tra le persone abitualmente dedite ad attività delittuose che vivono - almeno in parte - con i proventi delle stesse», scrive il tribunale.

Ma dove scorre, il business sotterraneo di Zheng? La cronologia delle denunce spiccate contro di lui racconta di una arrampicata lenta e costante, durata oltre vent'anni, verso livelli sempre più impegnativi e remunerativi: dalla prima denuncetta nel lontano 1995, per avere venduto videocassette senza marchio Siae nel suo negozio di via Rosmini, fino a traffici sempre più consistenti di merce contraffatta e all'approdo finale nel mercato più ristretto del business di Chinatown, quello dei money transfer, le agenzie che si occupano di fare arrivare in Cina i quattrini della comunità. Nel corso di questa ascesa, un episodio tanto curioso quanto inquietante: nell'agosto 2005 Zheng viene controllato dalla Finanza a Malpensa mentre sta per imbarcarsi per Shangai, nel portafoglio gli trovano due banconote false, una da 50 e l'altra da 200. Spiegazione: «Ero a conoscenza della falsità delle banconote ma volevo tenerle per confrontarle con quelle buone». Gli credono e lo assolvono, e la sua carriera continua: quattro anni dopo lo condannano per avere importato un container con centomila prodotti falsi, dentro c'è di tutto, da Hello Kitty a Dolce e Gabbana.

Commercio di bigiotteria e traffico di merce «farlocca» sono, per il tribunale, solo la parte meno allarmante del business di Zheng: «L'attività sociale - scrivono i giudici - pare rappresentare un settore del tutto marginale dell'attività del proposto, la cui pericolosità sociale pare fondata fin al 2009 sul trasferimento di denaro dall'Italia alla Repubblica Popolare Cinese tramite l'agente money transfer Bcs di Milano». È attraverso la agenzia di via Paolo Sarpi della Bcs che Zheng trasferisce in Cina un tesoretto di 262mila euro, ed è quella operazione ad allertare definitivamente la Finanza.

D'altronde i meccanismi in cui i capitali della comunità cinese vengono trasferiti all'estero sono da tempo nel mirino degli investigatori: nel novembre scorso la Procura arrestò due persone accusate di avere esportato due miliardi e settecento milioni provenienti dalla comunità. E un regolamento di conti legato all'affare del money transfer si sospetta sia dietro l'omicidio di Zue Chengxina, freddato il 31 novembre nel suo ufficio a Chinatown. Accanto al corpo, una macchinetta contasoldi.

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