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Lo stragista di Piazza della Loggia arrestato nel santuario di Fatima

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Maurizio Tramonte condannato all'ergastolo in via definitiva

Erano già partiti gli allarmi sulla «beffa allo Stato», sulle coperture, eccetera: invece Maurizio Tramonte, condannato all'ergastolo martedì sera per la strage di piazza della Loggia, se n'era andato da solo e senza appoggi evidenti tranne quello della moglie. E una manciata di ore dopo l'avvio delle ricerche è stato fermato dalla polizia portoghese a Fatima, su indicazione dei carabinieri del Ros. Che da settimane non lo perdevano d'occhio, in vista dell'udienza in Cassazione che poteva rendere definitiva la sua condanna.

Ed effettivamente martedì, dopo quattro ore di camera di consiglio, la Cassazione ha confermato: ergastoli per Tramonte e per il medico Carlo Maria Maggi, entrambi neofascisti, colpevoli di avere partecipato all'organizzazione della strage di piazza della Loggia, a Brescia, nel maggio 1974. Ieri mattina la procura generale di Milano, titolare dell'ultima puntata del complesso iter processuale sulla strage, fa partire gli ordini di esecuzione. Maggi, ormai ultraottantenne, malato, viene raggiunto dal mandato di arresto nella sua casa veneziana: è verosimilmente destinato a scontare la condanna ai domiciliari o in una struttura ospedaliera. Di Tramonte, 65enne, che abita e lavora a Brescia invece a casa e in ufficio non c'è l'ombra. Anche il suo avvocato dice ai giornalisti: «É da giorni che non lo sento, non so dove sia». Così parte il panico. Anche la Procura generale di Milano fa sapere di ignorare la sorte di Tramonte.

Invece i carabinieri non lo avevano mai perso di vista. Viene catturato ieri mattina, all'uscita del santuario di Fatima, dove si era recato a pregare: perché, e questo è un dato di fatto, l'ex estremista nero è oggi un cattolico fervente. Ma che si trattasse dell'inizio di una fuga appare innegabile. Tramonte tre giorni fa ha lasciato Brescia in automobile e si è recato in Francia, qui è stato raggiunto dalla moglie e ha fatto scambio di vettura, quindi è proseguito per la Spagna e poi per il Portogallo dopo avere disattivato il Telepass e sconnesso il telefono cellulare. In Portogallo aveva messo in atto tecniche raffinate di contropedinamento, che però non sono state sufficienti a toglierlo dal mirino del Ros: il reparto che era stato creato (allora si chiamava Nucleo speciale antiterrorismo) per volere del generale Dalla Chiesa appena sei giorni prima che in piazza della Loggia la bomba neofascista uccidesse otto persone durante una manifestazione sindacale.

La strage ebbe per la giustizia un primo colpevole, Ermanno Buzzi, ucciso poi da altri neofascisti in carcere; molti anni dopo si tornò a scavare, sulla base di quanto a Milano il giudice istruttore Guido Salvini andava scoprendo nel mondo della eversione nera indagando sulla strage di piazza Fontana del 1969. Le inchieste bis sulle due stragi sono viaggiate parallelamente, avendo in comune molte fonti di prova e alcuni indagati, tra cui Maggi e Delfo Zorzi. Ma mentre l'inchiesta su piazza Fontana finiva in nulla, a Brescia - al termine di un percorso accidentato, segnato da assoluzioni e annullamenti - alla fine Maggi e Tramonte (all'epoca informatore dei servizi, nome in codice «Tritone») sono stati condannati. Entrambi si proclamano innocenti.


Sesto, patto Pd-Legambiente Addio alla «Città della salute»

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Il sindaco «minaccia» di portare in giunta Di Simine, il verde nemico giurato del maggior progetto della città

Luca Fazzo

É l'unica grande operazione imprenditoriale in corso a Sesto San Giovanni, l'unico progetto in di portare occupazione e sviluppo in una città pesantemente segnata dalla deindustrializzazione. Ma ora la Città della Salute, il grande polo sanitario di cura e ricerca destinato a sorgere sulla ex area Falck, fa bruscamente irruzione nelle elezioni che domenica prossima dovranno scegliere il prossimo sindaco di Sesto. E rischia di costituire una brutta rogna per Monica Chittò, sindaco uscente, Pd, aggrappata ad un esiguo vantaggio sul rivale di centrodestra Roberto Di Stefano.

Accade infatti che per rafforzare il cartello che la sostiene, la Chittò annuncia di avere aggiunto due nomi alla lista degli assessori che la affiancheranno in caso di vittoria: Carlo Moro, ex funzionario di polizia, che si occuperà di sicurezza; e l'ex segretario lombardo di Lega Ambiente, Damiano Di Simine, destinato ad occuparsi di ecologia e territorio. Peccato che Di Simine sia un nemico giurato della Città della Salute e dell'intero progetto di recupero della ex Falck, che considera soltanto una gigantesca speculazione. Per cui in caso di vittoria l'alternativa è secca. O Di Simine si rimangia tutto quello che ha detto finora, o il megaprogetto rischia d i finire intoppato.

Eppure Monica Chittò, e prima di lei il suo predecessore Giorgio Oldrini, hanno sempre difeso strenuamente il piano di portare a Sesto il polo sanitario che riunirà i l Neurologico Besta e l'Istituto dei Tumori, da tempo soffocati in sede anguste e vetuste e in cerca di nuova collocazione: e il 9 marzo scorso la Chittò era in prima linea a ricevere dal proprietario Davide Bizzi le aree bonificate dove sorgerà l'ospedale. Così a Sesto (e non solo) ha destato un certo stupore la decisione del sindaco di imbarcare nel suo staff il «verde»Di Simine.

Nel luglio 2014, intervistato dall'Espresso nell'ambito di una inchiesta sui recuperi delle aree industriali, Di Simine era stato assai critico verso l'operazione progettata a Sesto. Aveva prima di tutto messo in dubbio l'efficacia delle operazioni di bonifica: «Quello che ci preoccupa - aveva detto - è che non si è in vista di una operazione di risanamento trasparente. In quelle aree dismesse ci sono inquinanti in quantità enormi. Bisognerebbe fare dei ragionamenti molto attenti e muoversi con più cautela». Adesso la bonifica è stata fatta, controllata e certificata: ma ad essere indigesto a Di Simine era l'intero progetto.

«La Città della Salute - aveva detto - è una speculazione che si aggiunge a una speculazione, il progetto di Renzo Piano arriva su un disegno di recupero urbanistico che era già stato fatto, sottraendo spazi verdi. Per cosa, poi? Per portare ospedali che stanno benissimo dove si trovano adesso». Parole che erano sembrate fuori dal mondo a pazienti e medici dei due ospedali milanesi, che ben conoscono le carenze strutturali di entrambi, e che mai direbbero che «stanno benissimo dove si trovano adesso». E che a Sesto San Giovanni erano suonate come un tentativo di mettere i bastoni tra le ruote ad un progetto cui tutta la città guarda con speranza: anche perché di verde per adesso alla ex Falck ce n'è ben poco, a meno che non si voglia considerare tale la distesa di arbusti cresciuta selvaggiamente sull'area della vecchia fabbrica.

L'intervista di Di Simine ovviamente rispunta fuori ieri, dopo l'annuncio del suo ingresso nella squadra della Chittò. Il candidato moderato Roberto Di Stefano la recupera e la rilancia: «La Città della Salute rischia di saltare se Monica Chittò verrà confermata sindaco». Per Di Stefano quelle dell'assessore in pectore sono «parole chiare e inequivocabili che, dopo tutto l'impegno messo dalla Regione Lombardia per portare a Sesto San Giovanni quest'opera, rischiano di vanificarne la realizzazione».

La moglie di Brega Massone «Ora si sa, non è un mostro»

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La consorte del chirurgo della clinica degli orrori in carcere per omicidio: «Lui trattato peggio di Riina»

Luca Fazzo

«Da oggi, comunque vada a finire questa storia, è chiaro per tutti che mio marito non è il mostro che si è voluto dipingere. La Cassazione ha stabilito che non ha mai voluto uccidere nessuno. Questo è importante per lui, per me, e per mia figlia che porta il suo nome».

Barbara Brega Massone ieri mattina è andata in carcere ad Opera a trovare suo marito Pierpaolo, il chirurgo della clinica Santa Rita: divenuta per l'opinione pubblica «la clinica degli orrori», al punto di dover cambiare nome; mentre lui, Brega Massone, diventava il primo medico nella storia d'Italia e forse del mondo condannato all'ergastolo per omicidio volontario. A causare il decesso di quattro pazienti, operati ai polmoni e morti poco dopo, per i giudici di Milano non erano stati errori o avventatezze, ma il cinico piano criminale di un medico che puntava a aumentare il suo reddito mettendo in conto la morte dei paziente. Ergastolo, dunque: «Non venne giudicato ma giustiziato», ha detto nella sua arringa Titta Madia, uno dei difensori di Brega.

Vi aspettavate l'annullamento della condanna, signora?

«Da un lato sì, per come conosciamo questa vicenda: la condanna all'ergastolo era troppo ingiusta e troppo scorretta. Ma avevamo anche molta paura, perché finora avevamo avuto cinque sentenze e tutte negative. Se anche stavolta fosse andato male basta, era la fine, la morte civile».

Come ha vissuto questa attesa Pierpaolo Brega?

«Molto male. Era arrivato abbastanza alla frutta, insofferente, intollerante, reagiva male, si sentiva preso di mira, oggetto di provocazioni. Quando venne condannato all'ergastolo si presentò al carcere di Bollate, invece dopo cinque giorni la Procura lo fece trasferire a Opera dicendo che Bollate è un carcere premiale e che lui non aveva fatto niente per meritarselo. Lo hanno trattato peggio di Totò Riina».

Tra qualche mese ci sarà un nuovo processo, cosa si aspetta?

«Gli scenari sono tanti: errore medico, omicidio colposo, omicidio preterintenzionale. Di certo non potranno più ridargli l'ergastolo, e questo significa che essendo in carcere da nove anni, avendo diritto all'indulto e agli sconti di pena, tra un po' Pierpaolo comincerà a vedere la fine del tunnel. Ma per lui e per noi è ancora più importate il riconoscimento che mio marito non è un assassino. Per arrivare a condannarlo i giudici milanesi avevano dovuto fingere di non vedere interi pezzi del processo, a partire dai nostri consulenti, che hanno testimoniato come le operazioni fatte da mio marito fossero quelle che in scienza e coscienza avrebbero fatto anche loro. E se i consulenti dell'accusa erano prestigiosi, i nostri erano prestigiosissimi: oltre a essere disinteressati perché non hanno preso un soldo».

Nuova accusa per Sala Ma il sindaco paga la guerra interna tra pm

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I magistrati di Milano non mollano l'ex ad di Expo: ora gli contestano la turbativa d'asta

Il cerchio si chiude intornoa Beppe Sala appena tre giorni dopo che la stessa sorte era toccata a Virginia Raggi: i sindaci delle due città più importanti del paese si trovano a fare conti con la fine delle indagini da tempo in corso contro di loro, e con la decisione della magistratura inquirente di portarli verso il processo. Anche a Milano, come a Roma, l'ultimo atto avviene in un clima reso pesante da fughe di notizie e dall'ombra di scontri interni alla magistratura.

A Sala l'atto conclusivo dell'inchiesta sugli appalti Expo viene notificato ieri. Era una mossa che ormai il sindaco si aspettava, dopo che il suo difensore aveva fatto visita al procuratore generale Felice Isnardi, titolare del fascicolo: e ne era uscito rassegnato al peggio. Ma ieri su Sala piomba una botta inattesa: la Procura generale lo avvisa di avere raccolto prove a sufficienza contro di lui non solo per il reato di falso in atto pubblico, noto da tempo, ma anche per l'accusa di turbativa d'asta: un nuovo fronte investigativo, aperto dalla Procura generale dopo avere avocato l'inchiesta, sottraendola alla Procura della Repubblica, in implicita ma aperta polemica contro il trattamento morbido che Sala e Expo in generale avrebbero ottenuto dalla Procura quando era gestita da Edmondo Bruti Liberati. Di fatto Sala si trova al centro di uno scontro tra le diverse anime della magistratura milanese, e rischia di pagarne le conseguenze.

Per l'accusa di falso in atto pubblico il provvedimento notificato ieri a Sala non aggiunge nulla a quanto già si sapeva: si tratta del verbale di nomina della commissione aggiudicatrice dell'appalto più importante di Expo, quello per la piastra, rifatto e retrodatato da Sala per non dover riconvocare una seduta. Sia la Guardia di finanza che la Procura all'epoca avevano ritenuto il falso innocuo. Ma per la Procura generale non cambia nulla, il reato c'è comunque.

Privo di conseguenze, leggendo con attenzione l'atto notificato a Sala, rimane in realtà anche il secondo episodio: lo stralcio dall'appalto della piastra della fornitura degli alberi per il sito di Expo, effettuato senza ribassare il valore dell'asta. Secondo la Procura generale, l'operazione venne fatta da Sala su input di «ambienti politici della Regione» per favorire i vivaisti lombardi; per ottenere il verde a costo zero, Expo vara poi una gara separata vinta da una cordata di cui fanno parte i vivaisti Peverelli come fornitori e come sponsor la Sesto Immmobiliare, impegnata nella realizzazione della Città della Salute a Sesto San Giovanni. Valore, cinque milioni. La Procura generale ipotizza uno scambio di fatto tra la sponsorizzazione a Expo e il via libera al cantiere di Sesto. Ma a pagina 17 dà poi atto che l'operazione non va in porto, e il verde di Expo viene comprato a una cifra ben più bassa.

Sotto accusa, insomma, sembrano essere più che operazioni criminali la spregiudicatezza di fondo in cui, in nome della emergenza Expo, vennero saltate le procedure. Ma la botta di immagine per Sala è forte. Il sindaco dichiara «profonda amarezza», rivendica l'operato su Expo, e manifesta la sua intenzione di andare avanti. Intanto dovrà scegliere se presentarsi in Procura generale per dare le sue spiegazioni, in un ultimo (ma disperato) tentativo di evitare la richiesta di rinvio a giudizio.

Expo, alberi e favori Tutte le ombre del caso che inguaia Beppe Sala

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L'appalto doveva andare ai vivaisti lombardi Ma alla fine lo sponsor Bizzi si tirò indietro

Uno scambio bello e buono: la fornitura degli alberi per il sito di Expo in cambio del via libera al cantiere della Città della Salute a Sesto San Giovanni. É questo lo scenario che il procuratore generale Felice Isnardi contesta nell'atto conclusivo delle indagini notificato venerdì a Beppe Sala, formulando a carico del sindaco l'accusa di turbativa d'asta. Ma ancora più del reato, nel provvedimento spicca la rete di relazioni «parallele» che Sala, all'ora amministratore delegato di Expo, avrebbe intrattenuto con i palazzi della politica, dando corda a richieste e pressioni.

A convincere Sala a stralciare l'appalto per il verde da quello principale per la «piastra» di Expo, furono secondo la Procura generale «pressione di esponenti politici della Regione Lombardia, socio al 20 % di Expo». La Regione si era mossa su pressione della Associazione Florovivaisti Lombardi, che il 16 novembre (dice la Procura, ma l'Associazione non conferma) aveva scritto a Sala e a Roberto Formigoni rivendicando spazio per i suoi associati nel business dell'esposizione. Sala, come altre volte, recepisce l'input. Separa il verde dalla piastra, e vara una gara apposita, tarata su misura - secondo la Procura generale - per uno dei colossi del verde lombardo, la Peverelli di Fino Mornasco, fornitrice da sempre del Comune di Milano e della Regione (ma che, curiosamente, non fa parte dell'Associazione che aveva scritto la lettera). La gara prevede che la parte principale del costo del verde sia a carico non di Expo ma di uno «sponsor finanziario».

Ed è qui che entra in ballo la Città della Salute, il megaprogetto sanitario e edilizio sulle aree Falck di Sesto San Giovanni. All'azienda proprietaria delle aree Falck, la Sesto Immobiliare di Davide Bizzi, secondo la Procura viene prospettato lo sblocco della pratica in cambio della sponsorizzazione del verde di Expo, con Antonio Rognoni (braccio destro di Sala), che fissa «una serie di incontri e riunioni con Monteverdi Maurizio, a.d. di Sesto Immobiliare, relativi alla (...) Città della Salute, proprio nei giorni dal 23 febbraio al 2 marzo 2012 coincidenti con quelli in cui Expo decideva lo stralcio del verde dal Progetto Esecutivo Piastra».

Sistema brusco? Un po' sì. Ma la faccenda non va in porto. Interrogato dalla Guardia di finanza nel marzo scorso, Davide Bizzi avrebbe spiegato che era stata la Peverelli a coinvolgere Sesto Immobiliare nell'operazione: cinque milioni di euro di sponsorizzazione, in cambio - oltre alla visibilità nel corso di Expo - l'azienda di Bizzi avrebbe potuto espiantare gli alberi al temine dell'esposizione e utilizzarli a Sesto sull'area Falck. Peccato, ha spiegato Bizzi alle «fiamme gialle», che al termine di Expo alla Falck sarebbero state ancora in corso le bonifiche, e reimpiantare gli alberi sarebbe stato ovviamente impossibile. Così Sesto Immobiliare fa saltare l'operazione. E a comprare gli alberi per Expo provvede alla fine la Mantovani, vincitrice della gara per la piastra, al costo di 1,6 milioni.

Uno spaccato eloquente, insomma, del clima sbrigativo e assai pragmatico che regnava nell'Expo sotto Sala. Ma che l'«operazione alberi» abbia effettivamente danneggiato qualcuna delle imprese interessate all'appalto, secondo i legali del sindaco è tutto da dimostrare.

L'anniversario di fuoco di Borsellino

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A 25 anni dalla strage restano solo mezze verità e false certezze. Un tutti contro tutti

Tutto sarebbe un po' più facile se i personaggi chiave fossero ancora vivi: ma dalle stragi di Capaci e via d'Amelio sono passati ormai venticinque anni. E così la polemica che riparte, virulenta e confusa, sui «mandanti occulti» delle stragi e sul depistaggio delle indagini, investe anche uomini che non possono più difendersi nè dare spiegazioni: come il poliziotto Arnaldo La Barbera, allora capo della Mobile a Palermo, o il procuratore di Caltanissetta Giovanni Tinebra, o il capo dei servizi segreti Luigi De Sena, tutti tirati in ballo in ruoli diversi come attori di un gigantesco complotto per portare le indagini - soprattutto quella sull'uccisione di Paolo Borsellino e della sua scorta, il 19 luglio 1992, a distanza di sicurezza dalla verità.

L'occasione è la decisione del Consiglio superiore della magistratura di rendere pubbliche alcune carte su Borsellino, tra cui l'interrogatorio cui l'allora procuratore di Marsala venne sottoposto nel 1988, nel procedimento disciplinare originato da un paio di interviste. Carte che in realtà non raccontano molto di nuovo: si coglie con chiarezza come Borsellino (come pure il suo amico Giovanni Falcone) fosse visto con diffidenza anche da una parte dello stesso Csm. Ma questo, purtroppo, già si sapeva.

Ma da lì parte la raffica delle polemiche sulla presunta verità mutilata sulle stragi del 1992. Iniziano le due figlie di Borsellino, Fiammetta e Lucia, e la sorella Rita, da sempre convinte di un livello superiore. «Ci vorrebbe un pentito nelle istituzioni», dice Fiammetta Borsellino, mentre Lucia parla di «anomalie», «riconducibili verosimilmente a uomini delle isitituzioni». Il tema si trascina da tempo: «I vuoti di conoscenza che tuttora permangono nella ricostruzione dell'intera operazione che portò alla strage di via D'Amelio possono essere imputati anche a carenze investigative non casuali», scrissero già nel 2002 i giudici della Corte d'appello di Caltanissetta: peccato che l'affermazione faccia parte della sentenza che - prendendo per buona la parola di un falso pentito, Vincenzo Scarantino - condannava all'ergastolo persone che con la strage non c'entravano nulla, e che oggi vengono riabilitate.

È su come si arrivò a costruire e prendere per buono il pentimento di Scarantino che si concentrano ieri, più o meno esplicitamente, le prese di posizione dei vertici dello Stato: a partire dal più altolocato di tutti, Sergio Mattarella: «Troppe sono state le incertezze e gli errori che hanno accompagnato il cammino nella ricerca della verità sulla strage, e ancora tanti sono gli interrogativi sul percorso per assicurare la giusta condanna ai responsabili di quel delitto efferato», dice il presidente della Repubblica. E il presidente della Cassazione Giovanni Canzio chiede luce sul «clamoroso e indegno depistaggio» delle indagini.

Né Mattarella né Canzio dicono quale verità scottante il depistaggio avrebbe dovuto coprire (anzi Canzio dice che c'è «certezza probatoria che fu Cosa Nostra a ideare ed eseguire il crimine»). Mentre la famiglia e i suoi supporter rilanciano l'idea che Borsellino abbia pagato con la vita la sua opposizione alla trattativa tra Stato e mafia: una trattativa teorizzata dalla Procura di Palermo con una inchiesta che però si è inabissata nel nulla ogni volta che è arrivata al vaglio di un tribunale.

Il Tar dà torto ai nomadi: "Legale lo sgombero del campo al Vigentino"

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I rom avevano fatto ricorso contro il Comune per la rimozione delle loro roulotte nel 2014

Va bene l'«identità zigana», fino a quando non entra in contrasto con la legge. Con questa motivazione il Tar della Lombardia ha respinto il ricorso che dodici nomadi, tutti appartenenti alla medesima famiglia, avevano presentato contro lo sgombero forzato del loro accampamento in via Selvanesco, tra il Vigentino e Gratosoglio. Dopo avere comprato l'area, la famiglia Gogu l'aveva trasformata in un accampamento a base di camper dove adulti e bambini vivevano in condizioni igieniche degradate. Quando il Comune aveva ordinato ai rom di sgomberare l'area, la matriarca Nicoleta Gogu e un'altra decina di esponenti del clan avevano presentato ricorso al Tribunale amministrativo. E anche quando il Comune, visto che le roulotte restavano tranquillamente al loro posto, ha provveduto direttamente a liberare i terreni, la famiglia Gogu aveva insistito nel ricorso, anche per evitare che il Comune mandasse loro il conto dell'operazione di pulizia.

Ma ora i giudici del Tar danno torto ai nomadi su tutta la linea. Il tribunale ricorda come già il 27 settembre 2013 l'Asl avesse compiuto un sopralluogo in via Selvanesco rilevando la «totale assenza dei requisiti minimi di vivibilità per le persone insediate nell'area, tra cui diversi minori» e la «contestuale presenza di rifiuti eterogenei ed organici con probabile infestazione di ratti». Dopo il rapporto dell'Asl, il Comune aveva ordinato lo sgombero sottolineando come «la destinazione urbanistica a verde agricolo escluda la possibilità di attuare interventi di regolarizzazione degli insediamenti abitativi presenti», dando cinque giorni di tempo agli abusivi per provvedere.

I rom avevano impugnato il provvedimento chiedendo come uno sgombero avrebbe migliorato le condizioni di vita degli abitanti, visto che la rimozione delle roulotte avrebbe avuto l'effetto di «lasciarle prive di una sistemazione e in condizioni precarie a vagare per le vie di Milano». E il Comune veniva accusato di avere ignorato la Convenzione europea dei diritti dell'uomo, «violando il diritto all'abitazione, stanziale o nomade che sia». «In assenza di reali ragioni di igiene», la rimozione delle roulotte si sarebbe ripercossa «non solo sulla violazione al rispetto del domicilio, ma intaccherebbe anche il diritto a conservare l'identità zigana e a condurre una vita private e familiare ad essa conforme».

Alla fine di gennaio 2014, il Comune era intervenuto direttamente. Intervento legittimo, dice ora il Tar. «Non si può trasformare in abitazione o addirittura in un insediamento - uno spazio inedificato, in contrasto pressoché con qualsiasi disposizione, da quelle in materia ambientale, a quelle urbanistico edilizie, a quelle igienico sanitarie, pretendendo poi di permanere nella situazione d'illegalità, in forza di un irretrattabile diritto all'abitazione, ovvero di un indefinito diritto a conservare l'identità zigana, il cui mantenimento non è in questione, finché non contrasti con le norme». Quanto al diritto alla casa, il Tar ricorda che venne offerto un alloggio a tutti: e la proposta venne accettata soltanto da sette persone.

Tutti quelli che usano invano il nome di Borsellino

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Tutto sarebbe un po' più facile da decrittare se i personaggi chiave fossero ancora vivi

Sulle ceneri di Paolo Borsellino e della sua scorta si consuma, a un quarto di secolo dalla morte, il rituale dell'indignazione postuma non contro i suoi assassini - ormai noti, catturati e condannati - ma contro il magma astratto delle complicità istituzionali, dei mandanti occulti, dei terzi e quarti livelli, delle menti raffinatissime che ne avrebbero per motivi oscuri prima deciso la morte e poi depistato le indagini. Una denuncia che da anni viene dai parenti di Borsellino, insoddisfatti in partenza di ogni verità processuale, ma in qualche modo giustificati dal dolore; ma cui ora si associano le più alte cariche dello stato e i vertici della magistratura, per non parlare di commentatori e dietrologi vari, compresi alcuni che con i presunti depistatori avevano rapporti di aperta amicizia, quando erano vivi e potenti.

Tutto sarebbe un po' più facile da decrittare se i personaggi chiave fossero ancora vivi: ma dalle stragi di Capaci e via d'Amelio sono passati ormai venticinque anni. E così la polemica che riparte, virulenta e confusa, sui «mandanti occulti» delle stragi e sul depistaggio delle indagini, investe anche uomini che non possono più difendersi né dare spiegazioni: come il poliziotto Arnaldo La Barbera, allora capo della Mobile a Palermo, o il procuratore di Caltanissetta Giovanni Tinebra, o il capo dei servizi segreti Luigi De Sena, tutti tirati in ballo in ruoli diversi come attori di un gigantesco complotto per portare le indagini - soprattutto quella sull'uccisione di Paolo Borsellino e della sua scorta, il 19 luglio 1992, a distanza di sicurezza dalla verità. Da Pietro Grasso a Antonio Ingroia, è tutto un fiorire di appelli accorati e vibranti a scoprire non si sa cosa. L'occasione è la decisione del Consiglio superiore della magistratura di rendere pubbliche alcune carte su Borsellino, tra cui l'interrogatorio cui l'allora procuratore di Marsala venne sottoposto nel 1988, nel procedimento disciplinare originato da un paio di interviste. Carte che in realtà non raccontano molto di nuovo: si coglie con chiarezza come Borsellino (come pure il suo amico Giovanni Falcone) fosse visto con diffidenza anche da una parte dello stesso Csm. E questo, purtroppo, già si sapeva. Ma da lì parte la raffica delle polemiche sulla presunta verità mutilata sulle stragi del 1992. Iniziano le due figlie di Borsellino, Fiammetta e Lucia, e la sorella Rita, da sempre convinte di un livello superiore. «Ci vorrebbe un pentito nelle istituzioni», dice Fiammetta Borsellino, mentre Lucia parla di «anomalie», «riconducibili verosimilmente a uomini delle istituzioni».

Il tema si trascina da tempo: «I vuoti di conoscenza che tuttora permangono nella ricostruzione dell'intera operazione che portò alla strage di via D'Amelio possono essere imputati anche a carenze investigative non casuali», scrissero già nel 2002 i giudici della Corte d'appello di Caltanissetta: peccato che l'affermazione faccia parte della sentenza che - prendendo per buona la parola di un falso pentito, Vincenzo Scarantino - condannava all'ergastolo persone che con la strage non c'entravano nulla, e che oggi vengono riabilitate.
È su come si arrivò a costruire e prendere per buono il pentimento di Scarantino che si concentrano ieri, più o meno esplicitamente, le prese di posizione dei vertici dello Stato: a partire dal più altolocato di tutti, Sergio Mattarella: «Troppe sono state le incertezze e gli errori che hanno accompagnato il cammino nella ricerca della verità sulla strage, e ancora tanti sono gli interrogativi sul percorso per assicurare la giusta condanna ai responsabili di quel delitto efferato», dice il presidente della Repubblica. E il presidente della Cassazione Giovanni Canzio chiede luce sul «clamoroso e indegno depistaggio» delle indagini. Né Mattarella né Canzio dicono quale verità scottante il depistaggio avrebbe dovuto coprire (anzi Canzio dice che c'è «certezza probatoria che fu Cosa Nostra a ideare ed eseguire il crimine»). Mentre la famiglia e i suoi supporter rilanciano l'idea che Borsellino abbia pagato con la vita la sua opposizione alla trattativa tra Stato e mafia: una trattativa teorizzata dalla Procura di Palermo con una inchiesta che però si è inabissata nel nulla ogni volta che è arrivata al vaglio di un tribunale. In nome di quella teoria si infangano uomini come La Barbera: andrebbero ripubblicati i panegirici che i suoi accusatori di oggi gli dedicavano in vita.


"Migliaia di irregolari sui treni e nelle stazioni Adesso serve l'esercito"

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L'allarme al governo dell'assessore regionale «Teniamoci le tasse e garantiamo sicurezza»

Se la sanità lombarda è un modello per tutto il Paese, una eccellenza che l'Italia ci invidia, perché non seguire lo stesso modello per la sicurezza? Perché non consentire alla Lombardia di affrontare in prima persona il compito di tutelare il diritto alla incolumità dei suoi cittadini come garantisce il diritto alla salute?

A lanciare l'idea è Alessandro Sorte, assessore regionale ai trasporti. Nel suo ruolo, sa direttamente quanto oggi, soprattutto su certi percorsi e in certi orari, viaggiare sia pericoloso. E sia ancora più pericoloso lavorare sui treni e nelle stazioni: come è toccato al controllore delle Nord ferito due anni fa a colpi di machete. E come ha dovuto sperimentare sulla propria pelle Davide Feltri, il capotreno che mercoledì mattina è stato accoltellato da un «portoghese» cui aveva chiesto il biglietto: l'accoltellatore è ancora sconosciuto e a piede libero, essendo stato rilasciato ieri mattina un nordafricano arrestato per sbaglio.

«Io ho incontrato - racconta l'assessore Sorte - i sindacati dei lavoratori delle ferrovie lombarde e mi sono trovato davanti a uno scenario di comprensibile esasperazione. I capitreno e i controllori sono esposti in prima linea e senza tutele, in una situazione di violenza fuori controllo, come dimostrano anche gli ultimi episodi. Questa situazione, va detto, ha responsabilità precise».

E quali sarebbero?

«La colpa è di chi ha permesso che una immigrazione incontrollata trasformasse la Lombardia in un territorio di guerra quotidiana. È chiaro che siamo davanti agli effetti collaterali del totale fallimento della politica del governo, che ha trasformato l'Italia nella sala d'aspetto dell'immigrazione. Non dico clandestina se no mi arrestano, pare che non si possa dire. Oggi in Lombardia vivono migliaia e migliaia di irregolari che si rendono quotidianamente responsabili di comportamenti criminali e violenti e arrivano al punto di aggredire gli uomini delle istituzioni che fanno il loro lavoro come è accaduto sul treno delle Nord e alla stazione di Santo Stefano».

Quali possono essere le contromisure?

«Serve un impegno per alzare i livelli di sicurezza. Lo stesso sforzo che è stato fatto alla Stazione Centrale di Milano deve essere esteso a tutte le stazioni lombarde. Serve un presidio militare nelle stazioni che oggi sono terra di nessuno dove la gente ha paura a entrare. E a bordo dei treni».

Ma in Lombardia ci sono quattrocento stazioni e circolano ogni giorno duemilatrecento treni, come si fa a presidiarli tutti? Le stazioni sono pericolose anche perché sono state abbandonate. Non ci sono più biglietterie, non ci sono più bar.

«È un dato inevitabile perché ormai la gente compra il biglietto con lo smartphone, non ha motivo di presentarsi in stazione prima del tempo. Per questo servono i presidi. Per quanto riguarda i treni, noi abbiamo fatto la nostra parte, aumentando le telecamere e piazzando le pattuglie di guardie private armate, o invitando i passeggeri per bene a concentrarsi tutti sullo stesso vagone, le carrozze rosa, specie dopo un certo orario. Ma lo Stato dov'è?»

Lo Stato dirà che non ci sono uomini abbastanza per proteggere tutto.

«È vero, le forze dell'ordine a Milano sono molto brave ma sono sotto organico. Allora io dico: se lo Stato centrale non è in grado di garantire la nostra sicurezza, lasci fare a noi, e possiamo garantire che ce le caveremo meglio. È semplice: se le tasse dei lombardi restassero in Lombardia, come chiederemo con il referendum del prossimo ottobre, la nostra regione sarebbe in grado di dotarsi di un apparato di sicurezza di assoluta efficienza. È una strada necessaria, direi obbligata. Da tre anni siamo di fronte ad una invasione incontrollata, un peggioramento continuo figlio degli sbarchi a ripetizione. Le conseguenze sono gli occhi di tutti. E l'unico rimedio possibile è consentire alla Lombardia di difendersi da sola, di garantire in prima persona la sicurezza dei suoi cittadini. Sui treni, nelle stazioni e ovunque».

Amri, ecco il conto per la salma. Ma Sesto san Giovanni si rifiuta di pagare

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Il Comune di Milano invia la fattura a Sesto San Giovanni per il deposito della salma di Anis Amri, terrorista di Berlino. Ma il sindaco Roberto Di Stefano, eletto dalla coalizione di centrodestra: "Non pagheremo"

Per concludere la sua lunga fuga, Anis Amri - il terrorista della strage di Berlino - scelse, il 23 dicembre dell'anno scorso, Sesto San Giovanni: qui, davanti alla stazione ferroviaria, fu fermato per un controllo dalla polizia, aprì il fuoco sugli agenti e fu fulminato dalle pallottole di risposta. Per Sesto fu uno choc, anche perché non si capiva - e non si capisce tutt'ora - cosa avesse portato l'estremista nella ex Stalingrado d'Italia. Ma ora si arriva alla beffa: la fattura per le spese di custodia del corpo di Amri, che il Comune di Sesto si è vista recapitare ieri.

Chissà come avrebbe reagito la vecchia giunta di sinistra che amministrava Sesto sino alla primavera scorsa. Ma la reazione del nuovo sindaco non si fa attendere ed è assai brusca: "Siamo alla follia - dice Roberto Di Stefano, eletto dalla coalizione di centrodestra - sono esterrefatto, quella per per oltre sei mesi era un'ipotesi assurda e irrealizzabile in Italia è incredibilmente diventata realtà. I miei uffici mi hanno appena mostrato la fattura del Comune di Milano, pari a un importo di 2.160,18 euro, con la quale viene chiesto all'Amministrazione Comunale di Sesto San Giovanni di pagare le spese di 'deposito salma' del terrorista Anis Amri, autore della strage di Berlino. A scanso di equivoci dico subito che mi opporrò con ogni mezzo a questa vergognosa e offensiva richiesta e che i soldi dei miei cittadini mai saranno utilizzati per far fronte a questa richiesta".

La salma del terrorista è rimasta parcheggiata all'obitorio del Comune di Milano, in piazza Gorini, per oltre sei mesi - dal 23 dicembre 2016 al 29 giugno 2017 - senza che nessuno la reclamasse, dopo che erano stati eseguiti gli accertamenti medico legali (che hanno accertato che Amri aveva fatto in un passato recente uso di droghe, ma che nel momento del conflitto a fuoco era lucido) infine è stata spedita in Tunisia. "Non mi interessa assolutamente nulla - dice il sindaco Di Stefano - se la legge nazionale prevede che le spese post-mortem di una persona non reclamata siano a carico del Comune in cui la stessa è morta. Qui stiamo parlando di un mostro che non merita alcuna pietà. Per questo ho già provveduto a scrivere al presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, al ministro degli Esteri Angelino Alfano e al sindaco di Milano Giuseppe Sala, per comunicare loro che Sesto San Giovanni non pagherà mai nulla. Se proprio ci tengono provvedano loro. Noi anche nel rispetto di Fabrizia Di Lorenzo, vittima italiana di quella strage, e di tutte le altre persone morte in attentati terroristici di matrice islamista, oltre che in segno di attenzione delle Forze dell'Ordine, non destineremo mai un euro per saldare questa fattura".

Ora c'è la taglia su Igor: 50mila euro

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Paga la vedova del barista ucciso. Se morto il premio sarà dimezzato

Wanted. Da ieri Igor Vaclavic è ricercato non solo dallo Stato ma anche da tutti i cacciatori di taglie pronti a mettersi in pista raccogliendo l'offerta della vedova, del padre e degli amici di una delle sue vittime, il barista di Budrio Davide Fabbri, ammazzato il 1° aprile. Lo avevano annunciato, e lo hanno fatto: davanti alla inerzia o incapacità delle forze dell'ordine, gli amici di Igor passano al brusco sistema della taglia sulla testa di Igor.

Per dare il via alla caccia è stato divulgato una sorta di contratto pubblico, una gara d'appalto rivolta a chiunque possa aiutare a afferrare l'inafferrabile assassino. Cinquantamila euro il premio. Dead or alive: il premio, ridotto della metà, verrà corrisposto anche a chi di Igor farà trovare il cadavere.

La forma del bando, spiega il comunicato dell'avvocato Giorgio Bachelli, «è quella della promessa al pubblico così come prevista dall'articolo 1989 del codice civile: promessa di un compenso a chi per primo fornirà notizie precise atte a rintracciare in concreto e quindi ad assicurare alla giustizia il latitante Norbert Feher alias Igor Vaclavic. La somma che verrà riconosciuta a favore di colui che per primo fornirà tali indicazioni è quella di euro 50mila. Il pagamento verrà fatto ad avvenuto ed effettivo ritrovamento del predetto latitante, assicurato alla giustizia. In ipotesi avvenisse il ritrovamento del cadavere di Igor, sempre a favore di colui che fornisce per primo notizie in merito, verrà riconosciuta una ricompensa pari al 50% dell'importo predetto».

La data ufficiale di apertura della caccia a Igor è oggi, 22 luglio. Tre mesi di tempo, fino al 22 ottobre: a meno, ovviamente, che Igor non cada prima nella rete delle forze dell'ordine. «Le segnalazioni - specifica il bando - dovranno consentire comunque la identificazione certa del segnalante, con qualunque mezzo di sua scelta, affinché possa eventualmente far valere il diritto alla ricompensa». Indirizzo per le segnalazioni, la mail dell'avvocato, giorgio@bacchelli.it, o quella del «Comitato amici di Davide», eam-ilupi@libero.it.

Ma quante possibilità ci sono che investigatori dilettanti riescano dove hanno fallito mille carabinieri, costretti alla resa dopo avere frugato per due mesi ogni anfratto della pianura tra Budrio, Argenta e Ferrara? Ben poche, ovviamente. E di fatto i veri destinatari del bando di gara per la caccia a Igor non sono i cittadini qualunque: ma sono i suoi complici, quelli che secondo parenti e amici delle sue vittime lo hanno protetto prima e dopo le sue sanguinose imprese. Igor Vaclavic non è un solitario lupo della steppa, è un criminale con legami assai stretti con bande criminali note da tempo che operano nella zona. É da queste bande che probabilmente continua a ricevere aiuto. Basteranno cinquantamila euro per convincere un amico a tradirlo?

Avvocatessa accoltellata: adesso è caccia al sicario

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Fuori pericolo, è stata interrogata. Si indaga sui suoi rapporti di lavoro. La pista dell'agguato su commissione

«Non lo avevo mai visto prima. E quando è arrivato nel mio studio ha subito iniziato a colpirmi». È questo il racconto messo a verbale, nel primo faticoso interrogatorio, da Paola Marioni, l'avvocato milanese accoltellata giovedì sera nel suo studio in via dei Pellegrini. La professionista ha indicato ai poliziotti della Squadra Mobile il nome con cui l'uomo si era presentato al telefono e aveva chiesto l'appuntamento, ma il nome si è rivelato falso. «Italiano, altezza media», è l'unica descrizione che la vittima ha saputo dare. Così ora le indagini per dare un nome al mancato omicida sono affidate soprattutto alle immagini delle telecamere di sicurezza e alla analisi del traffico telefonico. Ma la pista investigativa è chiara: poiché vittima e aggressore non si conoscevano, l'ipotesi è che l'uomo fosse un sicario su commissione, incaricato fin dall'inizio di assassinare la Marioni. Difficile pensare che si dovesse limitare a darle una lezione, vista la violenza dei fendenti inferti che solo per caso non hanno leso organi vitali.

Paola Marioni ormai è fuori pericolo, e domani o dopodomani verrà trasferita nei reparti di degenza. Oltre a incontrare alcuni amici, ieri ha potuto parlare con gli investigatori della Mobile, ma il suo contributo alle indagini è stato meno decisivo di quanto si potesse sperare, una volta assodato che il nome del presunto cliente era semplicemente un alias.

L'uomo si era presentato dicendosi interessato all'acquisto di un immobile che la Marioni aveva ricevuto la delega a vendere, ma era solo un pretesto per trovarsi a tu per tu con la donna, altrimenti non facile da avvicinare. Paola Marioni viene descritta come una donna chiusa, a volte persino diffidente. L'escamotage era quindi necessario per poterla avvicinare senza suscitare sospetti.

A questo punto l'indagine inevitabilmente si allarga all'intera cerchia delle attività sia private che professionali della professionista. In quale vicenda Paola Marioni possa avere, più o meno consapevolmente, colpito interessi tali da scatenare come reazione l'ordine di ucciderla è, allo stato, un mistero. Sarà la donna, nei prossimi giorni, ad accompagnare gli investigatori nella ricognizione dei suoi affari, alla ricerca di una traccia che possa portare a scenari verosimili. L'unica traccia che sembra esclusa è quella sentimentale, vista la vita riservata che la Marioni ha sempre condotto. Della certezza che il delitto sia maturato nell'ambito professionale dà conto anche la dichiarazione con cui l'Ordine degli avvocati chiede che si faccia rapidamente luce sulla vicenda: «Esprimo lo sdegno e lo sconcerto mio personale - dice ieri il presidente Remo Danovi - del Consiglio dell'Ordine e dell'intera avvocatura milanese, per un atto di violenza così grave nei confronti di una collega, di una donna, colpita nello svolgimento della sua attività professionale. Ci auguriamo che Paola Marioni si riprenda al più presto, e che l'inchiesta possa individuare tempestivamente l'autore del crimine».

Condannata a sei anni la penalista che riciclava denaro per la camorra

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Il legale operava su conti svizzeri controllati da due boss dell'usura

Nella stessa giornata in cui l'avvocato Paola Marioni viene aggredita a coltellate nel suo studio, arrivano a compimento le vicissitudini di un'altra «toga rosa» milanese: vicissitudini di ben altro tipo, visto che si tratta di una professionista che i guai se li è andati a cercare, interpretando in modo un po' troppo ampio il suo mandato professionale. E mettendosi a disposizione di un clan camorrista specializzato in usura.

Giovedì sera davanti all'ottava sezione del tribunale, presieduta dal giudice Maria Luisa Balzarotti, si è concluso il processo a carico di Barbara Sabadini, 47enne penalista milanese accusata di riciclaggio. Pesante la condanna: sei anni di carcere. La Sabadini resta in carcere dove si trova dal settembre scorso, quando venne arrestata su richiesta della Direzione distrettuale antimafia. Quel giorno, in realtà, alla Sabadini era stato offerto di venire ospitata in una struttura per detenute-madri, avendo un figlio piccolo: e fu lei a rifiutare di portare con sè il bambino. Così venne trasferita nel carcere di San Vittore.

Alla professionista, da tempo legale di fiducia di imputati legati alla criminalità napoletana, il pm Francesca Celle contestava l'accusa di riciclaggio per avere operato, grazie a una delega a suo nome, sui conti in Svizzera controllati di fatto da Enzo Guida e Alberto Fiorentino, due dei nomi «storici» della malavita di origine partenopea al nord, arrestati alcuni mesi prima per avere messo in piedi una sorta di «banca» che gestiva prestiti a strozzo e estorsioni.

Alla Sabadini la Procura era arrivata ricostruendo gli spostamenti di un tesoretto da un milione di euro imboscato dalla coppia Guida-Fiorentino in Svizzera, e spostato di volta in volta da una banca all'altra dell'accogliente confederazione. Il conto «Ostrica» era intestato formalmente alla figlia di Enzo Guida che però non risultava lo avesse mai realmente gestito, mentre gli spostamenti erano disposti dalla avvocatessa, che si sarebbe anche occupata del rientro in contanti delle somme quando si rendevano necessarie per finanziare i clienti della «banca».

Nel dicembre scorso Barbara Sabadini è stata sospesa dall'Ordine degli avvocati. Nel frattempo Guida e Fiorentino erano stati condannati rispettivamente a tredici e dieci anni di carcere, dopo avere chiesto il rito abbreviato e avere cercato (invano) di convincere il giudice di essere delle vittime e non degli usurai: «Stavamo cercando di sistemarci, abbiamo `ste quattro lire, cerchiamo di investirle con queste persone per bene, ci facciano una piccola pensione per noi e per i nostri figli», aveva detto Guida. E aveva anche giurato di non avere nulla a che fare con la camorra: «Io con Napoli non ho niente a che vedere, sono napoletano ma se vado a Napoli mi perdo. Tutti i miei reati li ho fatti a Milano».

Cancellato un volo da Malta a Malpensa Vacanze prolungate a forza per 200

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E c'è persino chi ha preferito tornare via nave fino al porto di Catania

Un annuncio di ritardo dopo l'altro, fino alla botta finale: volo cancellato. E per i duecento passeggeri di Easyjet che sarebbero dovuti rientrare sabato notte da Malta a Malpensa con il volo EZY2598 le brutte sorprese non erano finite. Di fronte alle richieste di chiarimenti e di istruzioni, la compagnia low cost ha spiegato che non era in grado di garantire a breve nessun volo alternativo per rientrare in Italia. Il gruppo si è visto offrire la disponibilità d un albergo per la notte, ma chi chiedeva come uscire dall'impasse si è sentito rispondere sostanzialmente «arrangiatevi». Surreale la motivazione finale data da Easyjet ai viaggiatori inferociti: l'equipaggio non poteva salire su un altro apparecchio perché aveva raggiunto il tetto delle ore sindacali.

Nel campionario delle «vacanze rovinate» dell'estate 2017, gli sfortunati del Malta-Milano occupano per ora il podio: soprattutto per la prolungata mancanza di proposte concrete da parte della compagnia aerea su come ritornare in patria. Al punto che Enac, l'ente di controllo dell'aviazione civile, ha diramato un comunicato annunciando che chiederà a Easyjet una spiegazione sulla mancata «protezione» dei passeggeri prenotati sul volo. La compagnia si è giustificata con il periodo estivo, per cui voli ed equipaggi viaggiano al massimo delle loro possibilità. Ma è ovvio che nulla autorizza a «mollare» duecento persone in un'isola.

La maggior parte dei passeggeri sono studenti che hanno partecipato a corsi estivi di inglese a Malta, e che poco prima dell'una di notte di sabato sarebbero dovuti sbarcare al terminal 2 di Malpensa. Ma quando i parenti sono arrivati allo scalo varesino per accoglierli hanno appreso dai tabelloni che il volo non era mai partito. A quel punto sono iniziati i contatti telefonici tra i ragazzi a Malta e le famiglie a Malpensa, mentre i call center di Easyjet venivano subissati di telefonate. Senza risultato.

L'ultimo comunicato della compagnia inglese è stato diramato nella notte: «Ci dispiace molto che il tuo volo ora sia stato cancellato. Ci auguriamo caldamente che tu possa continuare il tuo volo oggi, ma a causa delle norme sul traffico il personale dell'aereo ha raggiunto il limite massimo di ore di servizio, pertanto abbiamo dovuto cancellare il volo».

Così ai passeggeri bloccati allo scalo di Luqa non è rimasto altro da fare che mettersi alla caccia di posti liberi sui voli dei prossimi giorni. In serata Easyjet ha reso noto di essere riuscita ad imbarcare ieri per l'Italia la maggioranza dei passeggeri; altri partiranno oggi, e gli ultimi tre studenti decolleranno domani. Il problema, dice Easyjet, è nato dal guasto all'aereo che dall'Italia doveva raggiungere Malta: «il nostro personale di terra a Malta ha fatto tutto il possibile per aiutare i passeggeri, proponendo voli alternativi e sistemazioni negl alberghi».

In arrivo pene più gravi per chi truffa gli "over 65"

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Una proposta di legge consente che il colpevole possa essere processato d'ufficio, senza querela della vittima

Una legge di appena quattro articoli. Due sono chiari, gli altri due - come spesso accade - un po' oscuri e tecnici. Ma la sostanza è netta: dare una risposta concreta al dramma silenzioso che si consuma in migliaia di case, dove uomini e donne in là con gli anni subiscono truffe da cui - per buon cuore, per ingenuità, per gli acciacchi dell'età - non hanno modo di difendersi. Le visite dei falsi tecnici del gas, dei falsi istruttori Inps, dei falsi amici di nipoti nei guai, che finiscono tutte allo stesso modo: l'anziano che consegna tutto quello che ha sottomano, o addirittura si fa accompagnare in banca a prelevare. Sono truffe che oltre al danno economico - con i risparmi e i ricordi che spariscono per sempre - umiliano e avviliscono, scatenando traumi psichici da cui le vittime a volte non si riprendono mai. Eppure vengono trattate dalla legge con un'indulgenza che spesso sconfina nell'impunità dei colpevoli.

La proposta di legge 4130 è stata presentata da un folto gruppo di deputati dell'opposizione ma in commissione Giustizia ha trovato l'okay trasversale che ha portato il 20 luglio all'invio all'aula della Camera per la sua approvazione: ora la battaglia è per una corsia preferenziale che permetta in tempi rapidi il voto favorevole di Montecitorio e il passaggio al Senato. Con la speranza che Palazzo Madama non apporti modifiche.

Gli articoli più chiari della proposta sono il primo e il secondo. Il primo modifica la norma del codice penale che punisce il reato di truffa, stabilendo che se la vittima ha più di sessantacinque anni scatta il reato di truffa aggravata. È una modifica importante non solo perché aumenta da tre a cinque anni la pena massima, ma soprattutto perché consente che il colpevole possa essere inquisito e processato d'ufficio, senza querela della vittima: una querela che spesso chi finisce nelle grinfie dei truffatori non sporge, per paura delle conseguenze o anche solo per vergogna.

Il secondo articolo, altrettanto chiaro, prevede che chi si rende colpevole dei reati di truffa e di circonvenzione di incapaci non abbia diritto alla sospensione condizionale della pena se prima non avrà risarcito e riparato le conseguenze del danno: una norma resa necessaria dalla facilità con cui la «condizionale» viene concessa, mentre le condanne ai risarcimenti restano quasi sempre sulla carta. E gli articoli 3 e 4 della proposta di legge danno maggiori poteri alle forze di polizia e ai magistrati, prevedendo che per il reato di truffa aggravata scatti l'arresto in flagranza e che in attesa del processo l'indagato possa essere tenuto in carcere.

Da tempo le forze di polizia e alcune Procure, come quella di Milano, divulgano manuali anti-truffa, per aiutare gli anziani a non cadere nei tranelli. Serviva però anche una legge che trattasse questi reati con la severità necessaria.


Sala, tocca alla difesa: «Su Expo un grave errore da parte della Procura»

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I legali dell'ex commissario: non era necessario rifare la gara e il verde non fu sfilato dall'appalto

Luca Fazzo

Un «travisamento» dei fatti, una ricostruzione «arbitraria e superficiale», un percorso logico «fumoso e pieno di contraddizioni»: e un risultato «disarticolato dalla realtà e gravido di errori». Non ci vanno leggeri, gli avvocati del sindaco Sala, nel ribattere per la prima volta per iscritto alla Procura generale, che vuole portare il primo cittadino a processo per falso e turbativa d'asta. Nel penultimo giorno utile prima della scadenza dei termini, i legali di Sala - gli avvocati Salvatore Scuto e Stefano Nespor - depositano la memoria difensiva in cui chiedono al sostituto procuratore generale Felice Isnardi di archiviare il fascicolo a carico del sindaco. Sanno che non accadrà, che Isnardi chiederà il rinvio a giudizio di Sala e che lo scontro approderà all'udienza preliminare. Ed è in vista di quello scontro che mettono nero su bianco la verità del sindaco: non ho commesso alcun reato, e quando ero alla guida di Expo mi sono mosso «perseguendo un obiettivo, la celebrazione di Expo 2015, cruciale per il prestigio di Milano e del Paese».

L'autodifesa del sindaco ripercorre passo passo i due capi d'accusa che gli vengono mossi dalla Procura generale, entrambi legati al più importante appalto di Expo, i lavori per la piastra. Il capitolo più lungo è dedicato all'accusa di turbativa d'asta per avere stralciato informalmente dalla gara per la piastra le forniture di verde e alberi, senza rifare il bando: e danneggiando così le aziende che alla gara non avevano chiesto di partecipare in quanto non in grado di fornire questo genere di lavori.

Ebbene, fa sapere Sala: rifare l'appalto per la piastra avrebbe «garantito il fallimento di Expo». I tempi non lo avrebbero permesso. È il leitmotiv delle risposte che Sala per anni ha dato alle obiezioni sulla sbrigatività del «rito Expo». Ma in questo caso, aggiunge la memoria, rifare la gara non era necessario perché in realtà non tutto il verde fu sfilato dall'appalto. La Procura e la Guardia di finanza vengono accusate di essere incappate in un errore marchiano. Le forniture che vennero separate per cercare (invano) uno sponsor riguardavano una piccola parte del verde, seimila piante, mentre «200.228 specie tra alberi, piante, arbusti, piante acquatiche, piantagioni erbacee e filari» continuarono a fare parte dell'appalto principale. «Non è quindi ipotizzabile una lesione delle regole della concorrenza che presiedono alle gare pubbliche (...) nessuna impresa si è lamentata per non avere potuto partecipare: il che ulteriormente dimostra che l'ipotesi di una turbativa è campata in aria». Sala sostiene che a premere pesantemente per togliere dalla gara per la piastra l'intero capitolo del verde, per oltre 15 milioni, era la Regione, attraverso Antonio Rognoni, direttore di Infrastrutture Lombarde, per proteggere i vivaisti locali. Expo resistette. E, nel pieno rispetto delle regole, si stralciarono solo 5 milioni. A decidere, sostiene il sindaco, fu peraltro il responsabile del procedimento, Carlo Chiesa.

Più stringate le argomentazioni che i legali dedicano al secondo capo d'accusa, il falso che Sala avrebbe commesso nel verbale di nomina della commissione aggiudicatrice. Secondo l'accusa, gli avvocati di Expo si erano accorti in ritardo che due membri della commissione erano incompatibili, e si decise di mettere una pezza con una nuova nomina retrodatata. La memoria difensiva del sindaco ribatte che nulla impedisce di cambiare i componenti di una commissione in corso d'opera, fino all'apertura delle buste: quindi il falso (ribattezzato «interpolazione») fu superfluo e innocuo, «ininfluente rispetto agli esiti della gara». Allora perché il verbale fu taroccato, e consegnato addirittura a casa di Sala per la firma? Questo la memoria non lo spiega.

Incastrato dalla polizia con le foto "fluide". Ma il giudice lo assolve

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Il suo volto sovrapposto a quello di un ladro con la tecnica del «morphing». È un errore

Una faccia che si trasforma in un'altra, volti apparentemente assai diversi che si fondono in una via di mezzo. Si chiama morphing. Quante volte ne abbiamo visto i prodotti, sulle copertine dei settimanali, da quando l'arte del photoshop, ovvero del ritocco digitale delle foto, ha raggiunto livelli di quasi perfezione?

Tutto bene fin quando è un gioco o poco più. Ma non può diventare una tecnica investigativa, non può essere la strada per produrre prove che prove non sono. A Milano un presunto ladro d'auto è stato processato e portato a giudizio con un morphing che ha portato la sua vera faccia ad avvicinarsi passo per passo a quella del colpevole. Un perito ha spiegato al giudice tutti i difetti del morphing. E il tribunale lo ha assolto.

«Volevano incastrarmi con un fotomontaggio», ha brontolato l'imputato, C.L., 56 anni, dopo l'assoluzione. Lui, assistito dall'avvocato Enzo Barbetta, ha avuto i mezzi finanziari per arruolare un perito autorevole, ma un altro al suo posto avrebbe fatto una fine peggiore. E la vicenda forse costringe ad interrogarsi sulla fiducia eccessiva che si dà alla prova scientifica, dimenticando quanto spesso le certezze scientifiche vengano sconfessate.

La polizia era arrivata a C.L. scavando su un giro di ladri d'auto abili ed efficienti: rubavano auto di lusso e certificati di proprietà in bianco, poi con il certificato falso costruivano identità nuove alle auto, si facevano rilasciare dalle case produttrici il duplicato delle chiavi. E rivendevano le auto a ignari acquirenti.

Nelle mani del concessionario Bmw che rilascia uno dei duplicati, resta la fotocopia del documento del signore che lo ha richiesto. Anche il documento è falso. La foto è un po' sbiadita. Ma la polizia ritiene di riconoscere nell'immagine C.L., sua vecchia conoscenza. E lo denuncia.

Per dimostrare la sua colpevolezza, mette a confronto la foto del mister X sul documento falso con quella sulla vera carta d'identità di C.L. La somiglianza c'è, ma ci sono anche differenze evidenti, come la forma delle orecchie. Ed ecco che entra in campo il morphing. Agli atti del processo finisce una serie di dieci foto, in cui mister X si trasforma, passo dopo passo, in C.L. Per sostenere che si tratta della stessa persona, si mettono a confronto due immagini: non quelle originali, ma due che stanno quasi a metà della sequenza, e in cui le due foto sono già così mescolate che in entrambe il soggetto ha la stessa maglietta a righe. Conclusione scontata: «È la stessa persona».

Scrive nella sua perizia Pasquale Poppa, consulente della difesa, antropologo e membro del famoso Labanof della Statale: «I fotogrammi sono essi stessi una miscellanea di entrambi i soggetti, non è possibile quindi fare un confronto tra questi due elementi che non rappresentano le foto corrette per eseguire un confronto/sovrapposizione». Confrontando invece le due foto originali si individuano «elementi macroscopici di discrepanza, come l'ingombro della testa o una differente stempiatura».

E la «macroscopica discrepanza» rilevata dal perito convince i giudici: «Questo tribunale rileva che la lettura della consulenza del dott. Poppa e l'esame delle fotografie in essa riportate consentono effettivamente di apprezzare la correttezza di quanto affermato dal consulente della difesa. Appare in effetti una diversa dimensione della testa delle due persone ed una differenza considerevole nell'attaccatura dei capelli. In questa situazione ed in assenza di ulteriori elementi di indagine questo tribunale ritiene di non poter affermare con certezza che la persona recatasi presso l'autoconcessionaria il 30 settembre possa essere identificata nell'imputato». Assolto «per non aver commesso il fatto».

Nessuna violenza: il controllore si è inventato tutto

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Esasperato dalle provocazioni di un ghanese si è inferto la coltellata per incastrare lo straniero

Luca Fazzo

Milano Ci erano cascati tutti: la polizia, i politici, il sindacato che era subito sceso in sciopero, i giornali di destra e di sinistra. Perché il racconto di Davide Feltri, controllore delle ferrovie, che diceva di essere stato aggredito e accoltellato da un passeggero senza biglietto, era corroborato in modo inequivocabile da un dato di fatto: il coltello piantato nel palmo della mano di Feltri, attraversata da un lato all'altro nella zona tra il pollice e l'indice. Ed era sembrata l'ennesima, drammatica dimostrazione di una storia già raccontata, il Bronx viaggiante sui treni della Lombardia profonda, tra aggressioni e paure.

E invece no. Davide Feltri quella coltellata se l'era piantata da solo a freddo, nella mano, con un gesto che resta agghiacciante per la disperazione, lo stress, forse anche la psicosi che lo hanno determinato. Feltri era esasperato dagli sfottò, le minacce, gli insulti incassati ogni giorno, su e giù per i vagoni del Piacenza-Milano, «prego-signori-biglietto». Così, ha confessato «mi sono chiuso nel bagno e mi sono dato la coltellata». Poi è sceso sanguinante alla stazione di Santo Stefano Lodigiano, e ha fornito la descrizione del suo aggressore. Non ha usato la fantasia: ha descritto per filo e per segno uno degli habitué della tratta, un ragazzo ghanese: sempre senza biglietto, sempre arrogante.

Il giorno prima, dice Feltri, alla richiesta del biglietto quello aveva reagito minacciandolo di morte: «Ti ammazzo». Per tutta la notte, dopo quell'insulto, il capotreno ha rimuginato la sua vendetta. Ed è uscito di casa portandosi in tasca il coltello. Ha messo in scena la sua sanguinosa commedia. E quando negli uffici della Polfer gli hanno messo davanti un album con decine di immagini, ha indicato senza esitazioni una faccia. «È lui». Era il ghanese, il suo persecutore.

Tutto era così lineare, così credibile, così in linea con altri episodi realmente accaduti, che nessuno ha dubitato. Il ghanese è stato fermato poco dopo. E deve ringraziare il Dio delle telecamere se non è finito in galera, ad affrontare una condanna sicura. Invece sul lato dell'interbinario a Santo Stefano c'è un impianto che riprende tutto. Immagini nitide, in alta definizione. E quando la squadra Mobile esamina il filmato rimane di sasso: lì, dove secondo il capotreno il suo aggressore sarebbe saltato giù dal convoglio, non scende nessuno. Le immagini mostrano solo lui. Feltri, a bordo del vagone, completamente solo.

Il ghanese venne rilasciato. «Le ricerche del vero aggressore continuano», fece sapere la Procura. Ma era una finzione per non danneggiare una inchiesta che aveva a quel punto una piega precisa: ad accoltellare Davide Feltri non era stato né il ghanese né qualunque altro passeggero africano o italiano, clandestino e regolare. Era stato Davide Feltri.

Pochi giorni fa, al ferroviere viene data un'ultima chance: lo riconvocano in Questura e gli fanno ripetere tutta la storia, da capo. E lui ripete tutta la menzogna, pari pari, comprese le accuse al ghanese. Gli mostrano il filmato. Sbianca. Balbetta. Confessa. Lo incriminano per calunnia e pure per interruzione di servizio, per avere fermato il treno.

Non ha fatto un buon servizio a nessuno, il capotreno Feltri: né al ghanese, né a se stesso, né ai suoi colleghi che ogni giorno rischiano aggressioni vere sui treni. E che ora, se capiterà a loro, rischieranno di non essere creduti.

Il catamarano dei record prigioniero del Po in secca

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Silly Cat, nato per solcare l'Atlantico, è bloccato in bacino a Cremona. Manca l'acqua per vararlo

Silly Cat è nato per solcare l'Atlantico: ed è bloccato a Cremona. Quattordici tonnellate di resina e tecnologia che dovevano raggiungere il mare navigando lungo il Po sono inesorabilmente ferme in riva al grande fiume, trasformato in ruscello dalla siccità che arde la Penisola. Al più grande catamarano mai costruito in Italia basterebbe un metro d'acqua per scivolare verso l'Adriatico. Ma appena svoltata l'ansa di Cremona, di acqua nel Po ce ne sono settanta centimetri scarsi, un placido canaletto che si può guadare a piedi dall'Emilia alla Lombardia. Se Silly Cat si avventurasse fin qui, finirebbe arenato senza scampo. Così se ne sta chiuso in bacino, a finire gli ultimi lavori e a scrutare l'orizzonte, sperando in una pioggia che sembra non arrivare mai.

Nelle tante storie dell'estate 2017, anno della grande arsura, quella di Silly Cat evoca orgogli e fantasmi. Di qua l'orgoglio del made in Italy, della tecnologia che per la prima volta produce un catamarano in grado di fare invidia ai saccenti francesi. Di là il fantasma del clima crudele, che una volta affoga e un'altra asseta. Ieri il greto del Po sputa sassi che arrostiscono al sole. Come farà, Silly Cat, a passare da qui?

Lo hanno costruito quaranta chilometri più a nord, a Salvirola, nei cantieri della Ice Yachts, ed è così grosso che per farlo uscire hanno dovuto tirare giù un muro, poi lo hanno issato su un camion che non finiva più e lo hanno portato al porto di Cremona. É il percorso inverso a quello che sedici anni fa fece l'S506 «Enrico Toti», il sommergibile della Marina Militare comprato dal museo della Scienza di Milano. Quell'anno il Po era pieno come una bella donna, il «Toti» risalì senza problemi il fiume dal delta a Cremona, e i guai invece iniziarono quando si dovette metterlo in strada, perché i professori del Politecnico giuravano che avrebbe sfondato l'asfalto e sarebbe ingloriosamente precipitato nelle fogne milanesi. Invece il «Toti» ce la fece, e oggi fa bella mostra di sè al museo.

Silly Cat deve fare il percorso opposto, dalla pianura padana al mare. In strada non ha avuto problemi, perché è più piccolo del «Toti» e non è fatto di ferro. Ma ormai da giorni se ne sta a mollo nel bacino di Cremona, in attesa che le acque risalgano. Non può aspettare all'infinito, perché l'8 settembre lo aspettano a Cannes per il Salone, e da lì passerà direttamente nelle mani del Paperone che lo ha ordinato e comprato. Per andare da Ravenna a Cannes bisogna fare il giro d'Italia, e va bene che Silly Cat viaggia a ventidue nodi e se ci dà dentro anche a ventotto, però prima o poi bisognerà partire.

Così Marco Malgara, il padrone della Ice Yacht che di questo slanciato bestione è l'orgoglioso papà, sta aggrappato alle previsioni del tempo. Preoccupato? «Eh sì». Dentro di sé Silly Cat ha la forza per cavarsela in qualunque tempesta e in qualunque bonaccia, compresi due motori che sono semplicemente quelli della Fiat 500 appena riadattati al mare, «perché sono affidabili e italiani». Ma per arrivare ad alzare i venticinque metri dell'albero, per dispiegare i centoventi metri di randa, insomma per dare modo al catamarano di fare il suo mestiere di catamarano, di una cosa non si può fare a meno, a dispetto di ogni tecnologia: del mare. E oggi il mare è un miraggio perso nella caligine dell'anticiclone, un illusione in fondo alla golene essiccate. Soli il Po può portare Silly Cat al mare. E il Po deve salire, a costo di fare la danza della pioggia.

«Il capo voleva farmi pedinare? Secondo me ce l'ha con la Cisl»

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Cobelli, controllato per presunti permessi sindacali allegri

Luca Fazzo

«Non so perché Barbato ce l'abbia con me. Forse ce l'ha con la Cisl, forse non gli va giù il fatto che io sia stato il più votato alle elezioni. Bisognerebbe chiederlo a lui».

Mauro Cobelli è il vigile-sindacalista che, come emerge dalle carte delle indagini della Procura antimafia, il comandante dei «ghisa» Antonio Barbato aveva pensato di fare pedinare da un'azienda poi finita nei guai. Idea, fortunatamente, rientrata: ma che dà il polso della pesantezza del clima all'interno della polizia locale.

Barbato spiega che tutto nasce dal fatto che lei prendeva i permessi sindacali per farsi i comodi suoi, di sera e nei giorni di festa. L'anno scorso l'ha anche denunciata per truffa allo Stato.

«La denuncia non è mai stata fatta, solo un'informativa che la Procura ha archiviato il giorno stesso. A quel punto io l'ho sfidato a mettermi sotto procedimento disciplinare, come sarebbe stato suo dovere, e lui non ha fatto neppure quello. Evidentemente non aveva in mano niente».

Però lei i permessi sindacali li prendeva, e lasciava sguarnito il servizio.

«Ogni volta i permessi erano autorizzati dal Comune. Sul modo in cui poi li utilizzavo devo rendere conto alla Cisl, non a Barbato».

Ma, perbacco, li prendeva sempre sotto le feste: 2 giugno, Immacolata...

«Li prendevo quando il carico di lavoro è minore per non danneggiare i colleghi».

Sapeva che il comandante aveva pensato di farla pedinare per dimostrare che abusava dei permessi?

«No, l'ho scoperto adesso leggendo i giornali e sono rimasto demoralizzato. Se un comandante riceve nel suo ufficio personaggi simili collegati a gruppi mafiosi e accetta anche solo l'idea di fare cose di questo tipo perde tutta la mia fiducia».

(Oggi Cobelli è segretario per la Cisl di tutto il Comune di Milano).

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