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Ultrà, Agnelli andrà all'Antimafia Ma per la Digos il club sapeva tutto

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Andrea Agnelli

"Rapporti stretti tra un presunto 'ndranghetista, Conte e i dirigenti"

C'è la «totale e piena disponibilità» di Andrea Agnelli a presentarsi alla commissione parlamentare antimafia, fa sapere il legale della Juventus Luigi Chiappero, che ribadisce comunque che ìl club bianconero non è mai sceso a patti con esponenti malavitosi della curva. Ma dalle carte dell'inchiesta emergono dettagli crudi, che rendono difficile credere che i vertici della società non sapessero cosa accadeva in curva e che caratura criminale avessero i personaggi con cui interloquivano. A partire dai rapporti stretti tra l'allenatore di allora, Antonio Conte, e un presunto 'ndranghetista.

Una informativa della Digos torinese del settembre scorso riassume bene quanto accade a partire dal 2005 quando «Mocciola Gerardo (detto Dino) dopo avere scontato la pena in carcere per l'omicidio di un carabiniere riuscì grazie all'appoggio della locale criminalità organizzata a riportare in auge il gruppo dei Drughi». La sera del 25 marzo 2009 Mocciola viene sprangato da alcuni appartenenti al club rivale dei Bravi Ragazzi: «Da quel momento Mocciola per colpire i Bravi Ragazzi decise di affidarsi a Barresi Placido (pregiudicato, condannato per essere stato killer della 'ndrangheta legato alla famiglia Belfiore-Saffiotti), a quel tempo detenuto ma in contatto con il leader dei Bravi Ragazzi, Puntorno Andrea, quest'ultimo molto vicino alla criminalità organizzata siciliana». Scrive la Digos: «Alla base di questi tentativi di conciliazione vi sarebbe stata la volontà da parte di esponenti della criminalità organizzata, in particolare della 'ndrangheta torinese e milanese, di evitare l'insorgere di una guerra tra bande che avrebbe avuto l'unico effetto di intralciare le redditizie attività illecite che gravitano intorno agli incontri di calcio, in generale, e al nuovo stadio in particolare».

L'intervento del killer Barresi porta a una tregua tra le diverse fazioni ultras: ed è qui che spunta la figura come pacificatore di Rocco Dominello, rampollo di una famiglia 'ndranghetista, individuato nel luglio 2012 a Saint Vincent durante il ritiro estivo della Juve.

«Dominello si muoveva con disinvoltura e dialogava sia con gli appartenenti a tutti i gruppi ultras sia con i giocatori ed alcuni esponenti della società Juventus (...) a completamento del profilo di Dominello si è potuto riscontrare un significativo rapporto di amicizia con Fabio Germani e con Antonio Conte (l'allenatore)». La Digos spiega che Fabio Germani non è solo un leader storico dei Drughi ma anche un «personaggio molto conosciuto a causa delle sue amicizie con Luciano Moggi all'epoca in cui quest'ultimo era amministratore delegato della società bianconera». Queste conoscenze hanno permesso al picciotto Dominello «di essere presente in ciascuna occasione/evento strettamente riservato», tra cui le «feste private della Juventus come quella organizzata al Banus di corso Moncalieri a seguito della vittoria del campionato».

Ancora ieri, la Juve nega di avere mai foraggiato questi club. Ma secondo la Digos ai Viking sarebbero stati regalati dopo una «trattativa segreta» 150 abbonamenti innescando «per le stagioni successive un meccanismo perverso con gli altri gruppi ultras».


I poliziotti sul caso Cozzi: «Il pm insabbiò l'indagine»

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Gli agenti che hanno indagato sul primo omicidio accusano: la seconda vittima poteva essere evitata

Luca Fazzo

Non ci venne permesso di indagare, dicono i poliziotti. Sul megaschermo nell'aula della Corte d'assise scorrono le immagini gelide di un uomo a torso nudo, steso sulla moquette bianca macchiata di sangue; e del coltellaccio che penetrò nel cuore e nei polmoni dell'uomo. Sul banco degli imputati Alessandro Cozzi, un tempo volto noto della tv, specialista delle tecniche di selezione del personale: che quell'uomo è accusato di avere ammazzato. Era il settembre del 1998, il morto era il socio in affari di Cozzi, Alfredo Cappelletti. La vicenda fu archiviata come suicidio. Eppure, dicono ieri in aula i poliziotti, era palese che un suicidio non era.

Il capitolo si è riaperto nel 2011, quando Cozzi è stato arrestato per avere ucciso un altro socio in affari, Ettore Vitiello: e le «assordanti analogie» tra i due delitti hanno costretto la Procura a tornare a indagare anche sulla morte di Cappelletti, su quel suicidio cui la famiglia non aveva mai creduto. Ieri in aula si scopre che i familiari non erano i soli a considerare inverosimile che l'uomo si fosse ammazzato. Anche i poliziotti che per primi arrivarono in via Malpighi, nella sede della Innova Skills, colsero al volo che troppi dettagli non stavano in piedi. Ma la richiesta di indagare sul serio, mettendo sotto controllo i telefoni di Cozzi e di tutti gli altri protagonisti, si insabbiò in Procura. L'inchiesta finì prima ancora di iniziare. La conclusione è inevitabile: se davvero fu Cozzi a uccidere Cappelletti, se fosse stato arrestato allora, non solo si sarebbe fatta giustizia ma si sarebbe salvata anche una vita umana: Ettore Vitiello, il socio ucciso da Cozzi nel 2011, sarebbe ancora tra noi.

Il primo a sedersi sulla sedia dei testimoni è l'ispettore Antonino Nucera, uno dei veterani della Squadra omicidi di Milano. «Abbiamo ricostruito la personalità di Cappelletti, e non era quella di chi si suicida», racconta l'ispettore, «gli affari andavano bene, aveva appena programmato un viaggio». E poi, chi è che prima di uccidersi va a dal barbiere e fa il pieno all'automobile? Mentre, racconta Nucera, «capimmo subito che Cozzi non diceva la verità. Per noi non era un suicidio», dice l'ispettore. La Squadra mobile chiese di intercettare tutti i telefoni, «per noi era essenziale», ma l'autorizzazione non arrivò mai. Il pm dell'epoca non trasmise neppure la richiesta al giudice, rivela in aula il nuovo pm, Maurizio Ascione.

Subito dopo, ancora più esplicito, il poliziotto Luigi Cattaneo, che all'epoca lavorava alla Scientifica, e fece i rilievi sul corpo e nei locali. «La macchia di sangue più importante, prodotta da una repentina uscita di sangue, era a destra del corpo: e questo non era logico, perché la ferita era sul lato sinistro. La cosa era palesemente dubbia». Unica spiegazione: il corpo era stato spostato. «Vede - continua Cattaneo -, i suicidi a Milano sono così tanti che di solito non stampiamo nemmeno le foto, conserviamo i negativi. Io in questo caso le foto le volli stampare. E chiamai il medico legale perché la cosa non era assolutamente chiara». Perché, allora, la versione ufficiale imboccò senza tentennamenti la strada del suicidio? Lo fa capire bene Elisabetta Cappelletti, la figlia del morto, che arrivò nell'ufficio accompagnata da Cozzi per cercare il padre che non rispondeva. «Cozzi si affacciò prima di me alla stanza del papà. Guardò dentro e disse subito: l'ha fatto, l'ha fatto. E mi fermò per non farmi vedere».

Il Senato assolve Minzolini. Si riapre il caso Berlusconi

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Respinta la decadenza dell'ex direttore del Tg1. Uno schiaffo alla legge Severino che può riabilitare il Cav

Favorevoli 137, contrari 94, astenuti 20: con una maggioranza schiacciante il Senato ieri mattina salva Augusto Minzolini, che doveva lasciare Palazzo Madama in base alla legge Severino; e contemporaneamente apre un brusco e profondo varco nel muro che tiene lontano dal Parlamento Silvio Berlusconi, che in base alla stessa legge venne dichiarato decaduto dal seggio di senatore nel novembre 2013. Sul tavolo della Corte europea dei diritti dell'uomo, chiamata a breve a decidere sul ricorso del Cavaliere, l'ordine del giorno approvato ieri dal Senato piomberà nelle prossime ore, e potrebbe cambiare l'esito della sentenza.

Le analogie tra i due casi sono cospicue. Minzolini, come Berlusconi, è stato condannato con sentenza definitiva a più di due anni di carcere, il tetto oltre il quale la «Severino» prevede la estromissione dalle cariche: nel 2015 la Cassazione lo ha condannato a due anni e mezzo per peculato, al termine del processo per i rimborsi spese incassati quando era direttore del Tg1. Come nel caso di Berlusconi, i fatti contestati a Minzolini erano precedenti all'entrata in vigore della legge Severino. E come nel caso Berlusconi, la Giunta parlamentare per le immunità aveva votato per la sua decadenza immediata.

Ieri, invece, in aula cambia tutto: Forza Italia presenta un ordine del giorno che respinge la decisione della Giunta, sul voto a favore converge un folto gruppo di senatori del Pd che aveva lasciato libertà di coscienza. Il seggio di Minzolini è salvo. E anche se il giornalista lo lascerà spontaneamente («mi dimetterò in ogni caso», aveva detto prima del voto, e subito dopo conferma: «manderò la lettera di dimissioni») l'impatto politico della decisione dell'aula di Palazzo Madama è quello di un terremoto. «Oggi è stata abolita la legge Severino», tuona il senatore azzurro Lucio Barani. E gli occhi si puntano inevitabilmente sulle conseguenze che la decisione bipartisan avrà sul caso Berlusconi a Strasburgo.

Il leader di Forza Italia è stato tra i primi a telefonare a Minzolini per congratularsi, «è una bellissima notizia, è un inversione di tendenza, è un giorno nuovo» e poi ha aggiunto ai suoi interlocutori: «Il tempo è galantuomo, il garantismo prima o poi prevarrà anche per me». Negli stessi minuti, i suoi legali - con in testa Niccolò Ghedini - si preparano a portare il voto di Palazzo Madama al centro di una memoria aggiuntiva da recapitare sul tavolo dei magistrati di Strasburgo che hanno (ormai da cinque anni) sul tavolo il ricorso dell'ex premier contro la decisione che, tre mesi dopo che la Cassazione aveva reso definitiva la sua condanna per frode fiscale, lo depose dallo scranno e lo dichiarò ineleggibile fino al 2019.

Le conseguenze del caso Minzolini sul caso Berlusconi sono, dicono i legali, «dirette e immediate». Il ragionamento che lo staff difensivo del Cavaliere sottoporrà ai giudici della Corte europea è semplice. Finora, il governo italiano ha sostenuto che il voto parlamentare di decadenza è un atto puramente formale, una presa d'atto automatica e senza poteri discrezionali. Il voto di ieri mattina del Senato dimostra esattamente il contrario, e cioè che si tratta di un voto giurisdizionale e politico: praticamente una nuova sentenza, contro la quale - e qui sta il problema - accusa e difesa non sono ad armi pari. La magistratura potrebbe ricorrere alla Corte Costituzionale contro la decisione pro-Minzolini; invece Berlusconi non può ricorrere alla Consulta contro il voto che lo ha estromesso.

E questa disparità, secondo tutte le sentenze di Strasburgo, viola i trattati europei. E questa svolta arriva in extremis: per il prossimo 21 marzo la Corte europea aspetta le ultime deduzioni del governo italiano, poi tutto è pronto per la sentenza che potrebbe riportare il Cavaliere in Parlamento.

"Non urla e non piange": violentatore assolto Torino diventa porto delle nebbie sugli stupri

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Terzo caso in poche settimane sotto la Mole: vittime non credute o reati prescritti

Torino, di nuovo Torino: nelle cronache giudiziarie dei processi per stupo le sentenze che arrivano dal capoluogo piemontese hanno avuto spesso negli ultimi mesi la prima pagina dei giornali; e ogni volta si è trattato di vicende in grado di suscitare dubbi sull'operato dei magistrati chiamati a processare i responsabili di crimini odiosi. Al punto da rendere inevitabile chiedersi se esista un «caso Torino», una sorta di buco nero nella macchina della giustizia che all'ombra della Mole offre ai violentatori la scappatoia verso l'impunità.

L'ultimo caso viene alla luce ieri, quando un articolo del Corriere rende note le motivazioni con cui il tribunale torinese ha assolto un infermiere accusato dello stupro di una collega, e hanno proposto alla Procura di incriminare per calunnia la presunta vittima. A rendere inattendibile la versione della donna sarebbe il fatto che durante l'aggressione non avrebbe cercato di difendersi e nemmeno gridato. «Non grida, non urla, non piange e pare abbia continuato il turno dopo gli abusi», scrivono i giudici. Non lamenta dolori, non fa neanche un test di gravidanza, e anche questo convince la corte che menta. Eppure altre sentenze di altri tribunali si guardano bene dal pretendere dalle vittime comportamenti logici e lineari durante e dopo l'aggressione.

L'assoluzione dell'infermiere arriva a poche settimane di distanza da altre due notizie torinesi sullo stesso tema: e che sollevano entrambe l'aspetto dei tempi biblici che a Torino permettono a due violentatori di farla franca. Il 21 febbraio si era scoperto che uno stupratore di bambini era tornato libero, dopo essere stato condannato in primo grado a dodici anni di carcere, per il semplice motivo che in dieci anni la Corte d'appello torinese non era riuscita a fissare l'esame del suo ricorso, provocando così la prescrizione del reato. Una manciata di giorni dopo, il 3 marzo, storiaccia simile: un patrigno che stuprava la figlia della sua compagna se la cava in Cassazione con tre anni e mezzo di condanna perché gli altri capi d'accusa sono prescritti grazie alla Corte d'appello torinese ha impiegato otto anni a fare il suo lavoro.Intanto lo stupratore se n'è tornato a casa sua, in Perù, donde difficilmente verrà mai estradato; e a rendere tutto più tragico c'è il fatto che la vittima non conoscerà mai l'esito del processo perché si è ammazzata lanciandosi dalla finestra.

Sui giudici che hanno lasciato prescrivere il primo caso il ministro della Giustizia ha disposto una inchiesta interna, ma il timore è che il problema sia più vasto, ovvero una sottovalutazione della gravità di questi crimini e della necessità di reprimerli severamente e rapidamente. Il Giornale ha parlato di numerosi casi di processi per stupro persi per anni nelle nebbie torinesi. E anche altre fonti confermano che - almeno fino a tempi recenti - a Torino nessuno si era mai preso la briga di garantire una corsia preferenziale ai processi per stupro, che finivano a bagnomaria nel minestrone dei furti e delle bancarotte, delle truffe e dei piccoli spacci di droga: perché indicare delle priorità vuol dire anche prendersi responsabilità e correre dei rischi.

Ora l'aria sta cambiando: «Sono reati su cui indagare è delicato e complesso - dice il procuratore torinese Armando Spataro - ma i pm che qui se ne occupano lavorano tanto e bene. E col nuovo presidente del tribunale abbiamo stilato un programma che prende di petto queste esigenze».

L'ortopedico dell'orrore: spaccava ossa per "allenarsi"

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Ai domiciliari Norberto Confalonieri, primario ortopedico. L'intercettazione: "Le ho rotto il femore per fare pratica"

Milano - Senso di onnipotenza, cinismo, amore per i quattrini: è difficile indicare quale movente prevalga nella storia di Norberto Confalonieri, il primario milanese che ieri finisce agli arresti domiciliari per corruzione. A centinaia di pazienti sono state impiantate protesi dai prezzi stellari, pagate dall'erario o dai pazienti stessi, che Confalonieri considerava «le migliori»: peccato che poi dalle aziende che le producevano incassasse consulenze e viaggi. Meccanismo purtroppo non inedito, quello dei rapporti sottobanco tra medici e multinazionali. Ma che le intercettazioni della Guardia di finanza sul «caso Confalonieri» portano alla luce con inedita crudezza.

Confalonieri - brianzolo, 65 anni, primario di ortopedia al Gaetano Pini - è (per dirla con una intercettazione) un tipo «vulcanico»: un pioniere della chirurgia non invasiva del ginocchio, guidata da robot e computer. Uomo da convegni, da pubblicazioni, da trasmissioni tv. Ma è anche, secondo i suoi colleghi che hanno dato il via all'inchiesta, un ultrà del bisturi: «Per lui il paziente deve essere sempre operato». Qualcuno dalle sue operazioni spericolate è uscito a piedi in avanti (come la ragazza disabile morta per insufficienza respiratoria acuta dopo un'operazione fortemente voluta dal primario) qualcun altro è rimasto rovinato: come il paziente U.D., che in una telefonata intercettata lo chiama piangendo, e chiedendo invano un aiuto. Per due episodi, al professore viene già contestata la accusa di lesioni. Ora la Finanza andrà a scavare su decine di cartelle cliniche, alla ricerca di altre vittime della sua frenesia operatoria.

Dalla Johnson & Johnson e dalla B.Braun, le aziende di cui imponeva i prodotti in sala operatoria, Confalonieri è accusato di avere incassato consulenze per 25mila euro, cifra non astronomica, e peraltro dichiarata al fisco; cui vanno aggiunte le sponsorizzazioni imposte per le sue presenze televisive in Rai, e per i suoi convegni, per i suoi viaggi in mezzo mondo con famiglia al seguito (e, in un caso, con una signora che non è la moglie: così pretende di viaggiare e dormire separato dagli altri convegnisti). Malcostumi non inediti, purtroppo. E che proprio per questo la difesa di Confalonieri potrebbe avere buon gioco a riportare nel campo del lecito se non dell'etico.

A fare effetto, nelle intercettazioni, è l'altra parte degli affari di Confalonieri, il suo doppio ruolo di primario pubblico e professionista privato, che grazie all'extramoenia presso la clinica San Camillo gli porta in tasca in quattro anni oltre 300mila euro, di cui meno di 200mila dichiarati al fisco. I suoi pazienti privati, il prof li recluta grazie alle trasmissioni tv pagate dalla Jonhson & Johnson, ma anche con metodi spietati, che lui stesso spiega a un collega: «La produzione tienila bassa se no ti bruci tutto e intanto cresce la lista d'attesa, sennò non fai mai i privati.. invece di metterne tre o quattro, allunga la lista d'attesa che ne fai di più in San Camillo, no?».

A una giovane paziente della clinica privata, Confalonieri crea danni irreparabili, e al telefono con la moglie fa autocritica («è un periodo di merda»). Eppure per fare pratica aveva fatto lo stesso intervento su un'anziana ricoverata nell'ospedale pubblico, e su questa sfoggia invece tutto il suo cinismo: «Eh l'ho rotto..oggi ho fatto una vecchietta per allenarmi.. gli ho fatto la via d'accesso bikini per allenarmi su quella lì che devo fare privatamente».

Il carcerato e Francesco. "Ci aiuti ad abbattere la prigione del male"

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Franco Uggetti oggi è detenuto a San Vittore e incontrerà il Papa: "Ci porterà speranza"

«Io fuori credevo. Poi mi hanno arrestato. E quando entri qua dentro attraversi diverse fasi. Io avevo perso la voglia di pregare, era come se accusassi Dio di essersi allontanato da me. Poi ho capito che ero io ad essermi allontanato da Lui».

Parlatoio del carcere di San Vittore, le undici di qualche giorno fa. Franco Uggetti è uno dei detenuti che domani incontreranno il Papa, nella prima visita di un Pontefice nel vecchio carcere di piazza Filangieri. Uggetti sarà al primo piano, nel grande corridoio del primo raggio che Bergoglio attraverserà tra due ali di prigionieri: e spera di essere anche tra i novanta detenuti che subito dopo pranzeranno con Francesco al terzo raggio. «Ho chiesto di partecipare, ma lo hanno chiesto anche tanti altri. Qui ormai gli italiani sono il trenta per cento, e credevo che saremmo stati solo noi a fare domanda. Invece anche quelli di altri paesi e religioni vogliono stare col Papa. Molti sono musulmani, per il cattolicesimo in genere non hanno molta simpatia. Ma questo Papa è diverso, e non credo che sia soltanto un fattore di carisma umano: penso che c'entri anche il modo in cui sta rimodernando la Chiesa, andando contro certe istituzioni e mettendosi dalla parte di coloro che soffrono. Lui è davvero il Papa degli ultimi. E qui dentro, qualunque sia la religione che professiamo, siamo gli ultimi degli ultimi».

Novecento detenuti, ognuno con la sua storia alle spalle («Io ho commesso molti errori, e uno di questi è stato difendermi male», dice Uggetti) e con un presente fatto di routine assoluta, spazi stretti e poche speranze: questo è il mondo che il Papa si troverà davanti domattina, quando gli si apriranno una dopo l'altra le cinque porte che separano il cuore del carcere dalla libertà, dal mondo dei «normali». «L'altro giorno è successa una cosa strana: un vecchio detenuto, uno duro, per la prima volta l'ho visto dialogare con gli assistenti volontari. Parlavano della visita del Papa. Gli ho chiesto: come mai? E lui: eh, sai, questo Papa è diverso». Cosa gli chiederete, cosa vi aspettate da lui? «Per noi è importante che Francesco mandi all'esterno un messaggio che possa abbattere i muri del pregiudizio nei nostri confronti, il marchio che ci accompagna nella società anche quando abbiamo finito di pagare il nostro conto. Ma è importante che ci aiuti anche ad abbattere i nostri muri interiori, che ci tengono prigionieri quanto le mura e le sbarre: i muri dell'odio e del rancore. L'unica strada per distruggere questi muri è la speranza, e di speranza qui ne circola poca, perché sappiamo cosa ci attende fuori. Io ho la fortuna di sapere che a novembre, quando uscirò, troverò ad aspettarmi una famiglia che mi ha perdonato. Ma chi non ha una fortuna simile sa che fuori c'è il nulla. Per questo l'ottantacinque per cento ritorna dentro».

Per Uggetti domani sarà il secondo incontro ravvicinato con il Papa argentino. «Mi hanno strappato l'anima, la volontà, la fede - mi hanno rubato Dio», dice una poesia che aveva scritto nei tempi cupi seguiti all'arresto. Poi, passo dopo passo, insieme al cappellano don Marco, si è riavvicinato alla Chiesa. E il 6 novembre dell'anno scorso era a San Pietro, al Giubileo dei Carcerati: è uscito in permesso premio, insieme al cappellano e ad altri due detenuti, è arrivato alla Messa in Vaticano ed è riuscito a consegnare al Papa la pergamena firmata dagli ospiti del centro clinico di San Vittore; ne ottenne in cambio un sorriso che non ha dimenticato. «Certo, adesso il mio sogno è poter arrivare a scambiare con lui almeno una parola. Ma l'importante sarà esserci».

Devastare le città non è reato Assolto un altro antagonista

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Alla vigilia delle proteste di Roma cade l'accusa principale contro il leader No Expo per i danni del 1° maggio a Milano

A lla lettura della sentenza gli imputati si abbracciano in aula, increduli. E allo stesso modo potrebbero festeggiare i loro compagni di fede che oggi si preparano a calare su Roma per urlare la loro rabbia contro le celebrazioni dei Trattati di Roma, perché la sentenza pronunciata ieri dalla Corte d'appello di Milano sancisce l'inerzia dello Stato davanti alle violenze di piazza: violenze annunciate e micidiali come quelle che il Primo Maggio 2015 rovinarono l'inaugurazione di Expo, e come quelle che - secondo l'allarme del Viminale - frange antagoniste apparecchiano per la giornata di oggi nella Capitale.

A quasi due anni di distanza dal giorno di fuoco inflitto a Milano dai no Expo, con le forze dell'ordine attaccate a freddo e una lista interminabile di auto, negozi, banche e vetrine incendiate e distrutte, la Corte d'appello milanese annulla l'unica condanna per devastazione inflitta in primo grado. Già era quasi grottesco che delle centinaia di incappucciati del Primo Maggio ne fosse stato condannato solo uno. Ora anche quell'uno - Andrea Casieri, 38 anni, militante di un centro sociale milanese - viene salvato dai giudici d'appello: la devastazione sparisce, i tre anni e otto mesi inflitti in primo grado si riducono a due anni e quattro mesi per resistenza e travisamento, la prospettiva di finire davvero in carcere a scontare la pena svanisce nel nulla. Casieri raggiunge gli altri tre imputati nella certezza dell'impunità. Tripudio in aula.

Nel dispositivo letto dal giudice Guido Piffer, Casieri viene assolto «per non avere commesso il fatto». Significa che la devastazione vi fu (e sarebbe difficile negarlo, di fronte a immagini che fecero il giro del mondo) ma che il giovanotto non ne risponde. Come e più dei giudici di primo grado, la Corte d'appello spezzetta l'analisi dei fatti, si ferma al singolo gesto del singolo incappucciato: una scelta che nel suo ricorso contro le assoluzioni dei compagni di Casieri il pm Piero Basilone aveva definito «illogica» e «inaccettabile», perché in una guerriglia pianificata come fu il Primo Maggio «l'agire di ciascun imputato nel medesimo contesto criminoso ha generato i gravi fatti di devastazione: e ogni facinoroso aveva la chiara percezione del contributo materiale e morale dato con la propria condotta al complessivo ampio scenario di devastazione».

Ad Andrea Casieri, peraltro, la sentenza di primo grado attribuiva ruoli diretti e addirittura di comando tra i black bloc protagonisti delle violenze: «Le foto consentono di apprezzare come Casieri sia stabilmente posizionato nel gruppo di appartenenti al blocco nero, anche armati di bastone (...) l'azione di Casieri si segnala come quello di coordinamento/direzione di persone partecipanti agli attacchi»: è lui, scrisse il giudice, che fa segno di avanzare, lui a «presidiare l'avanzamento di un contingente in attacco», lui a «dirigere il formarsi di un altro contingente armato di bastoni e dotato di caschi».

Bisognerà attendere le motivazioni per capire come, di fronte a simili comportamenti, la Corte abbia deciso di graziare l'unico condannato. Resta il fatto che il bilancio giudiziario della peggiore giornata vissuta da Milano è un nulla di fatto. In diretta, durante gli scontri, le forze dell'ordine scelsero (su ordine del governo) di non intervenire, anche quando sarebbe stato agevole farlo, lasciando di fatto mano libera ai violenti. «Li identificheremo, li processeremo e li puniremo», venne garantito all'epoca. Sono stati identificati e processati: ma nessuno è stato punito. A rispondere di devastazione restano solo cinque anarchici greci: che se ne stanno tranquilli a casa loro, dopo che Atene ha rifiutato la loro estradizione.

Ortopedico degli orrori, il faro dei pm sulle ditte

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Lunedì l'interrogatorio di Confaloneri, che si difende: «Intercettazioni lette fuori dal contesto»

Verrà interrogato dopodomani il professor Norberto Confalonieri, il primario di ortopedia al Cto di Milano arrestato venerdì dalla Guardia di finanza. Ma dagli arresti domiciliari il medico fa già conoscere la sua linea difensiva: «Sono innocente, gli stralci delle intercettazioni riportate dai media sono parziali e fuorvianti», in quanto le sue frasi sarebbero state «lette al di fuori dal contesto».

Ma quali possibilità di successo ha una simile linea di difesa? La posizione del primario è indubbiamente delicata, forse più dal punto di vista dell'immagine che delle accuse specifiche. A pesare sulla sua figura sono soprattutto le intercettazioni, come quella in cui si vanta di avere rotto «una vecchietta» per «allenarsi» in vista di una operazione che avrebbe compiuto il giorno dopo con la stessa tecnica: ma sono frasi che la difesa punta a ridurre al rango di battute, per quanto ciniche, non supportate da analisi concrete sull'andamento dell'operazione sotto accusa. E qualche perplessità sulla effettiva spietatezza del medico l'ha dimostrata anche il giudice preliminare Teresa De Pascale, che ha rifiutato di spedirlo in carcere come chiedevano i pm, e ha ritenuto addirittura insussistenti gli indizi di colpevolezza per il reato di lesioni aggravate: che può venire dimostrato solo dalla analisi delle 62 cartelle cliniche, che saranno sequestrate ed esaminate solo la settimana prossima.

Il vero nodo del processo si annuncia per ora il rapporto di Confalonieri con le case farmaceutiche di cui avrebbe utilizzato i prodotti, violando le norme regionali e ospedaliere sugli appalti, in cambio di una serie di vantaggi personali tra cui consulenze e viaggi. È ben vero che in una intercettazione (riporta monca nell'ordine di custodia) Confalonieri spiega di usare le protesi Johnson & Johnson «perché sono le migliori». Ma i rapporti privilegiati tra il primario e le ditte sono documentali, e così pure il foraggiamento da parte di Johnson & Johnson di «Medicina 33», il programma Rai che celebrava Confalonieri come una star dell'ortopedia computerizzata. Era anche grazie a queste comparsate che il primario si arricchiva aumentando il numero dei clienti che operava privatamente alla clinica San Camillo: e l'intercettazione più esplicita è quella in cui racconta di ritardare gli interventi al Cto per allungare le liste d'attesa e costringere così i pazienti e rivolgersi a lui privatamente. Anche di quella dirà che è «letta fuori dal contesto»?


E testimonia in tribunale al processo contro Emilio Fede

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Il Cav: «I soldi prestati a Lele Mora? Fu un atto di generosità»

Milano - Giuseppe Spinelli, leggendario cassiere di fiducia di Silvio Berlusconi, è il primo che ieri va a sedersi sulla sedia dei testimoni. È il processo dove l'ex direttore del Tg4 Emilio Fede risponde di concorso in bancarotta per essersi intascato una buona parte dei soldi che dovevano servire a salvare la società personale di Lele Mora, agente di divi e dive: che invece finì gambe all'aria. Quei soldi - tre versamenti, per un totale di due milioni e 800 mila euro - venivano da Berlusconi, impietosito dalle vicissitudini di Mora. Chiedono i cronisti a Spinelli, che dei soldi fu il materiale erogatore: come reagì Berlusconi, quando scoprì che alla fine quasi metà dei soldi se li era presi Fede? «Il dottor Berlusconi è assolutamente incapace di serbare rancore». E lei come la prese? «Diciamo che rimasi un po' deluso».

Mezz'ora di pausa, e sulla stessa sedia va a sedersi Berlusconi. Aula assiepata di cameramen e cronisti: ma il Cavaliere, per la prima volta in vita sua, mette il veto ad essere ripreso dalle telecamere, e chissà se è perché ha l'aria un po' stanca (e infatti in aula, insieme ai suoi avvocati Niccolò Ghedini e Federico Cecconi, c'è il suo medico Alberto Zangrillo che non lo perde d'occhio), o perché comunque la vicenda di cui si parla è per lui dolorosa, essendoci di mezzo, in ruoli non belli due uomini che sono stati suoi amici per trent'anni. E che adesso, come Berlusconi spiega ai giudici, non sente più: a Lele Mora non risponde al telefono «perché me l'hanno consigliato i miei legali», e «Fede ha chiuso il suo rapporto con il gruppo».

Di quei soldi Berlusconi dà una spiegazione speculare a quella di Spinelli: «Sapevo che Mora aveva delle difficoltà, lui e Fede mi dissero che con quel prestito si sarebbero risolte. Invece Mora fallì ugualmente, e io presi atto di non avere nessuna possibilità di recuperare il prestito». Che una fetta importante fosse andata a Fede anziché a Mora il Cavaliere sembra averlo saputo vagamente, «io feci un atto di generosità, poi non me ne sono più occupato». «In azienda si diceva che Lele Mora aveva restituito a Fede un prestito».

Il prestito in effetti c'era stato: ma poco prima a testimoniare era venuto proprio Mora, spiegando che il direttore del Tg4 gli aveva dato qualche tempo prima un assegno da 50mila per coprire un buco. E ne recuperò ben di più: «Della prima tranche versatami da Spinelli, ne diedi a Fede 450mila, tutti in fogli da 500 euro. Della seconda, due assegni, uno da 350mila e uno da 150mila». Perché mai avesse dovuto girare all'amico tutti quei soldi, Mora non lo spiega bene. Una cosa è chiara: se anche i soldi fossero rimasti tutti a Mora, non avrebbero evitato il fallimento. Perché nemmeno un euro finì ai creditori dell'agente, che invece scialacquò tutto: «Li usavo per mantenere il tenore di vita, mi comprai una Mercedes di pelle bianca. Ero al limite della follia».

In città 180 milioni di soldi «sporchi»

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Segnalazioni anti riciclaggio del Comune: allarme su capitali di mafia e terrorismo

Luca Fazzo

Mani sporche sulla città. Anni di voci, di inchieste a mezz'altezza, di bar bruciati, di vetrine sfavillanti, di bruschi passaggi di proprietà, di ribassi inverosimili, prendono corpo in una serie di numeri che l'assessore Roberto Tasca squaderna ieri a Palazzo Marino. Numeri che raccontano come i tre principali recinti del business milanese - il commercio, il mattone, gli appalti pubblici - si siano affollati in questi anni di capitali oscuri. Quando si va a scavare, spesso si arriva in un paradiso fiscale. Ma in tempi più recenti, un nuovo inquietante nemico prende corpo dietro alcuni di questi capitali, ed è quello del terrorismo islamico.

Centottanta milioni di euro: a tanto ammonta il tesoro di provenienza oscura finito nel mirino del Comune. Sono i dati delle segnalazioni che il Comune è obbligato a trasmettere all'Uif, l'Unità di informazione finanziaria della Banca d'Italia in base alle normative antiriciclaggio. Chi meglio di un ente locale ha gli strumenti per cogliere i segnali d'allarme? Di operazioni sospette denunciate in questi anni da Palazzo Marino all'Uif ce ne sono state veramente tante. E per ogni operazione finita nel mirino, l'esperienza dice che molte altre passano senza farsi notare.

Complessivamente, le segnalazioni trasmesse dal Comune all'Uif riguardano 1.954 operazioni economiche, che chiamano in ballo 119 persone giuridiche (ovvero società) e 102 persone fisiche. Sono operazioni di ogni genere, ma accomunate da una costante: avere generato quasi sempre non utili ma perdite, nell'ordine circa del 20 per cento del capitale.

Una piccola parte delle società «segnalate» dal Comune ha sede all'estero in paradisi fiscali; mentre l'analisi delle 102 persone fisiche oggetto di indagine dice che sono 85 italiani e 17 stranieri; degli italiani, quarantuno (poco meno della metà) sono originari di zone del Paese «ad alto rischio di infiltrazione mafiosa», cioè Sicilia, Calabria, Campania e Puglia. È un dato che conferma il sospetto che tra i capitali sporchi che penetrano nell'economia milanese quelli di provenienza del crimine organizzato continuino ad avere un peso importante, nonostante inchieste e retate che si sono succedute in questi anni.

Subito dopo, Tasca indica il dato che riporta all'allarme terrorismo, e in particolare all'utilizzo di Milano non solo come piazza di reclutamento ma anche per il riciclaggio dei fondi delle organizzazioni estremiste: su diciassette stranieri colpiti dalla segnalazione, ben quattordici provengono da cinque paesi «considerati ad alto rischio in relazione al finanziamento del terrorismo di matrice islamica». Dall'Uif, le segnalazioni vengono poi inoltrate - a seconda dei casi - alla Guardia di finanza o alla Dia, la Direzione antimafia.

Ma in base a quali criteri scattano le segnalazioni da parte degli impiegati del Comune? I fattori di allarme, in realtà, sono piuttosto superficiali: per le operazioni commerciali o immobiliari ci si attiva - per esempio - se a presentare le pratiche è un noto prestanome, o se lo stesso ristorante passa di mano o viene affittato troppo frequentemente, o se rimane aperto pur scarseggiando di clienti; per le aziende interessate agli appalti, se un titolare ha precedenti penali, presenta una fidejussione estera, l'utilizzo di indirizzi di comodo, eccetera. Il riciclaggio più raffinato a queste maglie sa sfuggire.

Memeo junior come il padre. Il giudice: devastare le città è solo un'azione squadrista

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Altro che antagonisti o no Tav: sono "squadristi". Un giudice del tribunale di Milano l'ha scritto in una sentenza

Milano - Altro che antagonisti o no Tav: sono «squadristi». Testuale. In tempi di dilagante buonismo giudiziario verso gli incappucciati che trasformano i cortei in sarabande di violenze e distruzioni (da ultima, l'assoluzione in appello a Milano dell'unico condannato per devastazione per i fatti del Primo Maggio) arriva una sentenza fuori dal coro: che cerca di riportare nei binari del diritto (e del buon senso) il trattamento giudiziario dei violenti, ricordando l'impatto che le loro imprese hanno sulla vita civile del Paese. E, en passant, offre un interessante dettaglio sulla continuità generazionale, di padre in figlio, tra le violenze degli anni Settanta e le loro repliche al giorno d'oggi.

La sentenza depositata nei giorni scorsi dal giudice Guido Salvini, presidente della Prima sezione del tribunale milanese, riguarda un episodio di tre anni fa: l'attacco con spranghe ed esplosivi alla sezione del Partito democratico di via Archimede. A mettere il Pd nel mirino degli attentatori, l'appoggio alle opere dell'Alta velocità ferroviaria in Val Susa, uno dei cavalli di battaglia preferiti del movimento antagonista. Nella notte tra il 20 e il 21 novembre 2013, da una Opel Agila scendono in due, mentre un terzo resta alla guida, cercano di sfondare la porta di ingresso, non ci riescono, allora collocano un grosso petardo sulla finestra accanto e lo fanno esplodere distruggendola: ma è la finestra della casa accanto, dietro cui dorme un ignaro cittadino che si trova i vetri fino in camera. Un passante prende la targa dell'Agila: è intestata alla mamma di un giovane militante dello Zam, uno dei centri sociali più arrabbiati dell'area milanese. Il cellulare intestato al padre del ragazzo è attivo a quell'ora, alle 2,20, proprio in quella zona. Da quel numero, pochi minuti prima, partono una serie di telefonate verso un altro numero intestato a un nome che riporta dritto nel cuore degli anni di piombo: Giuseppe Memeo detto «Terun», militante delll'Autonomia Operaia e poi dei Proletari Armati per il Comunismo. È lui l'uomo che appare nella foto-simbolo di quegli anni, mentre a gambe larghe in via De Amicis spara sulla polizia: un giovane agente, Antonino Custra, rimane ucciso. Oggi Memeo ha un figlio, anche lui militante dell'Autonomia, che spesso usa quel telefono: e, secondo la sentenza, era nel gruppetto che tre anni fa dà l'attacco alla sede del Pd in via Archimede.

Memeo junior non può venire giudicato perché la Procura non lo ha neanche incriminato; per il suo compagno, incastrato dalla targa dell'auto e dai telefoni, la Procura aveva comunque chiesto l'assoluzione. In aula, il giovanotto aveva ammesso che l'auto apparteneva alla madre e che ogni tanto la usava pure lui, ma ha aggiunto che spesso la prestava anche agli amici, e quella notte proprio non poteva dire chi la guidasse: «Io di sicuro in via Archimede non c'ero ma proprio non so ricordarmi dove passai quella notte». Dei petardi, della maschera antigas, dei manuali di guerriglia urbana che gli sono stati sequestrati in casa, ha spiegato che si trattava solo di materiale da studio e da collezione.

Il giudice Salvini non gli crede e lo condanna a sei mesi con la condizionale. E quel che conta sono le motivazioni: «All'interno degli atti di violenza politicamente motivati si tratta di un episodio minore, ma il suo significato non deve comunque essere sottovalutato. Si tratta di un'azione che aveva come finalità quella di spaventare e intimidire i frequentatori di un circolo di un partito colpevole di avere in merito a un determinato una posizione diversa da quella del movimento no Tav. Quello che è avvenuto la notte del 21 novembre 2013 semplicemente un attacco, il cui il valore simbolico è ben più significativo del danno materiale, portato alla libertà altrui di esprimere liberamente opinioni politiche diverse da quelle degli aggressori: una azione definibile come squadrista».

Strani intrecci e avventurieri A rischio la gara in Galleria

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Al bando per la riassegnazione di due ristoranti storici partecipano dieci società. Ma molte non sono in regola

Un assalto alla diligenza. Doveva essere, nelle intenzioni dell'Autorità anti corruzione e del Comune, un modo di aprire al mercato e di alzare l'asticella del prestigio dei marchi in campo. Invece la gara per l'assegnazione di importanti spazi nella Galleria Vittorio Emanuele II rischia di diventare la scorribanda di avventurieri e prestigiatori della partita Iva.

O peggio, di saltare. Se è vero, come risulta delle verifiche del Giornale, che la maggior parte delle società concorrenti non ha le carte in regola. Delle dieci imprese in corsa, almeno sei vìolano la regola numero uno del bando. In palio ci sono gli spazi storicamente occupati dal ristorante Salotto di Milano («lotto 1») e quelli della Locanda del Gatto Rosso («lotto 2»). I locali si trovano uno nel braccio lungo della Galleria, nella metà che termina in piazza della Scala. L'altro nel braccio corto, verso via Ugo Foscolo. Palazzo Marino ha stabilito che una società non può partecipare, direttamente o indirettamente, per entrambi i lotti. Ma se si scava tra legami societari e nomi ricorrenti sono appunto gli intrecci il peccato originale che potrebbe decimare il gruppo dei pretendenti.

Roberto Bernardelli, veterano dell'ospitalità milanese e proprietario di due hotel di lusso, concorre per il lotto 2 con la Carola srl, di cui è consigliere sua moglie Vesna Zarkov. La Signora Bernardelli presenta domanda anche per il lotto 1 attraverso la Micedo srl, di cui prima di lei era amministratore il marito e di cui lo stesso detiene il 51 per cento (attraverso Carola srl). Ma ecco altri incroci. A contendere il lotto 1 sono, tra gli altri, la Molino 6-678 sas e una Ati (una cordata temporanea) formata dalle società Money srl ed Edamame srl. Ognuna ha legami con società che concorrono al lotto 2. Amministratore della Molino 6-678 è Ivan Colombo, ex amministratore della Prima C snc, che partecipa per il lotto 2. La Prima C è un'impresa interessante. Risulta di proprietà dei cittadini albanesi Enri Palla e Gentian Koko e ha un capitale sociale di appena 2mila euro. I due sono amministratori da meno di un anno e fin qui la loro società ha gestito un bar nel mezzanino della metropolitana di Duomo (che era anche sede legale). Palla infine è socio nella Nausicaa degli Abbate, una famiglia di origine napoletana da anni attiva in edicole e bar sempre delle stazioni della metro. Più intricato è il legame tra Money ed Edamame da una parte e la Ati che aspira al lotto 2, composta da Pinterrè srl e Safe srl. Dai due lati si replica l'inedita alleanza tra napoletani e giapponesi. Patron della Edamame è il nipponico Shintaro Akatsu, che però è contemporaneamente il titolare della Safe (che per esteso infatti si chiama Shintaro Akatsu Food & Entertainment srl). Non solo. Della compagna di cordata Pinterrè è stato amministratore Carlo Pane, imprenditore sardo trapiantato a Napoli che oggi guida la Money.

Se poi si allarga il cono di luce, si scopre che Money e Pinterrè fanno parte di un'orbita partenopea già fortemente rappresentata in Galleria. A cominciare dalla pizzeria Regina negli ex spazi della Banca Ponti, gestita dal 2014 sempre grazie a un appalto comunale dalla Vanilla, controllata a sua volta dalla Pinterrè e amministrata dallo stesso Pane. L'amministratore di Pinterrè è invece Gianluca Lupo amministratore anche della Lievito Madre, che in largo Corsia de' Servi gestisce la pizzeria Sorbillo. Accanto, il ristorante Izakaya Sampei, del solito Akatsu. Una costola di Sorbillo poi, che fa la pizza fritta in via Agnello, è controllata dalla Arpacaio srl, amministrata da Sergio Maiorino che guida pure la Vanilla. E non è tutto: la Arpacaio è controllata al 50% da Ciao Pizza srl, di cui ex presidente è il napoletano Massimo Sanità, oggi socio con il 46 per cento (attraverso Media P) nonché amministratore della F&C group che gestisce la catena Fresco e Cimmino. Ma perché tanti intrecci? Di certo la Vanilla non può partecipare al nuovo bando, in quanto morosa con il Comune per 35mila euro. Con la «schermo» Pinterrè però torna in gioco. L'arbitro non ha nulla in contrario?

Soci occulti e strani affari. Il Salotto di Milano fa gola agli avventurieri

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Bandi aperti per la Galleria Vittorio Emanuele. Incroci oscuri tra Italia, Albania e Giappone

Milano - È il cuore della città, il suo simbolo, la calamita dove una volta i milanesi del popolo portavano in gita i figli («te porti in Galeria a vedè i sciur che mangen el sorbett»), e dove oggi sciamano muri compatti di turisti. Nei suoi centocinquant'anni di storia, la Galleria Vittorio Emanuele II è molto cambiata ma è rimasta in fondo sempre uguale, vetrina e anima della metropoli. Qualcosa però adesso si muove, dopo che il Comune - su sollecitazione dell'autorità Anticorruzione - ha deciso di aprire i bandi di concorso per i locali affacciati al suo interno: due da subito, un altro grappolo nel prossimo futuro. A puntare alla Galleria non sono i marchi storici del made in Italy né le griffe internazionali ma un nuovo tipo di imprenditori. Una piccola galassia dove si incrociano italiani, albanesi, giapponesi, legati da un viluppo di partecipazioni incrociate non sempre facili da sbrogliare: e che a loro volta portano ad altri capitali già sbarcati tra queste eleganti pareti.

INTRECCI FUORILEGGE

Solo nelle prossime settimane il Comune aprirà le buste con le offerte economiche per conquistare i due locali messi all'asta: uno affacciato sul braccio principale, quello che va da piazza Scala a piazza Duomo, indicato nella gara come «lotto 1»; l'altro sul braccio laterale verso via Ugo Foscolo, il «lotto 2». Tuttavia la faticosa analisi delle liste dei concorrenti (cinque per ogni lotto) permette fin d'ora di dire che non tutto fila come dovrebbe. Se non altro perché sembra violato un criterio di base della gara, che proibisce allo stesso soggetto di concorrere per entrambi i locali, sia direttamente sia attraverso incroci societari. Una parte significativa delle offerte infrange di fatto questa regola. Ma, questioni procedurali a parte, a colpire è anche lo sbarco in questo affare di imprenditori finora impegnati in operazioni assai più esili, e che puntano adesso a un salto di qualità tanto prestigioso quanto impegnativo.

QUESTIONI DI CUORE

A dire il vero, a presentare di fatto due domande per i due lotti è anche un veterano della ospitalità milanese (nonché ex politico), Roberto Bernardelli, padrone di due alberghi di lusso. Concorre per il lotto 2 con la Carola srl, di cui è consigliere sua moglie Vesna Zarkov. La quale presenta domanda anche per il lotto 1 attraverso la Micedo srl, di cui prima di lei era amministratore il marito e di cui lo stesso detiene il 51 per cento (attraverso Carola srl).

Se l'incrocio Bernardelli-Zarkov è quasi alla luce del sole, più complesso è scavare nei rapporti che legano altri pretendenti. A contendersi il lotto 1 sono, tra gli altri, la Molino 6-678 e una Ati (una cordata temporanea) formata dalle società Money ed Edamame. Ognuna ha legami con società che concorrono al lotto 2. Amministratore della Molino 6-678 è Ivan Colombo, ex amministratore della Prima C, che partecipa per il lotto 2.

Questa Prima C è una impresa interessante. Risulta di proprietà dei cittadini albanesi Enri Palla e Gentian Koko, e ha un capitale sociale di appena 2mila euro. I due sono amministratori da meno di un anno e fin qui la loro società ha gestito un bar nel mezzanino della metropolitana di Duomo (che era anche sede legale). Palla infine è socio nella Nausicaa degli Abbate, una famiglia di origine napoletana da anni attiva in edicole e bar sempre delle stazioni della metro.

SCATOLE... GIAPPONESI

Più vasto l'intreccio tra Money ed Edamame con un'altra Ati che concorre per il lotto 2: si tratta in pratica dello stesso asse, una alleanza tra napoletani e giapponesi. Dietro la Edamame c'è il nipponico Shintaro Akatsu, che è contemporaneamente il titolare della Safe, la società pretendente del lotto 2 insieme a una napoletana di nome Pinterrè. Di quest'ultima era amministratore Carlo Pane, un sardo trapiantato a Napoli, oggi a capo della Money.

Money e Pinterrè appartengono alla stessa orbita partenopea, già robustamente presente con marchi importanti nel centro cittadino e persino nel cuore della Galleria: sotto l'insegna «Regina», dove una volta c'era una parte della Banca Cesare Ponti, una grande e rutilante pizzeria è gestita dal 2014 grazie a un appalto comunale dalla Vanilla, controllata dalla Pinterrè e amministrata dallo stesso Pane. E da qui il giro si allarga.

L'amministratore della Pinterrè si chiama infatti Gianluca Lupo ed è amministratore anche della Lievito Madre, società che in largo Corsia de' Servi gestisce Sorbillo, nome leggendario della pizza napoletana sbarcato recentemente a Milano. Vicino di casa di Sorbillo è il ristorante giapponese Izakaya Sampei, posseduto dal solito Shintaro Akatsu. Mentre una costola di Sorbillo, che fa la pizza fritta in via Agnello, è controllata dalla Arpacaio srl, amministrata a sua volta da Sergio Maiorino che guida anche la Vanilla (quella nella ex Banca Ponti). E non è tutto: la Arpacaio è controllata al 50 per cento dalla Ciao Pizza srl. L'ex presidente della Ciao Pizza è il napoletano Massimo Sanità, oggi socio con il 46 per cento (attraverso Media P) nonché amministratore della F&C group che gestisce la catena Fresco e Cimmino, presente accanto alla Galleria con un grande locale in via Foscolo e nel centro di Milano con diverse postazioni di prestigio.

Una cordata, come si vede, assai alacre e complessa da scandagliare. Tanto da chiedersi quale sia la necessità di un viluppo simile di sigle e di amministratori. Una risposta però è possibile: la Vanilla non avrebbe mai potuto partecipare direttamente al bando di gara per il semplice motivo che è già robustamente morosa nei confronti del Comune, avendo maturato un arretrato per affitti non pagati dei locali della ex Banca Ponti per oltre 35mila euro. Invece così, grazie allo «schermo» Pinterrè, la partecipazione alla gara è possibile. Gli spazi dorati della Galleria fanno gola. E Palazzo Marino non ha nulla da dire?

Il taglia e cuci dei giudici che sta rovinando il chirurgo Confalonieri

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Il legale del medico alla gogna come spaccaossa denuncia: «Le intercettazioni vanno lette tutte»

Milano - Taglia qua, cuci là: tecnica ben più antica delle intercettazioni, ma che nell'utilizzo giudiziario della loquacità degli indagati ha raggiunto in passato vette eccelse. «Non bisogna fermarsi alle tre righe evidenziate dalla Procura in neretto, ma bisognerebbe leggere tutta la conversazione», dice adesso l'avvocato Valentina Anomali, difensore del primario milanese Norberto Achille, quello sbattuto in prima pagina perché «per allenarsi spaccava le gambe alle vecchiette».

In effetti leggendo per intero le frasi pronunciate da Confalonieri il senso appare diverso - e in alcuni casi addirittura opposto - da quello che viene attribuito riportando singoli spezzoni. La brutalità di alcune battute resta, e l'ortopedico nel suo memoriale se ne scusa. Ma il rilievo penale delle frasi esce a volte decisamente ridimensionato.

Il passaggio dove l'opera di selezione è quasi plateale è a pagina 86 dell'ordinanza di custodia. Il primario parla con una amica che gli chiede delle protesi americane non previste dagli accordi regionali e da lui ampiamente utilizzate, per le quali è accusato di corruzione: «Ma tu, onestamente perché continuavi a mettere queste Johnson & Johnson? Tu prendi qualche royalty da questi?». Nell'ordinanza, Confalonieri risponde: «Sono consulente, sì, sono consulente io». Ma la risposta integrale è: «Perché sono le migliori e perchè ho fatto il software con loro, usavo il mio software (... ) son consulente , si, sono consulente io, beh, ma metto anche le altre, sono consulente globale». Cambia tutto. «Erano in sala operatoria e le utilizzavo. Io richiesta specifica di Johnson & Johnson non ne ho mai fatte»: ma anche questa frase finisce in corpo minuscolo, nei brogliacci della Finanza.

E via di questo passo. Una frase di Confalonieri per il giudice conferma «in maniera cristallina» la sua colpevolezza: peccato che dai brogliacci si scopra che subito dopo il medico si mette a ridere, ma il giudice non lo scrive. Per i viaggi che avrebbe scroccato alla società B.Braun in cambio dei trattamenti di favore ai suoi prodotti, spiega che in realtà la società non tirava fuori un euro: anche questo sparisce dalle carte.

La lettura integrale dell'intercettazione che ha fatto il giro del web, frettolosamente spacciata per «ho spaccato una gamba per allenarmi» racconta chiaramente che in realtà «per allenarsi» all'utilizzo di una tecnica, l'accesso «Bikini» il medico aveva operato pochi giorni prima una anziana, e che la rottura del femore era stata un incidente. Nella parte di intercettazione che compare solo nei brogliacci Confaloneri rivendica la correttezza della tecnica: «È questo che si fa». E le intercettazioni successive all'altro intervento analogo che finisce anch'esso con la rottura del femore, lette integralmente mostrano un medico assai meno cinico di quanto il provvedimento giudiziario racconta.

Sull'architrave dell'inchiesta, l'utilizzo per arricchirsi delle protesi Johnson & Johnson, in una intercettazione il primario è netto: «Finché nessuno mi dice niente io continuo ad usarla se è il prodotto che ritengo più idoneo alla mia attività», ma anche questa frase rimane confinata ai brogliacci. «Datemi sei righe scritte dal più onesto degli uomini, e vi troverò una qualche cosa sufficiente a farlo impiccare», diceva Richelieu. A volte bastano sei parole.

I concorrenti sbucano dal nulla Assalto albanese alla Galleria

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In gara per l'assegnazione di due ristoranti storici anche i titolari di un'edicola e di un pub messicano

Un salto con l'asta da record del mondo: per alcuni partecipanti alla gara indetta dal Comune per due locali nel cuore della Galleria, un eventuale successo costituirebbe un clamoroso salto di qualità rispetto alle attività finora svolte. Al punto di chiedersi se abbiano le spalle abbastanza larghe per affrontare una sfida che prevede condizioni severe: affitti da quattrocentomila euro, obbligo di apertura continuata per 365 giorni.

I più coraggiosi, per così dire, sono i due albanesi Henri Palla e Koko Gentian, da meno di un anno titolari della Prima C, la società attraverso cui concorrono per il lotto 2, quello su via Pellico occupato attualmente dal «Gatto Rosso». La Prima C ha appena duemila euro di capitale sociale, e i due giovanotti (Koko è del 1979, Palla del 1987) nel loro curriculum imprenditoriale hanno ben poco: Koko ha in gestione una edicola sotto la stazione metropolitana Duomo, ed è socio di Palla in un'alra ditta , la Geri & Henri, oggetto sociale «commercio al dettaglio di giornali», nonchè in una terza società che si occupa di gestire edicole, la Nausicaa. Nella Nausicaa la loro pista si incrocia con quella di una famiglia di specialisti dei mezzanini del metrò, la famiglia napoletana degli Abbate. Un business a scartamento ridotto, reso più ostico dalla crisi dell'editoria, tant'è vero che le edicole sotto il metrò chiudono a ripetizione. Come, e soprattutto con quali appoggi e quali capitali, i due albanesi intendano prendersi in carico centinaia di metri quadri tra gli ori e i mosaici della Galleria è uno dei tanti misteri di questa vicenda.

Palla e Koko non sono gli unici outsider di questa corsa. Per lo stesso locale ha presentato la sua offerta la Lupita's, una società bresciana la cui principale attività sembra finora gestire un pub messicano (con la medesima insegna) a Cazzago San Martino. Anche in questo caso, il tentativo di sbarcare in Galleria parrebbe ardito: anche se nel capitale sociale del pub appare una Sapori srl piuttosto attiva nei commerci alimentari, in particolare nel ramo dolciumi.

Spalle decisamente più larghe, ma forse non grande esperienza nei ristoranti di alta gamma, sembra avere una delle aspiranti al lotto 1, il locale attualmente occupato dal «Salotto»: la Fabbro spa, controllata dalla famiglia omonima, è un colosso con 750 addetti, specializzato nella fornitura di mense aziendali. Nel portafoglio la Fabbro ha decine di bar e mense in aeroporti, scuole, ospedali, ospizi e case circondariali al Nord e al Centro Italia: dall'aeroporto di Malpensa al Pio Albergo Trivulzio, dall'ospedale Buzzi all'Istituto dei Tumori, fino al carcere di Scandicci; inoltre gestisce servizi di pulizia e distributori automatici. Lavori rispettabili, ma un po' lontani dal know-how richiesto dall'Ottagono.


L'anziano imprenditore: "Così ho capito la truffa Ma in tanti ci cascavano"

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Parla una delle vittime della banda che vendeva false riviste delle forze dell'ordine

C'è chi nella truffa ci è cascato in pieno, per ingenuità o per paura delle ingiunzioni e delle denunce minacciate dagli emissari della banda. E c'è chi invece a un certo punto ha avuto il buon senso di fiutare l'imbroglio e di andare al commissariato più vicino: come Erminio Arienti, dirigente d'azienda in pensione, uno dei milanesi presi di mira negli anni scorsi dagli imbroglioni arrestati ieri dalla polizia giudiziaria: personaggi senza scrupoli che, millantando legami con le riviste delle forze dell'ordine, prima scroccavano abbonamenti fasulli e poi pretendevano penali da centinaia o migliaia di euro.

«La prima volta - racconta Arienti - mi telefonarono chiedendo se potevo fare un'offerta, in cambio avrei avuto dei libri o delle riviste legate alla polizia. Non si parlava di grandi somme, mi sembra una cinquantina di euro». Era il metodo della banda: agganciare con richieste modeste, e solo in seguito alzare la voce.

«Io accettai, eravamo sotto Natale e rientrava nel mio budget per le offerte, poi verso le forze di polizia ho sempre avuto affetto; oltretutto mi avevano spiegato che l'offerta serviva anche a fare i regali ai bambini in occasione delle festività. Un anno dopo nello stesso periodo mi chiamarono nuovamente e io dissi ancora di sì». Chi la chiamava? «Un signore che diceva di chiamarsi Mancuso». Si spacciava per poliziotto? «Non in modo esplicito, ma dava l'impressione di essere in qualche modo in relazione con la polizia, come se fosse un ex agente. Una volta mi invitò anche ad andare ad una festa dei vigili del fuoco, mi sembra che poi ci andò mio figlio». Dove avevano preso il suo numero? «Non l'ho mai saputo, forse alla associazione dei dirigenti, o semplicemente dall'elenco».

Passa ancora qualche mese, e la musica cambia di colpo: «Alla terza telefonata il signor Mancuso (ma il nome ovviamente era fasullo, ndr) mi disse che c'era un problema, perché non avevo ritirato tutta una serie di riviste dei carabinieri, della polizia, dei vigili del fuoco e che quindi dovevo pagare una penale. Voleva milleseicento euro. Mi sembra un po' tanto, gli dissi. Scese subito a ottocento. Gli chiesi come farglieli avere, e lui mi mandò un fax con un numero di conto».

La minacciò di ricorrere a vie legali? «Minacce no. Però era pressante, decisamente. Mi diceva ma come mai lei non ha ritirato queste riviste, noi le abbiamo qui, abbiamo un costo. Mi disse che in un altro caso come il mio una signora alla fine aveva dovuto pagare, noi queste cose non le possiamo lasciar passare».

Davanti a questi toni, molte vittime cedevano. «Invece io iniziai a sentire odore di truffa. Ne parlai con mia moglie e ci dicemmo qui bisogna fare qualcosa, sporgere denuncia, altrimenti qualcun altro prima o poi ci casca. E andammo alla polizia. Non ne ho saputo più niente fino a quando dal telegiornale abbiamo saputo che li avevano messi tutti in prigione».

Il signor Arienti è laureato, lucido, avveduto. Ma con altri bersagli, i delinquenti purtroppo hanno avuto vita più facile.

I dannati di Opera e la parabola del Vangelo

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I detenuti di massima sicurezza mettono in scena il musical ispirato al "Figliol prodigo"

Nel crudo gergo carcerario li chiamano «AS3»: è il terzo gradino dell'alta sorveglianza, la classifica che al primo posto ospita i sepolti vivi del 41bis, il trattamento che punta a deprivare di qualunque relazione con il mondo. Ma anche per essere classificati «AS3» bisogna essere considerati pericolo estremo ed attuale per la sicurezza dello Stato. Il trattamento carcerario è conseguentemente rigido. Due obiettivi: impedire che scappino, impedire che dall'interno della prigione continuino a comandare.

Poi, però, nella grande sala del carcere di Opera si spengono le luci. Sbarre ci sono anche sul palcoscenico: ma sono le sbarre effimere della finzione, pronte a dissolversi e a ricomporsi sotto i giochi di luce. E sul palco appaiono loro, i detenuti dell'AS3 che hanno scelto di mettersi in discussione in quella forma di psicanalisi collettiva che è il teatro. Si chiama Il figliol prodigo, ed è la trasposizione in forma di musical della parabola del Vangelo di Luca. Ma inevitabilmente il contesto cambia tutto. E il tema della devianza e del recupero fa prepotentemente irruzione sulla ribalta, negli scenari mediorientali della parabola.

Di teatro in carcere se ne fa molto: Cesare deve morire dei fratelli Taviani racconta bene l'intreccio tra vissuto e finzione, e poche settimane fa al Piccolo è andato in scena un ammirevole Sogno di una notte di mezza estate dei ragazzi del Beccaria. Ma qui, a Opera, siamo nei lembi estremi del problema: sulla soglia di quell'universo che la società considera irrecuperabile. Essere AS3 qui vuol dire essere considerato uomo della criminalità organizzata: e perciò stesso, nella percezione dell'uomo qualunque, contrapposto senza margini di trattativa alla gente perbene. Ed è su questo terreno che si muove Eventi di Valore, l'ente che da anni ha portato il teatro nei reparti di massima di sicurezza del grande carcere in fondo a via Ripamonti.

San Vittore è malconcio e sovraffollato, ma a suo modo vitale; entrare a Opera, infilarsi nei suoi tunnel senza una crepa e tirati a lustro, è una esperienza angosciante. L'espressione «sepolti vivi», qui, non è un modo di dire. E solo gli uomini che per quasi due ore si avvicendano sul palco, cantando, ridendo e piangendo sanno quanto di questo sprazzo di libertà si riporteranno in cella a mezzanotte, quando il pubblico lascerà il carcere e sciamerà fuori, nella notte tiepida dei liberi.

Ci hanno lavorato in tanti, a partire da Isabeau, ovvero Isabella Biffi, che ne è anche la regista; e compreso Fabio Perversi dei Matia Bazar, che ha scritto una parte delle musiche. Le parti femminili sono affidate a giovani e belle ragazze venute da fuori, perché Opera è un carcere solo di maschi. I veri protagonisti sono loro, i condannati: ma senza nome in locandina.

Venerdì prossimo si replica all'esterno, al teatro comunale di Limbiate.

La Svizzera chiude tre valichi: "Stop ai ladri in arrivo dall'Italia"

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Troppi razziatori stranieri, divieti notturni a Marcetto, Ponte Cremenaga e Pedrinate. Una decisione politica

Con un piede sei in Svizzera, con l'altro piede sei in Italia. Il paese di qua si chiama Marcetto, quello di là Ronago. In mezzo, sul confine, due casupole vuote, le due dogane: quella italiana mezza diroccata, quella svizzera ovviamente linda e ben tenuta. Sul lato italiano, un cartello avverte che il confine è aperto ventiquattr'ore al giorno. Sul lato svizzero, un cartello dice esattamente il contrario: divieto di passaggio dalle 23 alle 5. Il cartello è nuovo di pacca. E ieri sera alle 23, per la prima volta, le sbarre a livello si sono abbassate bloccando il passaggio. Proibito uscire, proibito entrare. Il muro di Marcetto. Alla stessa ora, le sbarre biancorosse si sono abbassate a pochi chilometri da qui, sul valico di Drezzo; e più su, quaranta chilometri a nordovest, a Ponte Cremenaga, dove le acque del Tresa separano l'Italia dalla Svizzera. Stamane alle 5, le sbarre dei tre piccoli confini si sono tornate ad alzare.

Per capire il perché e le conseguenze di questa svolta - decisa a malincuore dal governo federale svizzero, sull'onda di delibere e pressioni del Canton Ticino - bisogna partire dal semplice dato di fatto che si constata arrampicandosi fin quassù: ovvero che si tratta - se non di una gigantesca presa in giro - di un gesto puramente simbolico. Per più di un motivo: in primis, perché nessuna guardia svizzera è rimasta stanotte a presidiare il passaggio, bloccato alle auto ma tranquillamente attraversabile a piedi; e poi perché il confine che scorre tra questi boschi è una finzione di frontiera, come ben sanno gli spalloni che lo hanno attraversato per secoli, e come ben spiegano gli avventori del bar della Mery a Ronago, ultimo avamposto tricolore a ridosso della perfida Elvezia: «La rete di confine praticamente non esiste più, è tutta un buco, vada a farsi un giro».

In effetti facendosi largo tra le robinie la rete d'acciaio si presenta come un cadavere di metallo contorto e steso al suolo, utile anziché a dividere le due nazioni a scavallare un ruscello che scorre infossato. Chi vuole passare continuerà a passare, a qualunque ora del giorno e della notte. E che possano diminuire i furti nelle case e nei negozi svizzeri, ufficialmente indicati a motivo della chiusura notturna dei confini, non ci crede nessuno: a partire dalle due ragazze che lavorano al minimarket di Marcetto, a due passi dal confine: «A noi la chiusura non ci fa né caldo né freddo. Noi alle otto di sera chiudiamo. Se vogliono rapinarci ci rapinano prima, quando il confine è aperto».

Che la recrudescenza vi sia davvero stata, e che sia colpa di stranieri di origine balcanica venuti dall'Italia, pare assodato: anche se al bar della Mery fanno presente che l'andirivieni di brutti ceffi avviene in entrambe le direzioni, e anzi quelli che arrivano dalla Svizzera in Italia sono i peggiori. «L'altro giorno - raccontano - ha passato il confine una Bmw con targa inglese, su c'erano dei moldavi con quindici chili di cocaina, li hanno bloccati qui mentre cambiavano macchina». Non saranno queste sei ore di sbarre abbassate, a fermare chi vuole davvero passare il confine. E d'altronde di notte restano aperti altri due piccoli valichi poco distanti, a Bizzarone e alla Crociale dei Mulini, anche senza sfidare la lotteria dei controlli a Chiasso.

E allora, perché? La risposta è semplice: politica, la politica che vive di battaglie simboliche. Per la Lega dei Ticinesi i tempi grami che si respirano in Svizzera offrono consenso facile alla retorica dei muri, e questo dei confini chiusi di notte a Marcetto, a Pedrinate e a Ponte Cremenaga è un avatar del vero muro che si vorrebbe tirare su, quello contro i frontalieri italiani che vengono «a rubare lavoro». E pazienza se a lanciare la battaglia per il muro è stata la consigliera leghista Roberta Pantani, che di mestiere ha una fiduciaria a Chiasso, e che quindi di una certa facilità di certi italiani a passare il confine ha sempre guadagnato. Ma quelli hanno il colletto bianco, e non viaggiano di notte.

Ma quale legittima difesa Nel Far West ci viviamo già

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Il Paese in balia di banditi armati e sempre più brutali La soluzione alla violenza? Uno Stato che ci protegga

A rendere tutto più drammatico e più difficile c'è un dato di fatto: subire non serve a niente. Se davanti al bandito che attacca una casa, un negozio, un ristorante, la vittima sceglie di non reagire - per incapacità, bontà d'animo, o per semplice paura delle ritorsioni del criminale che si trova davanti - e cerca insomma di arrendersi: ecco, neanche questo funziona. Perché le cronache son piene di incursioni che si trasformano in brutalità e ammazzamenti senza che nemmeno un accenno di reazione fosse venuto dalla vittima. Inginocchiarsi non serve, davanti a nemici che hanno dentro di sè l'adrenalina dell'impresa, e negli occhi (come racconta la moglie dell'ultimo ucciso, il barista di Budrio) nessuna scintilla di umanità.

Quindi, se arrendersi non serve a niente, quale indicazioni, quali precetti fornisce lo Stato ai suoi cittadini, trasformati in bersaglio dall'unica colpa di possedere qualcosa, di avere conquistato a fatica un piccolo benessere? «Non possiamo trasformare l'Italia in un Far West», tuonano i benpensanti del politicamente corretto, quelli che il trauma di un coltello alla gola non l'hanno mai provato, ogni volta che un padre di famiglia mette il dito sul grilletto per difendere sè, i suoi cari o semplicemente i suoi soldi. Non si accorgono, i benpensanti, che il Far West è già qui, nelle praterie della Padania dove i mucchi selvaggi dei pistoleros scorrazzano in Bmw. «Non è ammesso farsi giustizia da sé, non è da paese civile», dicono. Senza capire che chi tira fuori la doppietta dall'armadio non vuole farsi giustizia ma soltanto garantirsi la sicurezza che lo Stato non è in grado di offrirgli; per evitare che siano poi i suoi cari a chiedere giustizia per la sua morte, in una navata di chiesa o in un'aula di tribunale.

Eppure così non va bene, non può andare bene. Non può essere una sicurezza fai-da-te la risposta che lo Stato lascia ai milioni di italiani vittime potenziali di questi Jessie James balcanici. Considerazioni etiche o religiose o giuridiche a parte, la risposta non può essere questa perché faccia a faccia, arma contro arma, il cittadino è perdente: si è appena svegliato, non tocca un'arma da mesi o da anni, e ha una coscienza. Lui. Se ogni irruzione in villa dovesse trasformarsi in duello all'Okay Corral, a restare sul terreno nove volte su dieci sarebbe il padrone di casa.

Non è tutto. Più sparatorie vuol dire banditi più tesi, più armati, più pronti a fare fuoco per primi. Di un innalzamento del livello dello scontro, a pagare le conseguenze sono sempre i più deboli. Allora, se arrendersi non serve a niente, se l'autodifesa è un rimedio peggiore del male, l'unica risposta che lo Stato può dare è fare davvero il suo dovere, ovvero proteggere i cittadini che lo mantengono con le loro tasse. In un paese dove in dieci anni i furti nelle abitazioni sono raddoppiati fino alla folle media di 17,9 reati su mille abitazioni, e dove l'Istat è ridotta a festeggiare un «rallentamento della crescita«, che è cosa ben diversa da una diminuzione, questo è il dovere dello Stato. É un compito arduo e costoso, ma possibile: non abbiamo davanti un nemico senza volto ma uomini (e nemmeno tanti) identificabili e spesso identificati, di cui si conoscono le zone di provenienza in Italia e all'estero, e di cui moderne tecnologie sono in grado di prevenire e reprimere le imprese. Certo, bisogna decidere che questa battaglia è una priorità per le forze dell'ordine e anche per le Procure, che spesso confinano i «reati predatori» nei piani bassi delle loro agende. Nel frattempo, la si smetta di scandalizzarsi se un paese chiude gli accessi al calare delle tenebre, o assume gli sceriffi. Così si faceva nel West, in fondo. Si smetta di indignarsi se finalmente un ministro dell'Interno di sinistra si accorge che la sicurezza è un'emergenza nazionale. E qualcuno spieghi al procuratore della Repubblica di Lodi, pronto a incriminare per omicidio volontario il tabaccaio che a Gugnano ha messo mano al fucile dopo essersi trovato i ladri in casa, che in quei momenti un uomo pensa solo a difendere ciò che gli sta a cuore. E che non serve chiedere pietà.

Le ombre della camorra sul Carrobbio: nel mirino una pizzeria

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I titolari di Donna Sophia: «Non c'entriamo C'è stato il controllo, ma lavoriamo sempre»

Luca Fazzo

Cosa succede nei locali pubblici milanesi? Dopo l'allarme del Comune sui flussi finanziari sospetti per 180 milioni di euro, e mentre tra polemiche e sospetti di cordate sotterranee si prepara l'apertura delle offerte per due spazi in Galleria Vittorio Emanuele, adesso scende in campo addirittura la Dia, la Direzione investigativa antimafia. Che punta il dito contro una pizzeria assai nota a Milano, a pochi passi dalle Colonne di San Lorenzo, accusando i titolari di essere diretta emanazione di un clan della camorra.

La pizzeria si chiama «Donna Sophia dal 1931», all'angolo tra il Carrobbio e Porta Ticinese, su Tripadvisor ha recensioni altalenanti ma complessivamente positive: e ieri sera era tranquillamente aperta. «Si, c'è stato un controllo - raccontano i gestori - ma ci hanno autorizzato a continuare a lavorare, sotto un amministratore giudiziario». Ma è vero che siete un'emanazione della camorra, come dicono i siti Internet? «I siti esagerano, posso assicurare che non è proprio così».

A quel che si comprende, a venire colpita da sequestro in base alle leggi sulle misure di prevenzione è stata la società che gestisce il locale, la Marass srl, che ha sede allo stesso indirizzo: e sul cui certificato camerale ieri effettivamente campeggiava la dicitura «in data 30/3/2017 è stato depositato decreto di sequestro preventivo dei beni», ovvero «della totalità delle quote della società e dell'intero patrimonio aziendale». Il provvedimento è firmato dal tribunale di Napoli e vede come destinatario principale Salvatore Potenza, nonché le quote possedute da Assunta Potenza e Martina Vitagliano, le due signore che si spartiscono in parti uguali il controllo della Marass.

Chi sono, i fratelli Assunta e Salvatore Potenza? Semplicemente, due dei tre figli di Mario Potenza detto «o' Chiacchierone», personaggio storico della malavita napoletana, prima contrabbandiere e poi usuraio, morto qualche anno fa mentre si trovava sotto processo insieme ad altri personaggi legati - secondo la procura antimafia di Napoli - al clan camorrista dei Lo Russo. Quando la polizia andò a bussare alla porta di Mario o'Chiacchierone, nel cuore del Pallonetto di Santa Lucia, trovò otto milioni di euro murati in una parete.

Alla morte del capostipite, i figli del vecchio Potenza sono accusati di essersi dati da fare per reinvestire in attività pulite il tesoro accumulato dal padre. Il decreto di sequestro del tribunale di Napoli riguarda conti svizzeri (quattro milioni, presso la Bsi di Lugano) e una sfilza di ventiquattro società, legate quasi tute alla ristorazione o a attività immobiliari, e tutte domiciliate al sud: con l'unica eccezione della Marass, quella della pizzeria di corso di Porta Ticinese. A riprova del triste teorema per cui la piazza milanese è un passaggio obbligato per chi vuole cancellare le origini dei propri quattrini: qua di soldi ne girano così tanti, che cammuffare quelli sporchi diventa quasi facile.

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