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La giustizia lenta e criminale libera lo stupratore di bimbe

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Scatta la prescrizione, in primo grado prese 12 anni Le responsabilità nel tribunale che Renzi portò a esempio

Bisogna prendere esempio dal tribunale di Torino, twittava Matteo Renzi alle 6,57 del 28 agosto 2014. Bell'esempio, viene da dire adesso. Perché proprio dal palazzo di giustizia indicato dall'ex premier come modello di efficienza arriva una notizia di quelle difficili da digerire. Uno stupratore di bambine la farà franca: perché la Corte d'appello di Torino non è riuscita in dieci anni a celebrare il processo contro di lui. Così l'altro ieri, quando il processo si è finalmente aperto, il giudice non ha potuto fare altro che dichiarare prescritto il reato. I dodici anni di carcere inflitti in primo grado svaniscono nel nulla. L'unico aspetto positivo è che l'uomo è in galera per reati comuni. Ma tra poco tornerà libero. E delle violenze e delle sevizie inflitte a una bimba di nove anni che viveva con lui, figlia della sua compagna, non risponderà mai.

Dopo che la notizia, resa nota ieri da Repubblica, è piombata a Roma, il ministro della Giustizia ha annunciato l'apertura di una inchiesta interna: resa però imbarazzante dal fatto che a presiedere la Corte d'appello di Torino dal 2009 al 2014, negli anni cruciali di questa vicenda, quelli in cui il fascicolo per stupro languiva in chissà quale cassetto, era proprio Mario Barbuto, il giudice che Orlando ha voluto al ministero per rendere efficiente la giustizia italiana, sull'onda dei «successi» della sua gestione torinese. E, secondo quanto risulta al Giornale, questo non è il solo processo per stupro che a Torino dorme.

Ora Barbuto è in pensione. I nuovi capi degli uffici torinesi si mostrano costernati: «È un'ingiustizia per tutti», dice il presidente della Corte d'appello Arturo Soprano; «siamo desolati, chiediamo scusa», dice il procuratore generale Francesco Saluzzo. Ma lo stesso Saluzzo rende noto che nella Corte d'appello indicata da Matteo Renzi come «modello» la situazione è «spaventosa», ventimila processi giacciono in attesa di venire fissati, con la certezza che buona parte finiranno prescritti. Riparte la consueta lagnanza sulle leggi che andrebbero cambiate, «non si può continuare così». Ma è chiaro che nessuna legge, nessuna carenza di personale può giustificare la follia di un processo che in vent'anni non riesce a terminare.

Eh sì, perché i dieci anni in cui il fascicolo giace in stato colliquativo nei cassetti della Corte d'appello di Torino sono stati preceduti da altri dieci anni in cui il caso del pedofilo di Ovada si era trascinato tra indagini preliminari, errori procedurali, accuse cadute e poi rispolverate. L'uomo, Andrea Lombardozzi, viene arrestato nel 1997, accusato di maltrattamenti orribili ai danni dei due bambini della sua donna: ingiuriati, picchiati, chiusi in un armadio, costretti a frustarsi a vicenda. Il processo impiega sette anni, e nel corso delle udienze, nel 2004, salta fuori che c'è di peggio: lo stupro della bambina. Lombardozzi, che nel frattempo sta scontando la condanna a cinque anni di carcere per i maltrattamenti, viene nuovamente incriminato, e questo è l'unico passaggio di accettabile celerità: nel 2007 viene condannato a dodici anni per violenza carnale. Il tribunale di Alessandria esce di scena, le carte passano a Torino per l'appello. Nebbia. Dieci anni di nebbia.

Quando il nuovo avvocato di Lombardozzi, il genovese Claudio Zadra, riceve l'avviso del processo d'appello, data 20 febbraio 2017, si rende conto subito che è un processo già sepolto dallo scorrere del tempo: «E a quel punto - spiega Zadra - ho fatto l'unica cosa che come difensore, impegnato in una difesa tecnica, potevo fare: e ho fatto valere la prescrizione». Il difensore ha fatto il suo dovere. Ma la stessa, palmare evidenza che le accuse di violenza contro Lombardozzi riguardavano fatti del 1997 era a disposizione di chiunque si fosse preso la briga di consultare il fascicolo: bastava la copertina, senza neanche affannarsi a leggere gli atti. Ma nessuno, nella Corte d'appello di Torino, lo ha fatto. Nessuno, nella Procura generale del capoluogo, ha segnalato che il tempo a disposizione stava per finire. La vittima oggi ha ventisette anni, e di questo processo non ha mai voluto sapere niente. Meglio così.


Al tribunale di Torino la lentezza è legge

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Il documento: i giudici possono decidere la priorià dei processi. Ed è caos

«La prego di capirmi, per me è un momento psicologicamente difficile...». La voce di Mario Barbuto, fino al 2014 presidente della Corte d'appello di Torino, suona sinceramente provata. Nella «sua» Corte un processo è rimasto fermo dieci anni, con il risultato che il violentatore di una bambina se l'è cavata con la prescrizione. E questo nel palazzo di giustizia che Barbuto si vantava di avere portato a efficienza mai vista, e venne chiamato per questo a Roma accanto al ministro Orlando.

Su come nell'efficiente tribunale torinese una follia simile possa essersi trascinata per dieci anni, Barbuto dice di non sapere nulla: ma spiega che a fissare i calendari d'udienza sono i singoli presidenti di sezione della Corte, che saranno dunque i primi a finire nel mirino dell'azione disciplinare che sta per partire sull'onda dell'indignazione a tutti i livelli (un membro del Csm, il giudice Ardituro, ieri dice persino «mi vergogno di fare parte di questa categoria»). Ma il rischio è che anche stavolta si colpisca il colpevole del singolo caso senza affrontare il tema drammatico che gli sta dietro.

Lo scandalo di Andrea Lombardozzi, il violentatore di Ovada premiato con la prescrizione, non è un caso isolato. Nello stesso palazzo di giustizia torinese il presidente del tribunale Massimo Terzi ha scritto appena pochi giorni fa al procuratore Armando Spataro descrivendo in termini crudi la situazione dell'ufficio, parlando di «estrema difficoltà», «circa il 70 per cento dei procedimenti penali veniva fissato a tre anni dalla richiesta con trend in drastico peggioramento», e indicando una serie di linee guida per fronteggiare le prescrizioni: tra cui, inevitabilmente, quella di dare per morti i processi cui mancano meno di due anni alla estinzione. Una resa. Inevitabile, ma una resa.

Il carteggio tra Terzi e Spataro nasce sull'onda della circolare che il Consiglio superiore della Magistratura invia l'11 maggio 2016 per cercare di mettere ordine nel caos che regna nei tribunali, venuto alla luce con uno scontro furibondo tra procuratore e presidente del tribunale a Belluno, dove il primo accusava il secondo di aspettare anni a fissare i processi. Il Csm invita i capi degli uffici a collaborare, i procuratori a non sommergere i tribunali di richieste inutili. Ma non affronta il vero nodo, il feticcio della obbligatorietà della azione penale, quella che rende tutti i reati ugualmente meritevoli di indagini, processi e sentenze: le fesserie come gli orrori.

È una lettura interessante, quella circolare del Csm. Perché ammette che le «priorità» di fatto esistono già, e a decidere quali reati perseguire e quali tralasciare sono di fatto i procuratori capi, e lo fanno «attraverso la distribuzione discrezionale delle risorse umane e tecnologiche, il concreto impiego della polizia giudiziaria», eccetera: «e dunque a prescindere dalla eventuale enunciazione di un catalogo di reati prioritari». Tradotto, significa che i procuratori scelgono quali reati combattere, ma in modo «discrezionale», ovvero arbitrario, e senza renderlo noto: fino arrivare all'«accantonamento o postergazione», ovvero passaggio in secondo piano, dei processi considerati inutili o irrilevanti.

Di fatto, il principio della obbligatorietà dell'azione penale, come denunciano invano da tempo gli avvocati, diventa lo strumento per scelte insindacabili e fuori controllo, diverse da una città all'altra ma tutte fuori controllo. La produzione di processi inutili destinati a morire è la nebbia in cui ogni procura, tribunale, corte d'appello può invocare la carenza di mezzi per fare quello che vuole. E amen se qualche violentatore la fa franca.

La fine del Pd inguaia Pisapia, Penati va con gli scissionisti

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La guerra dei Democratici rovina i piani all'ex sindaco L'ex presidente della Provincia è tentato dai fuoriusciti

La torta è piccola, e alla fine qualcuno dovrà accontentarsi delle briciole. Nel marasma in cui la crisi del renzismo ha precipitato la sinistra milanese, mettendo in subbuglio tanto l'universo dei puri-e-duri che i salotti buoni della città arancione, sono in tre a contendersi lo spazio a sinistra del Pd. Inevitabilmente, solo una delle anime prenderà la leadership cittadina della fronda al partitone. E a fare pendere l'ago della bilancia potrebbe essere, secondo il gossip delle ultime ore, proprio l'uomo che per anni ha incarnato il potere Pd a Milano: Filippo Penati, ex sindaco di Sesto ed ex presidente della Provincia.

Che l'anima «penatiana» del Pd guardasse con interesse all'ipotesi di scissione si era intuito già nei giorni precedenti la tempestosa riunione della direzione del Pd a Roma, e dopo l'ufficializzazione della rottura i segnali si sono fatti più espliciti. Tra i più decisi, un penatiano di ferro come Massimo D'Avolio, ex sindaco di Rozzano ed ora consigliere regionale: che interpellato sul tema risponde tra il serio e il faceto, «mi ero convinto di morire democristiano, non vorrei morire renziano»: che suona quasi come una conferma. D'altronde lo stesso Penati si sta muovendo intensamente, il suo braccio destro Franco Maggi ha incontrato nei giorni scorsi Roberto Speranza, l'annuncio dell'endorsement ufficiale potrebbe essere questione di ore. E se Penati abbracciasse la ditta di Speranza e Bersani (di quest'ultimo fu a lungo capo della segreteria, peraltro) potrebbe portarsi dietro un po' di quel ceto di amministratori e dirigenti locali di cui «Nuova Sinistra» è carente soprattutto al nord.

Se a Milano la «cosa» bersaniana dovesse consolidarsi, ad avere qualche problema sarebbe sicuramente «Campo Progressista», la creatura di Giuliano Pisapia, che si troverebbe non solo a contendere lo stesso elettorato ma anche a offrire sul mercato politico un prodotto sostanzialmente identico, ovvero l'appoggio da sinistra al Pd e la fiducia al governo Gentiloni. Per ora, i milanesi più in vista nel «campo» dell'ex sindaco, come il delegato alle periferie Mirko Mazzali e il presidente della Zona 8 Simone Zambelli, non mostrano tentennamenti. Ma è chiaro che la brusca accelerazione della scissione nel Pd ha guastato i piani di Pisapia. Al punto che c'è chi ipotizza che i due progetti si possano sostanzialmente fondere: ma negli ambienti di «Campo progressista» è uno scenario che viene indicato come improbabile, almeno per il momento: «al massimo - si dice - si può lavorare alla creazione di gruppi parlamentari unici».

C'è poi il terzo petalo del trifoglio rosso, ovvero Sinistra Italiana, la formazione che ha raccolto una parte dell'eredità della Sel di Vendola. A distinguerla dalle altre due anime, c'è se non altro la netta opposizione al governo di Paolo Gentiloni. Ma a livello milanese appare anch'essa drammaticamente priva di un gruppo dirigente (basti pensare che l'esponente più autorevole è Daniele Farina, ex portavoce del Leoncavallo); e in ogni caso rischia anch'essa di venire ridotta a una nicchia di testimonianza se gli scissionisti del Pd si consolidassero.

Manovre di posizionamento in corso, dunque: sullo sfondo, ormai a una manciata di settimane, le amministrative in 136 comuni lombardi, di cui 23 nel milanese, primo vero test per capire chi comanda a sinistra di Renzi,

"La Procura scopra chi ha passato le azioni al gruppo francese"

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L'accusa: sfruttate le basse quotazioni dei titoli per dar la scalata al gruppo

Due denunce nel giro di ventiquattr'ore: una il 13 dicembre scorso, la seconda l'indomani, 14 dicembre. Stessa firma: l'amministratore delegato di Fininvest Danilo Pellegrino; stesso tema: la richiesta alla Procura di Milano di indagare sul comportamento di Vivendi nello scontro furibondo su Mediaset. Ma tra le due denunce c'è una differenza cruciale: nella prima Pellegrino si limita a esporre i fatti, senza indicare i possibili colpevoli. L'indomani, dopo il nuovo comunicato di Vivendi che annuncia di avere raggiunto il 12,32 di Mediaset, Fininvest rompe gli indugi e denuncia i rivali con nome e cognome: «chiede che codesto ufficio di Procura voglia procedere nei confronti di Vincent Bolloré quale presidente del Consiglio di sorveglianza di Vivendi, e Arnaud de Puyfontaine quale ceo di Vivendi».

Questo documento sta alla base della decisione del procuratore Francesco Greco e dei suoi pm di iscrivere Bolloré e Puyfontaine nel registro degli indagati per il reato di aggiotaggio. Una mossa tanto clamorosa quanto inevitabile, vista la precisione delle accuse che la denuncia di Fininvest muove ai capi del colosso francese. «L'atteggiamento tenuto fin dal primo momento da Vivendi e gli atti posti in essere quest'oggi - scrive Pellegrino il 13 dicembre, dopo che i francesi hanno annunciato di avere in mano il 3,01 di Mediaset - rendono più che evidente una precisa strategia connotata da una condotta antigiuridica volta ad una acquisizione di consistenti quote di Mediaset ad un prezzo assai inferiore al reale valore di mercato». Il giorno dopo, quando Vivendi dice di avere raggiunto il 12,32%, ecco il seguito di denuncia: «visto il livello delle negoziazioni avvenute nella giornata di ieri, 13 dicembre, l'incremento della partecipazione di Vivendi non può che essere avvenuto in data antecedente al comunicato del 12 dicembre in cui (contrariamente al vero) si comunicava il raggiungimento del 3,01%». Balle, insomma, dette ai mercati per manovrare sul titolo: e gli illeciti «dovrebbero essere necessariamente ascritti in prima istanza ai vertici del gruppo francese». Cioè Bolloré e de Puyfontaine.

Le due denunce sono stringate. Ma il 22 dicembre Niccolò Ghedini deposita in Procura una memoria d'accusa assai più dettagliata, in cui si ripercorre passo per passo l'accordo tra Fininvest e Vivendi poi rotto dai francesi: «è verosimile, e ciò risulterà sicuramente dalle indagini di codesto uffici, che proprio alla data del 1 luglio Vivendi si fosse determinata a recedere dagli accordi e a puntare all'acquisto di un partecipazione rilevante in Mediaset». Rottura e comunicati farebbero insomma parte di una strategia studiata a tavolino per scalare Mediaset sottocosto. «Sarebbe - aggiunge Ghedini - di assoluta rilevanza esperire una approfondita investigazione sulla provenienza dei titoli compravenduti, con quale denaro erano stati acquistati e la sorte finale della enorme plusvalenza che si è realizzata in pochissimi mesi», circa 250 milioni di euro. L'investigazione è cominciata.

Garlasco, dubbi finiti: Stasi colpevole

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Contro l'amico di Chiara, Andrea Sempio, non ci sono prove. Il caso sarà archiviato

nostro inviato a Pavia

L'inchiesta-bis sul delitto di Garlasco è terminata. Non ci sono più testimoni da sentire o prove da cercare. La Procura di Pavia, chiamata a indagare su Andrea Sempio, indicato come «colpevole alternativo» dai difensori di Alberto Stasi, ha fatto tutto quello che - a quasi dieci anni dal delitto - si poteva fare per capire se davvero Chiara Poggi, la mattina del 13 agosto 2007, non fu uccisa dal fidanzato ma da questo amico di famiglia. E la risposta finora è netta: contro Andrea Sempio non ci sono prove. Ora il procuratore aggiunto Mario Venditti dovrà tirare le fila. Ma a meno di sorprese dell'ultima ora, l'esito appare segnato: richiesta di archiviazione. Il vero colpevole è già in galera, e si chiama Stasi.

È stato un remake arduo, quello innescato dalla memoria con cui i legali di Stasi avevano puntato il dito contro Sempio, sulla base di un dna carpito da un investigatore privato. Impossibile, per esempio, cercare i tabulati telefonici, ormai cancellati. Così si è dovuto lavorare a ritroso, cercando di capire se le spiegazioni di Sempio - che nella villa di Chiara era di casa, amico da sempre di suo fratello minore, Marco - stavano in piedi. Alla fine nessuna incongruenza, nessuna contraddizione tale da poter muovere contro il ragazzo, oggi diventato un giovane uomo, l'imputazione di omicidio.

Certo, alcuni dettagli sono sfocati, difficili da collocare con certezza. Il post che Sempio pubblica su Facebook il 12 dicembre 2015 poco prima o poco dopo la condanna definitiva di Stasi: una citazione del Piccolo principe, libro preferito di Alberto, «non dimenticare il nostro segreto»; lo scontrino di un parcheggio con la data del giorno del delitto, stranamente conservato da Sempio; e poi quelle telefonate di Sempio a casa Poggi nei giorni prima del delitto, apparentemente insensate. Ma i ragazzi spesso fanno cose insensate; le mamme conservano gli scontrini; e non si può mandare un uomo in galera per una frase su Facebook.

E poi: a Sempio manca il movente. L'uccisione di Chiara fu un delitto feroce, opera di un solo individuo che agì con furia, continuando a colpire la ragazza mentre la trascinava sulle scale. Non un ladro occasionale, ma qualcuno che la conosceva bene. E cosa poteva avere mai fatto Chiara a Sempio, per trasformarlo in una belva?

D'altronde, e anche questo ha forse influenzato i pm di Pavia, la difesa di Stasi non ha mai chiesto la revisione del processo all'ex bocconiano. La verità finale per la giustizia è la condanna di Stasi a sedici anni. Anzi si racconta che i pm della nuova inchiesta si siano domandati come abbia fatto Stasi a evitare la aggravante della crudeltà e la condanna all'ergastolo: «Leggendo il referto dell'autopsia - pare abbiano detto - ci venivano i brividi».

Toh, la giudice che vieta la parola "clandestini" era nemica della Lega

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Relatrice al convegno dell'associazione che denunciò i manifesti. Il ministro: indagare

Una settimana fa, il giudice milanese Martina Flamini è finita sulle prime pagine dei giornali per una sentenza clamorosa: ha stabilito che la parola «clandestino» non si può usare, perché «veicola l'idea fortemente negativa che i richiedenti asilo costituiscano un pericolo per i cittadini»; e aveva condannato la Lega Nord, che quella parola aveva usato in un manifesto. Bene. Ma quasi un anno fa, il 16 maggio 2016, la stessa giudice era Trieste, dove partecipava come relatrice a un convegno dal titolo «La protezione internazionale», organizzato dall'associazione Asgi, Associazione di studi giuridici sull'immigrazione. Cioè esattamente la stessa associazione che poche settimane dopo avrebbe firmato il ricorso contro i manifesti leghisti: ricorso che la giudice Flamini ha puntualmente accolto.

Sul doppio ruolo nei suoi rapporti con l'Asgi - relatore prima, giudice poi - adesso la dottoressa Flamini dovrà dare delle spiegazioni. Dovrà darle al ministro della Giustizia Andrea Orlando, che ieri in Parlamento, rispondendo a una interrogazione, ha annunciato l'avvio di una inchiesta interna per capire come sia avvenuto il singolare episodio. E cioè come e perché la dottoressa Flamini non abbia ritenuto suo dovere, quando sul suo tavolo è approdato il ricorso firmato da una associazione privata con cui evidentemente è in buoni rapporti, astenersi dalla vicenda. Certo, è possibile che la Flamini abbia chiesto ai suoi capi di fare un passo indietro, come il codice prevede nei casi in cui esistono «gravi ragioni di convenienza», e che i suoi capi le abbiano detto di andare avanti: e anche di questo dovranno occuparsi, eventualmente, gli ispettori del ministro.

La sentenza della Flamini era apparsa da subito decisamente innovativa, non solo dal punto di vista giuridico ma anche da quello della political correctness applicata al vocabolario: perché marchiava come «gravemente offensiva ed umiliante» una espressione, «clandestini», fino a quel momento considerata asettica. Basti pensare che appena pochi giorni dopo la sentenza milanese, in America un pastore luterano da sempre schierato con oppressi e rifugiati, Alex Salvatierra, l'ha impiegata per rivendicare i loro diritti in chiave anti-Trump, «difendiamo quei clandestini sotto attacco che oggi in America hanno meno diritti che mai».

Sulla oggettiva singolarità della sentenza, il carico da undici l'ha però calato il sindaco leghista di Saronno, Alessandro Fagioli, che in una intervista ha rivelato il doppio ruolo della giudice: «segnalo una cosa curiosa - aveva detto Fagioli - che la stessa associazione che ha fatto denuncia invita come relatore lo stesso giudice che ha fatto la sentenza». «Non voglio dire che sia sospetto - aveva aggiunto Fagioli - domando a me stesso se fosse opportuno». La stessa domanda, a quanto pare, se l'è posta anche il ministro della Giustizia.

La partecipazione a convegni di studi relativi alla materia di cui si occupano è per i magistrati consueta. Nel caso di Trieste si trattava indubbiamente di un convegno di parte, organizzato da enti dichiaratamente schierati dalla parte dei migranti (oltre all'Asgi c'era l'Ics, Consorzio italiano di solidarietà - sezione rifugiati). Ma l'aspetto su cui verosimilmente si soffermeranno gli ispettori del ministro è quello dei rapporti precedenti e successivi tra Asgi e giudice. E magari anche quello più veniale del pagamento delle spese di viaggio e soggiorno.

"Minacce e insulti agli ispettori sanitari" Condannato Princi

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Due mesi e venti giorni al re dei panettieri Reagì male durante un controllo in negozio

Una brutta mattina per Rocco Princi, il nuovo re milanese del business del pane, sempre più sulla cresta dell'onda dopo l'accordo con il colosso americano Starbucks, quello delle palme in piazza del Duomo. Princi ieri mattina ha dovuto sottrarre un paio di ore alla gestione della sua rete di panetterie e pasticcerie - cinque negozi, tutti rigorosamente all'interno del centro storico, più una succursale a Londra - e presentarsi davanti alla quarta sezione del tribunale per essere processato con rito abbreviato per l'accusa di minacce e violenza a pubblico ufficiale, articolo 336 del codice penale. Gli è andata decisamente male: il giudice Maria Cristina Filiciotto lo ha dichiarato colpevole e lo ha condannato a due mesi e venti giorni di carcere, concedendogli la sospensione condizionale della pena.

Ma cosa ha combinato, Princi, per ritrovarsi in un simile pasticcio? Dietro, sembra di capire, c'è una certa insofferenza del 57enne imprenditore calabrese verso i controlli sanitari nei suoi punti vendita. La storia risale a tre anni e mezzo fa, e ha per teatro il più in vista dei negozi della catena, quello affacciato su largo La Foppa. È qui che, un giorno di agosto, Princi si vede arrivare una ispezione dell'Ufficio d'igiene. Controllo di routine, secondo i funzionari: ma vissuto, pare, da Princi come una sorta di persecuzione. Tema: la porta di un laboratorio lasciata aperta. Sta di fatto che le proteste del titolare salgono di tono, pesantemente. I funzionari dell'Ufficio d'igiene si sentono insultati e minacciati. Lo scontro prosegue qualche giorno dopo nella sede di via Statuto del servizio di controllo. E a quel punto i funzionari fanno partire la denuncia nei confronti di Princi. Il fascicolo viene assegnato al sostituto procuratore Alessia Miele, che si convince della colpevolezza di Princi e dispone il processo con citazione diretta, saltando l'udienza preliminare.

Ieri, assistito dall'avvocato Tomaso Pisapia, Princi si è presentato in aula per difendere le sue buone ragioni. Ma le dichiarazioni messe a verbale durante le indagini dai funzionari dell'ufficio d'igiene non gli hanno lasciato via di scampo. Nonostante il pm d'udienza - un magistrato onorario che ha gestito il processo per conto della dottoressa Miele, trasferita nel frattempo - avesse chiesto l'assoluzione dell'imputato, il giudice Filiciotto è stata più severa del rappresentante dell'accusa: per la sentenza il comportamento dell'imprenditore è stato ingiustificabile, davanti a pubblici funzionari che stavano semplicemente compiendo il loro dovere.

Ora la condanna piomba su Princi nel momento più luminoso della sua carriera, iniziata nel lontano 1986, con l'apertura del primo negozio milanese, e che lo ha portato ad essere scelto come partner dal gigante Starbucks in vista dell'atteso sbarco a Milano. Una alleanza che non si limiterà alla gestione del megalocale di piazza Cordusio, con i suoi trecentocinquanta dipendenti, ma porterà il pane di Princi nelle caffetterie migliori del gruppo, le torrefazioni Starbucks Roastery di New York, Shangai e Seattle.

I quattro ragazzi italiani che hanno piegato il «Golia» di Facebook

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Dalla provincia lombarda hanno vinto una causa contro Zuckerberg. Che ha copiato un'idea

Milano Sono bei momenti, non c'è che dire. Quelli in cui il Golia californiano deve piegarsi all'inventiva del Davide di Cassina de' Pecchi, paesone presso Milano. Il gigante si chiama Facebook, fattura quasi sei miliardi di dollari. Il piccolo guerriero si chiama Business Competence e fattura due milioni e mezzo, meno di un millesimo; l'hanno messa in piedi tre ragazze - due milanesi e un abruzzese - e un pugliese loro coetaneo, entrati dieci anni fa nelle praterie allora quasi intonse dei software e delle app. L'altro ieri si sono tolti una soddisfazione. Sue due quotidiani, a spese di Facebook, è apparsa la sentenza che condanna Golia per avere rubato l'idea di Davide. La società di Zuckerberg, con le sue centinaia di cervelloni nella megasede di Menlo Park, ha scopiazzato l'idea dei ragazzi di Cassina de' Pecchi.

La sentenza di primo grado del tribunale di Milano è di maggio. Contro la decisione dei giudici, i legali di Facebook si sono battuti in ogni modo. Ma nelle scorse settimane è arrivata la batosta bis, forse definitiva: la Corte d'appello di Milano ha rifiutato al richiesta del colosso americano di sospendere l'esecutività della sentenza. La sentenza è stata pubblicata. E Facebook ha dovuto rimuovere la app che scopiazzò a Business Competence.

La app si chiama Faround, una delle creature affascinanti e a volte un po' inquietanti che accompagnano la vita di un possessore di smartphone: individua dove ti trovi, si ricorda i tuoi gusti, ti segnala negozi, bar e ristoranti vicino a te, ti riferisce i giudizi dei tuoi amici. Nel 2012 i milanesi la propongono a Facebook, i californiani la prendono in esame per verificare se funziona e se corrisponde alla loro policy. E poco dopo invece di arruolare Faround se ne escono con una app loro, praticamente identica, che chiamano Nearby. Anche i loghi si assomigliano. Le app sono addirittura «sovrapponibili», dice la sentenza del tribunale di Milano. I giudici parlano di «univoci e concordanti indizi» che si sia trattato di un plagio bello e buono: a partire dal tempo incredibilmente breve che scorre tra il giorno in cui gli italiani presentano agli americani il prototipo definitivo di Faround, alla fine di agosto, e il lancio da parte di Facebook della app sovrapponibile, il 18 dicembre. Troppo poco per sviluppare qualunque progetto autonomo. Gli americani avevano in mano i codici sorgente, e hanno «clonato il cuore» del programma italiano, si legge nelle carte del processo.

Facebook dopo che la sentenza è divenuta definitiva si è precipitata a rimuovere Nearby, anche perché altrimenti avrebbe dovuto pagare a Business Competence cinquemila euro al giorno; una seconda causa stabilirà il risarcimento che gli americani dovranno versare per il danno già fatto. I milanesi useranno anche quei soldi come gli altri che guadagnano: per creare e lanciare nuove idee come le ultime nate, Dogalize e Swascan, che parlano agli antipodi dell'utenza (la prima è una community per padroni di cani e gatti, la seconda una piattaforma di sicurezza per l'information technology). Intanto, la sentenza chiarisce un punto decisivo: qualunque siano le condizioni che un colosso come Facebook impone agli imprenditori indipendenti che chiedono di lavorare per esso, non potranno mai consentire a mr.Zuckerberg «un approfittamento parassitario del lavoro e degli investimenti altrui».


Riina a processo per minacce a direttore carcere di Opera

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Salvatore Riina, il Capo dei Capi, rinchiuso nell'ospedale di Parma, e connesso via tv con l'aula del tribunale di Milano dove si celebra un processo a suo carico

Per essere sicuri che sia davvero lui serve un atto di fede, perché la qualità del collegamento video è davvero pessima. Eppure è lui, non ci sono dubbi: Salvatore Riina, il Capo dei Capi, rinchiuso nell'ospedale di Parma, e connesso via tv con l'aula del tribunale di Milano dove si celebra un processo a suo carico. E quello che colpisce, nelle immagini che arrivano in aula, è che il Padrino è una larva. Rimane steso per tutta la durata dell'udienza, a gambe larghe, gli stinchi magrissimi che spuntano dai calzoni. Non muove la testa, non muove le gambe né le braccia. A guardarlo così, si direbbe che non manchi molto al giorno in cui gli toccherá raggiungere il suo successore Bernardo Provenzano, morto il 16 luglio scorso dopo dieci anni di carcere duro.
Il processo che si apre ieri a Milano é una inezia, rispetto ai crimini terribili per cui Riina sconta l'ergastolo: è accusato di minacce a pubblico ufficiale, per le frasi pesanti che - un po' in italiano, più spesso in dialetto - riservò nell'agosto del 2003 al direttore del carcere di Opera, dove era all'epoca detenuto, Giacinto Siciliano. Sono una parte delle intercettazioni ormai famose in cui, conversando durante l'ora d'aria con il detenuto Alberto Lorenzo, il boss se la prendeva un po' con tutti, dai magistrati palermitani al ministro Alfano: e non si è mai capito se fossero gli sfoghi di un ottantatreenne ormai non più lucido, o messaggi deliberatamente lanciati all'esterno, nella consapevolezza di essere intercettato. Tra i tanti, ce n'era anche per il direttore Siciliano, cui Riina raccontava di avere mandato avvertimenti espliciti: "Minchia il direttore lo ha capito quando gli ho detto 'state attenti a quello che fate.. perché io in queste cose ci vado a fondo e sicuramente la vinco".

Dell'esistenza delle minacce a Siciliano aveva parlato per la prima volta nell'agosto 2014 Giovanni Tamburrino, capo del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, aggiungendo che si stava valutando se mettere sotto protezione il direttore del carcere milanese. Nel frattempo, le intercettazioni venivano analizzate dalla Squadra Mobile del capoluogo lombardo, e ne sono scaturiti prima l'incriminazione e poi il rinvio a giudizio del boss corleonese. Il processo ora si ferma, in attesa che vengano trascritte da un perito tutte le conversazioni intercettate nel carcere. Per adesso quel che rimane impressa è l'immagine sfocata del vecchio detenuto. Magari, come ha fatto per buona parte della sua vita, Riina finge, dissimula. Magari, invece, il tempo sta presentando il suo conto anche a lui.

"Agnelli in contatto coi boss per i biglietti della Juventus"

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L'accusa del procuratore Figc Pecoraro: 5mila pagine di documenti. Il presidente: "Non li ho mai incontrati"

Lanciata in scioltezza verso lo scudetto numero 33, in piena corsa per la finale di Champions: e però col rischio di vedersi piovere addosso, nel giro di dieci giorni, una doccia ghiacciata dalla giustizia sportiva. A scaraventare la Juventus nell'inquietudine è ieri il procuratore federale Giuseppe Pecoraro, l'investigatore della Figc, che si presenta per un'audizione davanti alla Commissione parlamentare Antimafia. E racconta senza giri di parole che l'inchiesta della Procura di Torino sulle commistioni tra criminalità organizzata e capi ultras è transitata pari pari nelle carte della Federcalcio: comprese le tracce documentali di rapporti diretti tra esponenti di spicco della Juventus e malavitosi calabresi. Cinquemila pagine di documenti sono agli atti dell'ufficio inchieste, che intorno alla metà di marzo tirerà le sue conclusioni. Poiché si tratta di un terreno terribilmente minato, è comprensibile il nervosismo con cui le notizie sulla audizione di Pecoraro vengono accolte dai vertici della società bianconera, con Andrea Agnelli che si precipita a dichiarare alle agenzie «non ho mai incontrato i boss». Ma a parlare esplicitamente di contatti tra Agnelli e gli esponenti del clan Pesce è stato proprio Pecoraro davanti ai deputati e senatori dell'Antimafia. Tanto che il segretario della Commissione, Angelo Attaguile, annuncia che Agnelli dovrà comparire davanti ad essa per spiegare come e perché la sua società interloquisse con i malavitosi. «Chi sono - ha spiegato Pecoraro all'Antimafia - i dirigenti che hanno contatti con queste persone? Sono: il dottor Carugo, il dottor Merulla, il dottor D'Angelo e il presidente Agnelli. Anche il direttore generale Marotta ha avuto rapporti seppur occasionali con il mondo degli ultras ma non è stato coinvolto nella nostra indagine».

Ci sono, come è noto, alcuni contatti che la Juventus non può negare, anche se rivendica la loro liceità: sono quelli che vedono per protagonisti il capo della security bianconera, Alessandro D'Angelo, il capo della biglietteria Stefano Merulla e anche Marotta. Tema: l'offerta di biglietti alle tifoserie ultras in cambio della pace allo Juventus Stadium. Peccato che i club di curva fossero ormai di fatto una emanazione dei clan calabresi, in particolare dei Dominello di Rosarno. Il boss, Rocco Dominello, è in rapporti più che cordiali con il security manager D'Angelo. E sempre a Rocco arrivano in albergo i biglietti mandati personalmente da Marotta, con l'appunto «massima riservatezza».

Rapporti leciti, probabilmente inevitabili: così la Juve ha sempre giustificato l'imbarazzante situazione. Certo le cose cambierebbero se si scoprisse che gli 'ndranghetisti sono arrivati fino al rampollo di casa Agnelli. Ci fu il contatto? Ha ragione Pecoraro, che ne parla, o Agnelli che lo nega? Lo stesso Pecoraro a sera specifica: «Stiamo valutando le memorie difensive della Juventus. Tra l'altro ho chiesto che l'audizione fosse secretata».

L'orto di Albina e i 26 anni per «sfrattarlo»

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L'incredibile storia dei ricorsi contro il Comune per i capanni spuntati nel Parco Sud

Luca Fazzo

Niente da fare, via alle ruspe. C'è voluta la bellezza di ventisei anni, ma il Comune di Milano è riuscito a farsi dare ragione dal Tar nella sua interminabile lotta con i padroni degli orti della Scariona, ai confini con Cusago: lotta iniziata nel remoto 1991, sindaco Paolo Pillitteri. L'ordine di demolizione emanato allora, che disponeva di radere al suolo tutti i manufatti sorti sugli orti, ora potrà venire eseguito: a meno, ovviamente, di nuovi ricorsi.

È una vicenda che si perde nelle brume della burocrazia, quella raccontata nelle sentenze che il Tar deposita ieri: sentenze tutte più o meno uguali, che respingono in blocco tutti i ricorsi presentati dai padroni degli orti, e che travolgono manufatti di ogni genere. C'è chi sull'orto si è costruito una casa e ci abita, ma anche chi si è limitato a realizzare un piccolo capanno per riporvi gli attrezzi da giardiniere. Giù tutto.

Per capire come sia possibile che sia passato più di un quarto di secolo basta leggere una delle sentenze depositate ieri, quella che dà torto - come a tutti gli altri proprietari - anche alla signora Albina C. La signora aveva comprato insieme al marito il suo pezzetto di terra, nel cuore del Parco Sud, intorno al 1990, quando il vecchio padrone aveva deciso di spezzettarlo in tanti orti. Ognuno degli acquirenti recintò, come si usa, il suo fazzoletto, e realizzò un ricovero per gli attrezzi. Nel 1991 il Comune ordina a tutti di demolire; nel 1994 Albina e gli altri chiedono il condono, e il Comune ci mette addirittura dieci anni a dire di no, accusando gli ortisti di avere realizzato «una trasformazione permanente del territorio equivalente ad una lottizzazione abusiva del tutto incompatibile con l'uso agricolo del territorio».

La signora Albina e il marito impugnano immediatamente il diniego del Comune, sostenendo che loro (loro: perché altri ortisti si sono comportati più allegramente) hanno rispettato pienamente la destinazione agricola, che nell'orto altro non hanno fatto che coltivare cavoli e pomodori, e che la stessa legge istitutiva del Parco Sud prevedeva la possibilità di realizzare piccole costruzioni connesse all'attività. Se il Comune ci aveva messo dieci anni a dire di no, il Tar ce ne impiega ancora di più: il ricorso della Albina, datato dicembre 2004, viene esaminato nell'udienza del 31 gennaio scorso, ad oltre tredici anni dalla presentazione. E la signora si vede dare torto su tutta la linea. I giudici affermano che fin dall'inizio il «frazionamento dell'area era orientato allo stravolgimento della zona nel suo complesso», e che le colpe di chi sull'orto ha costruito la casa ricadono anche su chi si è limitato al capanno, perché «la finalità lottizzatoria va desunta dal complessivo comportamento tenuto da tutte le parti coinvolte». Giù tutto. E pensare che la Albina voleva solo coltivarci i pomodori.

L'inchiesta divide gli ultrà del Palazzo: "I deputati juventini non salutano più"

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Onorevoli pro e contro i bianconeri. Boccia: «Basta insinuazioni»

«Da quando abbiamo iniziato questa inchiesta, in Transatlantico ci sono deputati che non mi salutano più», si lamenta Angelo Attaguile, lista «Salvini per il Sud», segretario della commissione parlamentare Antimafia. I deputati che non lo salutano più sono tutti juventini. E l'inchiesta è ovviamente quella sui rapporti tra tifoserie ultras e criminalità organizzata, che coinvolge i supporter di molte squadre di A e B, ma che ha il suo piatto forte nel capitolo dedicato alla Juve, unico grande club sospettato di essere sceso a patti con ambienti malavitosi.

Che l'indagine dell'Antimafia stia creando malumori in Parlamento lo conferma, d'altronde, la dichiarazione rilasciata ieri dal deputato del Pd Francesco Boccia, leader del club bianconero di Montecitorio: una sparata ad alzo zero contro i colleghi della commissione, accusati di avere trasformato il Parlamento in «un luogo in cui rimbalzano non notizie ma insinuazioni» rischiando di arrecare «danni incalcolabili» a una società quotata in Borsa, cioè la Juve. Clima da curva, insomma, anche alla Camera.

Che quelle raccolte dall'Antimafia a carico della Juventus siano solo «insinuazioni», peraltro, appare difficile. Chi ha avuto modo di leggere gli atti segretati, le cinquemila pagine provenienti dall'inchiesta della magistratura torinese sulle cosche di Rosarno al nord, garantisce che gli elementi sono assai concreti. Non solo quelli che attestano rapporti quasi familiari tra dirigenti di primo piano del club bianconero e esponenti delle famiglie calabresi sotto inchiesta, ma anche il fatto più delicato e controverso, l'incontro diretto tra Andrea Agnellli e Rocco Dominello, fratello di un presunto esponente della ndrangheta. «Dominello è già perfettamente inserito nel mondo juventino - scrive la Squadra Mobile di Torino - vantando contatti diretti ed amicali non solo con dirigenti (da Marotta, direttore sportivo del club, a D'Angelo, security manager) ma anche con calciatori ed allenatori, all'epoca Antonio Conte». In un suo interrogatorio, è stato lo stesso Dominello a raccontare ai pm dii essere arrivato ad incontrare personalmente anche il presidente Agnelli: è questo l'incontro, tenacemente smentito dalla Juventus, che ha portato il procuratore della Federcalcio a mettere sotto inchiesta, insieme tre manager bianconeri, lo stesso Agnelli.

Il primo velo ad alzarsi sulle carte segretate sarà proprio quello dell'indagine della Federcalcio, che il procuratore federale Giuseppe Pecoraro si è impegnato a chiudere nel giro di dieci giorni. Per Agnelli, Marotta e gli altri dirigenti juventini indagati il rischio è un procedimento per avare contribuito «con finanziamenti o altre utilità» all'attività dei club ultras che secondo i pm di Torino erano la longa manus della 'ndrangheta.

Prima ancora della chiusura dell'indagine Fgci, un passaggio decisivo della vicenda sarà costituito dalla audizione di Andrea Agnelli davanti alla commissione parlamentare Antimafia. É un invito che il presidente juventino non potrà rifiutare, perché la commissione ha gli stessi poteri della magistratura. Non sarà un passeggiata, perché il nipote dell'Avvocato dovrà convincere l'Antimafia che l'incontro di cui si parla nelle carte non c'è mai stato. E magari anche spiegare perché i suoi manager di fiducia si dessero del tu con gli uomini dei clan.

"Corona si candidò come infiltrato per la procura di Milano"

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Fabrizio Corona prima di venire arrestato si era candidato a fare da "agente provocatore" per conto della procura di Milano e della polizia

Fabrizio Corona prima di venire arrestato si era candidato a fare da "agente provocatore" per conto della procura di Milano e della polizia. A rivelarlo questa mattina nell'aula del processo all'ex "re dei paparazzi" il commissario di polizia che nel settembre dello scorso anno realizzò la perquisizione dello studio di Corona durante il quale saltò fuori un tesoro di oltre un milione e settecentomila euro in contanti nascosto nel controsoffitto.
La auto candidatura di Corona al ruolo di infiltrato sarebbe scaturito dalla vicenda della bomba carta esplosa nei pressi della sua abitazione nell'agosto precedente. Corona successivamente aveva riferito di avere ricevuto una richiesta di 50mila euro da parte del calciatore Giuseppe Sculli, legato da rapporti di parentela con pregiudicati calabresi. Interrogato dal pubblico ministero David Monti nei locali della questura milanese, secondo quanto reso noto oggi dal funzionario, Corona aveva offerto di collaborare con gli inquirenti: "Doveva chiamare Sculli, provocarlo sulla bomba carta e farsi microfonare in vista dell'incontro con Sculli". L'offerta venne respinta, ma - secondo quanto affermato in aula dal legale di Corona, Ivano Chiesa - il PM Monti diede all'ex detenuto il suo numero di cellulare.

Il tema che fa irruzione nel nuovo processo a Corona, accusato di intestazione fittizia di beni per i soldi trovati nel suo controsoffitto, è quello assai delicato dei contatti con la criminalità organizzata e della estorsione che l'ex agente potrebbe avere subito. "La pista investigativa che noi abbiamo pensato di verificare era che ci fossero stati dei prestiti da Sculli a Corona", ha spiegato il commissario. Noi dopo il 16 agosto chiediamo i tabulati di Corona e Sculli e iniziamo le intercettazioni. Ma tra i due non ci furono contatti. E non abbiamo mai indagato su rapporti con ambienti di criminalità organizzata ". Ma una "informativa riservata" proveniente da una fonte anonima che si prepara ai vigili urbani nell'estate scorsa parla proprio di rapporti di Corona con ambienti malavitosi.

Consegnata l'area ex Falck ma appalto e opere bloccate

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Regione e Città metropolitana ricevono la superficie Impregilo impugna la gara, il Consiglio di Stato frena

Luca Fazzo

Il buco è enorme. Il buco più grosso che il vostro cronista abbia mai visto, va dal cuore dell'area Falck fino - laggiù, a perdita d'occhio - a ridosso della stazione ferroviaria di Sesto San Giovanni. Ma più enorme del buco è la follia burocratica. Leggi e codici prevedono che adesso il buco andrà riempito per poi essere di nuovo scavato. L'area della vecchia acciaieria è stata bonificata, ma le norme prevedono che venga consegnata «tombata», ovvero tutta raso terra. E amen se per farlo si consumeranno milioni di metri di altra terra scavata chissà dove, che verrà portata qui e poi di nuovo scavata per realizzare le fondamenta della Città della salute.

Ieri, l'area ripulita viene consegnata dai suoi ex padroni, ovvero la Milanosesto di Davide Bizzi, a quelli nuovi: Comune di Sesto, Regione, Città metropolitana. Il sindaco metropolitano Beppe Sala ringrazia - al pari della sestese Monica Chittò e del governatore Roberto Maroni - glissando amabilmente sul fatto che il suo predecessore Giuliano Pisapia si batté strenuamente perché il superpolo di cura del cancro si facesse altrove, cioè a Milano. Ma vinse l'insolita alleanza tra la rossa Sesto e la Regione verdeazzurra, venne scelta l'area della Falck, il progetto è partito e ha marciato. In otto mesi le ruspe di Bizzi hanno ripulito tutto, dove c'erano macerie e sterpi si è creata la grande buca, da ieri l'area da privata è pubblica. E adesso, ovviamente, rischiano di iniziare i dolori.

Dolori: perché tutto sarebbe pronto per aprire il cantiere, mezzo miliardo di spesa per il più grande polo di cura e ricerca oncologica d'Italia, ma i lavori non possono cominciare perché il Consiglio di Stato ha fatto saltare la gara d'appalto di Infrastrutture Lombarde vinta da Condotte d'Acqua e impugnata da Impregilo. Ieri, elmetto da cantiere in testa, Bobo Maroni spiega che la situazione non è poi tragica perché gli avvocati della Regione hanno steso un parere secondo cui non è necessario rifare l'appalto. «La sentenza non ha stabilito che dovesse vincere Impregilo, ha solo contestato alcuni meccanismi dell'assegnazione. Ma anche con gli aggiustamenti dettati dalla sentenza il vincitore è sempre lo stesso, quindi non serve rifare la gara». Però bisognerà vedere se il vincitore se la sentirà di cominciare a lavorare sapendo che anche il nuovo provvedimento della Regione potrebbe venire impugnato davanti al Tar: «Perché questo - allarga le braccia Maroni - è il paese dei ricorsi al Tar».

Il clima generale ieri era comunque di ottimismo se non di entusiasmo. Il ministro dell'ambiente Galletti spiega che lui di «siti di interesse nazionale», ovvero di rogne come la Falck, deve gestirne cinquanta, «questa era la più vasta e la più inquinata», e se in otto mesi è stata ripulita «questa giornata la intitolerei Allora si può fare». Qui arriveranno l'Istituto dei tumori e il Besta, ma non solo: in seconda fila c'è Livia Pomodoro, consigliere dell'università della Bicocca, e spiega che il progetto è di creare qui una scuola di specialità post laurea in oncologia insieme alla Statale. Maroni aggiunge che altri quindici milioni finanzieranno sull'area progetti innovativi legati anch'essi alla cura dei tumori.

Tutto questo viene illustrato sotto le grandi tettoie d'acciaio del T3 e del treno laminatoio, i reparti dell'acciaieria che per un secolo sfornarono tonnellate di metallo fuso, e che continueranno a svettare anche sull'area recuperata, sul grande nuovo quartiere che sorgerà tutto intorno. Ma il primo pezzo sarà la Città della salute. «E poiché voglio vederla finita - dice Maroni - mi toccherà ricandidarmi alle elezioni: sperando che mi rieleggano».

Kroll, quella di Tronchetti «è stata una legittima difesa»

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La corte d'Appello: «I brasiliani la avevano spiato»

Luca Fazzo

Nella aspra contesa per la conquista di Tim Brasil, Marco Tronchetti Provera fu vittima di incursioni nella vita privata sua e dei suoi familiari, spiati e dossierati dalla agenzia Kroll, tali per cui la denuncia che l'imprenditore depositò ai carabinieri il 24 settembre 2004 fu una attività di pura legittima difesa. Sono queste le motivazioni - depositate ieri - con cui la Corte d'appello di Milano ha assolto per la seconda volta l'attuale presidente di Pirelli dall'accusa di ricettazione: vicenda ormai remota, ma per la quale Tronchetti ha rinunciato alla prescrizione. Tutto ruota intorno ai dati che l'ufficio security di Telecom «succhia» in Brasile dai computer della agenzia di investigazioni Kroll, e che dimostrano che la Kroll spiava Tronchetti su ordine dei suoi concorrenti brasiliani. Tronchetti era accusato di essersi fatto inviare in busta anonima il cd, pur conoscendone la provenienza illecita, poi allegandolo alla denuncia che Telecom invia ai carabinieri di Milano e alla polizia brasiliana.

Secondo la sentenza depositata ieri, era in corso «una imminente lesione dei diritti soggettivi del Tronchetti Provera e dei suoi familiari nell'ambito di un progetto mirante al discredito di Telecom, da portarsi a termine anche con mezzi illeciti (interferenze nei segreti aziendali e nella vita privata dei rappresentanti di Telecon, calunnie o diffamazioni) nei confronti dei personaggi più in vista o dei loro familiari». Ricevere e utilizzare il cd che documentava le operazioni di Kroll fu dunque, dice la sentenza, «legittima difesa: «la difesa appariva proporzionata all'offesa». E sporgere la denuncia senza usare il cd «avrebbe potuto risolversi in un nulla di fatto o addirittura in una incriminazione per calunnia».


"Non fu il controllo dei biglietti a scatenare l'assalto col machete"

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Ecco perché i giudici d'Appello hanno abbassato le pene ai salvadoregni che ferirono gravemente il capotreno

Condanne limate per una sottigliezza giuridica, ma comunque pesanti: e così solidamente motivate da rendere quasi certo che i tre colpevoli non torneranno in circolazione tanto presto. Dato confortante, visto che si tratta degli imputati dell'aggressione a un capotreno delle Ferrovie Nord, che per avere osato chiedere il biglietto a un gruppo di giovani salvadoregni venne pestato selvaggiamente e poi colpito con un machete fin quasi ad amputargli un braccio. Avvenne alla stazione di Villapizzone delle Nord, la sera dell'11 giugno 2015.

Ieri i giudici della Corte d'appello hanno depositato le motivazioni della sentenza con cui l'11 gennaio avevano rivisto all'ingiù le condanne inflitte in primo grado a Ernesto Rosa Martinez, Jackson Lopez Trivino e Andres Lopez Barraza (rispettivamente: l'esecutore materiale, il suo collaboratore nel pestaggio, il padrone del machete). La sentenza aveva destato qualche perplessità perché a ogni imputato erano stati tolti un paio d'anni di pena grazie alla scomparsa dell'aggravante dei futili motivi. Cosa c'è di più futile che amputare un braccio perché si viaggiava senza biglietto? In realtà la lettura della sentenza spiega che l'aggressione non va collegata al controllo dei biglietti, avvenuto diversi minuti prima e ormai risolto, ma alla provocazione che uno dei ragazzi mette in atto al momento di lasciare il treno, accusando il capotreno Riccardo Magagnin di averlo urtato e pretendendo le sue scuse.

Poco cambia, anche senza l'aggravante: a Rosa Martinez vengono inflitti dodici anni, a Lopez Barraza dieci, a Loez Trivino quattordici. I giudici spiegano anche perché non hanno creduto al tentativo di Rosa Martinez di prendere su di sè tutte le colpe, sostenendo di essere il padrone del machete e cercando di scagionare l'amico Lopez Barraza, detto Pajaro loco, ovvero «uccello pazzo», che lui stesso aveva indicato nei primi verbali come proprietario della micidiale arma. Rosa Martinez sostiene che quando aveva accusato l'amico, subito dopo l'arresto, era ancora «un po' ubriaco»: ma «la sbornia gli era certamente passata il 14 giugno», quando venne interrogato di nuovo e confermò la sua versione. La ritrattazione successiva per i giudici potrebbe nascere dal «timore di reazioni da parte dell'imputato da lui direttamente chiamato in causa».

Gli altri tre ragazzi presenti, che non partecipano all'aggressione, sono stati invece assolti perché «la condotta criminosa non era stata concordata in precedenza» e quindi non possono essere accusati neanche di «concorso morale».

LF

Impunità per i devastatori Nessuno finisce in carcere

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I black bloc di Napoli rischiano poco: i giudici hanno lasciato a piede libero chiunque abbia distrutto le città

Possono dormire tranquilli. I guaglioni che sabato hanno messo Napoli a ferro e fuoco per contestare il comizio di Matteo Salvini forse non verranno mai identificati. Ma se invece - grazie alle tecnologie moderne e all'impegno di qualche poliziotto - dovesse scoprirsi chi si nascondeva dietro le maschere da Pulcinella, se si riuscisse dare un nome a chi ha incendiato le auto, lanciato bombe carta sulla polizia, terrorizzato una città, in galera non ci finirà nessuno. Se qualcun verrà arrestato, ci resterà ben poco, il tempo per venire scarcerato in attesa di giudizio, e vedere poi derubricate le accuse a reati da pochi mesi: sospensione condizionale, affidamento ai servizi sociali, e un augurio di ravvedimento.

A rendere scontato questo esito del sabato di violenza di Fuorigrotta è, semplicemente, l'analisi dei precedenti. In un paese dove le imprese dei black bloc e degli antagonisti a mano armata si ripetono con frequenza e con copioni sempre uguali - cambiano solo la città e il pretesto - la risposta giudiziaria è ispirata sovente all'indulgenza: tanto che si contano sulle dita di una mano i violenti finiti a espiare la loro pena. Sono in carcere Marina Cugnaschi, Francesco Puglisi e Alberto Funaro, condannati (forse fin troppo duramente) per il G8 di Genova; è in carcere Davide Rosci, protagonista degli assalti alle forze dell'ordine a Roma nell'ottobre 2011; a Milano è finito dentro uno dei condannati per una delle giornate peggiori del capoluogo lombardo, la guerriglia in corso Buenos Aires nel marzo 2006: ma solo perché dopo avere ottenuto l'affidamento ai servizi sociali ha preferito non presentarsi.

Per il resto, tutti allegramente a piede libero. È libero Fabrizio Filippi detto er Pelliccia, quello immortalato a Roma mentre lanciava un estintore sulla polizia; libero Marco Ventura, che durante il corteo no Expo del Primo Maggio a Milano prese a bastonate insieme ad altri un poliziotto steso a terra e indifeso; liberi qua e là per il paese una quantità di habitué del cappuccio nero identificati con certezza e con altrettanta certezza miracolati dal garantismo dei giudici.

Quasi mai si tratta di assoluzioni con formula piena, va detto. La mossa vincente dei difensori degli antagonisti è quasi sempre quella di far cadere l'accusa di devastazione, l'unica che il codice penale colpisce con una certa severità. Sparita la devastazione, a carico degli imputati restano reati come il danneggiamento o la resistenza a pubblico ufficiale che consentono facilmente di restare sotto la magica soglia dei tre anni di condanna: niente carcere, e affidamento in prova per essere rieducati e reinseriti nella società (sarebbe interessarne indagare sulle modalità e sull'esito di tali rieducazioni).

Il problema è che ai giudici il reato di devastazione non piace, e lo usano con grande parsimonia: dei cinque estremisti milanesi incriminati per il corteo No Expo del 2015, uno solo è stato condannato per questo reato, agli altri accuse ridotte e condanne blande; la Procura ha impugnato le assoluzioni spiegando che «ogni facinoroso aveva la chiara percezione del contributo materiale e morale dato con la propria condotta al complessivo ampio scenario di devastazione»; bisognerà ora vedere cosa ne pensano i giudici d'appello. Nel frattempo, tutti liberi, in attesa del prossimo corteo.

Il partito dei centri sociali tra affari, trame e coperture

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I sindaci Pd e M5S li coccolano, legittimando le violenze: cedono palazzi, pagano bollette e tollerano l'illegalità

Non sono solo i giudici a essere comprensivi verso i «duri» dei centri sociali. Se nelle aule di tribunale gli antagonisti vengono quasi sempre condannati a pene abbastanza lievi da evitare il carcere, anche se hanno messo a soqquadro una città e aggredito le forze dell'ordine, altrettanta disponibilità incontrano spesso da parte delle amministrazioni locali che scendono a patti con loro. Affitti simbolici, bollette pagate, occupazioni tollerate, convenzioni, bandi su misura. È lungo l'elenco delle cortesie che sindaci di molte città riservano ai centri dell'ultrasinistra, anche quando sono documentati i loro rapporti con violenze e altre illegalità. Un rapportO in cui i sindaci impiegano risorse pubbliche per garantirsi due contropartite importanti: la pace sociale o l'appoggio elettorale. A volte tutti e due.

A scendere a patti con gli estremisti sono quasi sempre sindaci di giunte di sinistra. Ma a Torino anche la giunta grillina di Chiara Appendino sta continuando e rafforzando la liaison avviata dai sindaci Pd che l'hanno preceduta: Radio Black Out, megafono dell'autonomia e dei No Tav, è ospitata a canone dimezzato in uno stabile comunale, 569 euro di affitto. E i grillini vanno oltre: hanno candidato nelle loro liste una esponente del centro sociale «Gabrio», Maura Paoli, che si è spesa di recente in difesa dei coltivatori di marijuana scoperti dalla polizia all'interno del centro.

Da nord a sud, i casi di feeling sono numerosi. C'è chi, come il sindaco napoletano Luigi de Magistris, ostenta e rivendica (già da prima della baraonda di sabato scorso) i suoi buoni rapporti con «okkupanti» e rivoluzionari, che si sono impadroniti di una sfilza di stabili comunali con il silenzio-assenso della giunta: compreso l'ex asilio Filangieri, per il quale il Comune ha speso sette milioni per ristrutturare. De Magistris ha fatto dichiarare «bene comune» gli stabili occupati: in cambio i caporioni dei centri sociali nel settembre 2016 scortarono il sindaco a Roma a protestare contro il risanamento di Bagnoli.

Continua a tubare con gli ultras la «rossa» Bologna: i centri sociali Tpo, Xm24, Lazzaretto e Vag61 sono tutti legati da convenzioni al Comune; dopo l'ira di Dio scatenata nelle strade il 18 ottobre, il sindaco Virginio Merola ha annunciato lo sfratto di uno di loro, l'Xm24, che però ha già fatto sapere che non se ne andrà: e intanto domenica scorsa ha fatto impazzire gli abitanti del quartiere della Bolognina con un rave durato fino all'alba. La strada era stata segnata d'altronde dal filosofo Massimo Cacciari quando era sindaco di Venezia, e scese a patti con gli sfasciavetrine del centro sociale «Rivolta». Dove non ci sono convenzioni firmate, i Comuni soccorrono gli ultras pagando le loro bollette con i soldi dei cittadini o permettendo che non siano pagate. A Treviso il sindaco Pd paga le bollette del centro «Django», a Torino la Appendino paga acqua e luce al «Gabrio; a Roma la grillina Raggi non fa staccare la luce a case occupate e centri sociali che hanno accumulato - secondo un'inchiesta del Tempo - un arretrato di 12,6 milioni; a Caserta il sindaco renziano Carlo Marino ha fatto riattaccare la luce (non a spese sue) al centro sociale «Canapificio». E via di questo passo.

Si dirà: piccole agevolazioni. Ma che di fatto legittimano comportamenti fuorilegge, e non solo quando gli ultras scatenano violenze che devastano le città: ma tutti i giorni, nel commercio illegale di cibi, bevande, droghe leggere, che avviene all'interno di centri diventati aziende a tutti gli effetti (tranne a quelli fiscali). E qui il caso più vistoso è quello di Milano, dove di sgomberare il Leoncavallo non si parla più: il patto di scambio (a spese del pubblico demanio) offerto agli autonomi dal sindaco Pisapia è ufficialmente ancora sul tavolo, il sindaco Sala non dà segni di voler affrontare la faccenda; anzi permette che uno stabile di proprietà comunale, nell'ex mercato di viale Molise, venga occupato a costo zero dal centro sociale «Macao». E gli paga pure le utenze.

Truffò disabile in carrozzina. L'impostore evita il carcere

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Il paraplegico raggirato con la promessa di una cura Spariti i risparmi di una vita. Ma la pena è minima

Provate pure a imbrogliare uno sventurato, un ragazzo ridotto su una sedia a rotelle, e a portargli via tutto quello che possiede illudendolo con speranze di guarigione: malchevada, se vi beccano, dovrete solo restituire il maltolto e ve la caverete con una pena quasi simbolica.

È questa la triste morale della conclusione, celebrata ieri mattina in tribunale, di una brutta storia iniziata due anni fa, quando il sostituto procuratore Luca Poniz fa arrestare un imprenditore milanese, Tiziano Perfetti, e due suoi collaboratori. Le indagini dei carabinieri avevano permesso di scoprire che Perfetti aveva messo in atto una truffa spietata ai danni di Marco S., un giovane rovinato per tutta la vita da un incidente stradale che a vent'anni lo ha reso paraplegico. Dalla assicurazione del veicolo che lo aveva investito, Marco aveva ricevuto un risarcimento di un milione e mezzo di euro. Una bella somma, ma che non restituiva al ragazzo l'unica ricchezza che desiderava: tornare a camminare.

È qui, nei desideri di un ragazzo reso fragile dalla malattia, che si materializza Tiziano Perfetti. L'uomo è titolare di una società di Novara, la Ksi (che sta per Kafka Servizi Internazionali) specializzata nel propagandare invenzioni mirabolanti: nel 2013 avevano annunciato il lancio sul mercato della «No-Plug», la prima automobile elettromagnetica del mondo, di cui ovviamente non si è vista la traccia.

Perfetti si presenta bene, ha la parlantina sciolta. A Marco spiega che c'è una azienda svizzera che ha messo a punto una cura in grado di farlo camminare di nuovo, e lo convince investire tutti i suoi risparmi nella ditta elvetica. La cura però non c'è, e l'azienda è sostanzialmente una scatola vuota. Di fatto, il giovane milanese viene depredato di tutto. Quando la Procura apre l'inchiesta, il pm Poniz decide di usare le maniere forti. Per il reato di truffa di solito non potrebbero scattare le manette, ma in questo caso ci sono due aggravanti: l'entità del «bidone» e soprattutto la debolezza della vittima, di cui Perfetti è accusato di essersi approfittato.

Il businessman finisce in cella insieme a due suoi collaboratori. La sua linea di difesa è semplice: negare tutto. Non c'è stata nessuna truffa, è stato Marco a voler investire tutti i suoi risparmi nella inverosimile scoperta, spiega agli investigatori. Ma intanto Perfetti, pur proclamandosi innocente, cerca di limitare i danni, e restituisce al giovane invalido tutti i soldi che gli ha gabbato. Il ragazzo a quel punto revoca la costituzione di parte civile, e il processo a Perfetti si risolve quasi in un nulla di fatto: ieri mattina la terza sezione del tribunale condanna l'imprenditore a un anno e otto mesi di carcere per truffa aggravata: poco più del minimo della pena. Il colpevole non finirà in carcere, a meno che non incassi altre condanne: cosa che potrebbe anche accadere, visto che domani in tribunale è atteso da un altro processo: anche questo per truffa. Stavolta, per fortuna, a una vittima meno sventurata di Marco S.

Carcere, guerra alle "bionde" Ma il Tar dà torto agli agenti

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Le guardie denunciano la direzione per il fumo passivo I giudici assolvono: negli spazi comuni i divieti ci sono

Nel luogo chiuso per eccellenza, il carcere, la libertà di sigaretta può essere una delle poche libertà possibili, un piccolo diritto cui è difficile rinunciare; però anche i diritti dei non fumatori diventano più difficili da tutelare, perché dalle esalazioni moleste non ci sono vie di fuga; e dunque l'eterna disputa tra salutisti e tabagisti diventa ancor più aspra che «fuori», oltre le sbarre. Al punto che un trentotto agenti penitenziari in servizio al carcere di Bollate hanno fatto causa al ministero della Giustizia chiedendo «misure idonee a prevenire il rischio derivante dal fumo passivo», nonché il risarcimento dei danni alla salute subiti finora. Gli agenti si sono rivolti al Tar, che però ha dato loro torto quasi su tutta la linea. La direzione, dice la sentenza, ha fatto la sua parte: il resto attiene all'indisciplina di chi in nome della nicotina viola i divieti.

Le carceri sono l'unico luogo pubblico chiuso dove il divieto di fumo non è assoluto: nelle celle (che la sentenza chiama «camere detentive») la sigaretta è permessa, e di fatto si creano - per evitare conflitti - celle per fumatori e non fumatori. Negli spazi comuni vige la regola consueta: divieto, salvo gli spazi appositi.

Nel loro esposto, i trentotto agenti sostengono che di fatto i divieti vengono largamente disattesi: «il divieto di fumare non sarebbe mai stato rispettato nè, sino a dicembre 2014, sarebbero mai state applicate sanzioni per tale violazione (...) nei reparti detentivi la salubrità dei locali sarebbe fortemente compromessa; vi sarebbero mozziconi di sigaretta in tutto l'istituto; non esisterebbero adeguati impianti di aerazione per favorire il ricambio d'aria nei luoghi dove sono presenti i fumatori; vi sarebbero luoghi e stanze privi di finestre (..)».

In realtà, secondo i giudici del Tar, la direzione del carcere ha fatto il possibile, emanando due ordini di servizio e «vietando il fumo in una serie di locali utilizzati da tutta la comunità carceraria, dagli uffici ai corridoi alle salette della socialità (...) la possibilità di fumare è stata consentita ai detenuti nelle camere detentive, prevedendo ricambi d'aria e aperture delle finestre delle stanze»; ha cercato cioè di «contemperare i contrapposti interessi, di tutela della salute dei non fumatori e di una libertà personale dei detenuti». Le foto di cumuli di mozziconi depositate dagli avvocati degli agenti dimostrano solo che troppa gente (detenuti o guardie) non rispetta la legge. Ma la direzione non può essere accusata di inerzia, visto che in due anni ha fatto partire 112 contestazioni al divieto di fumo, che per i detenuti rischiano anche di allontanare liberazione e benefici. Nessun risarcimento dunque: anche perché, curiosamente, alcuni agenti che hanno firmato l citazione sarebbero anch'essi «accaniti fumatori».

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