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Barbato fece pedinare un vigile sindacalista I sindacati lo difendono

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Ma oggi il capo dei «ghisa» dovrà consegnare una memoria scritta a sindaco e assessore

Luca Fazzo

La sorte di Antonio Barbato, comandante dei vigili urbani, è appesa alla memoria scritta che stamane dovrà consegnare all'assessore alla Sicurezza Carmela Rozza. È il documento in cui il capo dei «ghisa» dovrà ricostruire i suoi rapporti con Alessandro Fazio, imprenditore privato nel business della sicurezza e l'idea di fargli pedinare un sindacalista scomodo, il cislino Mauro Cobelli. La Rozza leggerà, si farà una sua idea, poi andrà a incontrare il sindaco Beppe Sala. Ed è dal faccia a faccia tra assessore e sindaco che scaturirà, forse già stasera, la decisione sul futuro di Barbato.

Difficile fare previsioni. Fino a sabato sera appariva inevitabile che il rapporto di fiducia tra il comandante della polizia locale e la giunta venisse considerato chiuso. Anche in assenza di provvedimenti dell'autorità giudiziaria (che non ha nemmeno ritenuto di trasmettere al sindaco il contenuto delle carte su Barbato) quanto emerso sui giornali e confermato dalle stesse ammissioni di Barbato, appariva sufficiente a rimuoverlo dall'incarico. Ad apparire inaccettabili non erano tanto i rapporti con Fazio che all'epoca dei fatti era un imprenditore noto e senza ombre (al punto di avere in appalto parte della sicurezza del Palazzo di giustizia) quanto la pensata di far pedinare Cobelli. La pensata, come noto, rimase solo una pensata. Ma suonava significativa di una modalità di rapporto col personale lontana dagli standard richiesti a un dirigente pubblico.

Ieri, però, a modificare radicalmente il quadro arriva un fatto nuovo: la difesa a spada tratta di Barbato da parte di quasi tutte le sigle sindacali dei vigili. Ci si aspettava che la semplice idea di far pedinare un sindacalista facesse indignare i sindacalisti stessi e invece da tutte le sigle sindacali del Comune arriva una posizione garantista nei confronti del «capo». Dal Sulpm alla Cgil, si chiede che Barbato rimanga al suo posto. Nemmeno la Cisl, il sindacato di Cobelli, chiede la testa del comandante.

Perché i sindacati difendono Barbato? Forse perché comunque è un comandante che viene dai ranghi interni della polizia locale e che è arrivato ai vertici del corpo facendo carriera proprio nel sindacato. Ma conta anche il fatto che dietro l'idea di far pedinare Cobelli ci fosse un problema, l'utilizzo disinvolto dei permessi sindacali, ben conosciuto dagli altri delegati dei vigili. Il «caso Cobelli» è noto da tempo, ha provocato malumori e brontolii tra la base. E che alla fine a rimetterci il posto dovesse essere Barbato è parso paradossale.

Ieri mattina, quando legge le dichiarazioni dei sindacalisti, la Rozza viene presa in contropiede. Certo, in consiglio comunale c'è chi - a destra e a sinistra - chiede il licenziamento del comandante e Sala non può fare finta di niente. Ma i giochi sono tutti aperti.


Fuorilegge e a piede libero: allo sbando 54mila stranieri

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Non hanno diritto allo status di rifugiato e non hanno avuto decreto di espulsione. E fanno ricchi solo i legali

C'è il ragazzo bengalese che l'altro ieri vagava piangendo per il tribunale di Milano, abbandonato dal suo avvocato, alla ricerca della cancelleria dove si presentano i ricorsi. E c'è l'ivoriano che a Siena accoltella l'autista del bus. O il senegalese che a Follonica aggredisce un altro autista. C'è di tutto, nel vasto mare degli stranieri che vagano per l'Italia dopo essersi visti respingere la richiesta di asilo. I buoni, i violenti, gli sbandati. L'unica certezza è che è un mondo che nessuno controlla, né per aiutarli né per cacciarli. Centinaia di migliaia di esseri umani, quasi tutti giovani uomini, vivono in un limbo a ridosso della clandestinità: a volte in attesa dell'esito dei ricorsi, a volte semplicemente abbandonati a se stessi.

I numeri sono impressionanti ed in continua ascesa. Le richieste di asilo presentate nel 2015 sono state 83.970; un anno dopo, nel 2016, erano già salite a 123.600, con un aumento del 47%; nei primi sei mesi del 2017 sono state 72.744, il che significa - se il flusso resterà costante nei prossimi sei mesi - un aumento su base annua di un altro 17 per cento. Il problema vero è che gli oltre 280mila stranieri che in questi due anni e mezzo hanno chiesto lo status di rifugiato se lo sono visti respingere nella grande maggioranze dei casi, ma sono rimasti sul territorio nazionale: in parte con loro diritto, avendo presentato ricorso in tribunale; in parte di fatto, visto che i numeri delle espulsioni sono sostanzialmente nulli.

Vengono cacciati fisicamente solo quelli che commettono reati, e spesso neppure loro. Gli altri vagano, si arrangiano, ingrassando il business dell'accoglienza, oppure vivendo di espedienti o di piccoli reati, oppure uscendo semplicemente di testa. Come Said Mamoud Diallo, il guineano che dopo essersi visto respingere dalla prefettura di Sondrio l'asilo per motivi umanitari, il 17 luglio alla stazione Centrale di Milano ha accoltellato senza motivo un poliziotto.

I dati del ministero degli Interni dicono che una parte consistente delle richieste di asilo non viene nemmeno esaminata: dei 123.600 che hanno fatto domanda nel 2016, oltre trentamila non si sono sentiti rispondere nè sì nè no. Dei 91mila casi esaminati, il 40 per cento ha ottenuto una qualche forma di accoglimento: dallo status di rifugiato, il più ambito perché garantisce cinque anni di soggiorno ma concesso con parsimonia, alla protezione sussidiaria (tre anni) o umanitaria (un anno). Il 60 per cento, oltre 54mila persone, si sono viste dire di no su tutta la linea. E sono andate ad ingrossare il limbo dei disperati che vagano per il Paese. Inevitabile, in questi numeri fuori controllo, che si sviluppino forme di aggressività e di devianza.

Fin quando presentano ricorsi, gli stranieri non possono essere espulsi. Così intorno a loro è fiorito un business di avvocati che si fanno pagare fino a mille euro per stendere ricorsi che vengono quasi tutti rigettati ma intanto ingolfano i tribunali e vanno a pesare sui bilanci della giustizia: la parcella dei legali viene infatti pagata dal ministero, perché i profughi sono ammessi al gratuito patrocinio a spese dello Stato. La escalation di queste spese è impressionante: per il gratuito patrocinio l'Italia spendeva nel 2008 trenta milioni l'anno, che nel 2013 erano diventati sessanta milioni e nel 2014 (ultimo dato disponibile) addirittura 88 milioni.

A beneficiarne sono state, nel 2014, 133mila persone, quasi tutte richiedenti asilo. Ma i veri beneficiari sono stati gli avvocati che si spartiscono l'affare. A volte si tratta di avvocati legati alle Onlus che accolgono i profughi, a volte appartengono a un sottobosco che campa producendo ricorsi-fotocopia e poi abbandonando il cliente: spesso già dopo il «no» del tribunale, senza seguirlo neanche nel ricorso in appello. Un malcostume ben conosciuto nelle cancellerie per la Protezione internazionale create in tutti i tribunali italiani, ma contro il quale apparentemente non c'è rimedio: altro lato oscuro dell'immigrazione di massa, dramma per molti e affare per altri.

Dalle carte dell'inchiesta spuntano politici, manager e anche un don

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Tra i buoni contatti del clan un candidato della lista Sala e Tomarchio, direttore generale quando governava Pisapia

Luca Fazzo

Preti, politici, dirigenti di spicco del Comune di Milano, massoni, secondini Le carte dell'inchiesta che fa traballare la poltrona del comandante dei «ghisa», Antonio Barbato, rivelano il brulicare frenetico di attività della cosca legata al clan siciliano dei Laudani.

BARBATO: MONITORAVO

Interrogato dai pm, il comandante della Polizia locale ammette di aver ricevuto da Alessandro Fazio, imprenditore poi arrestato, l'offerta di pedinare il sindacalista dei vigili Mauro Cobelli: «Io avevo necessità di monitorare Cobelli in quanto pendeva una querela che lui stesso aveva fatto nei miei confronti mentre quella che io avevo fatto nei suoi confronti era stata archiviata (...) mi incontrai ancora una volta con Fazio credo al bar Cimmino di piazza Fontana e in quella occasione mi chiese i dati di Cobelli, disse che era disponibile a fare questa attività di seguire Cobelli per due o tre giorni ma io non diedi corso a questa sua richiesta (...) Palmieri (ex sindacalista diventato faccendiere, ndr) non aveva l'indirizzo di casa del vigile Cobelli mentre invece ovviamente noi al comando lo avevamo».

LA MAMMA DEL CAPO

Nel materiale sequestrato al momento degli arresti, secondo la Squadra Mobile si apprende che il faccendiere Palmieri interviene presso Vincenzo Giudice, ex presidente del consiglio comunale, per far spostare in un altro ospedale la madre del comandante dei vigili urbani, Barbato, ricoverata al Sacco.

I BIGLIETTI DEI POLITICI

Nelle stesse perquisizioni saltano fuori una miriade di biglietti da visita di politici locali e nazionali, prevalentemente di centrodestra, ma senza traccia di contatti diretti.

IL GREMBIULINO

A contatto col clan, e citato nelle intercettazioni come Gran Maestro, una vecchia conoscenza dell'Antimafia milanese: Angelo Fiaccabrino, ex socialdemocratico, massone, che nel 1992 venne arrestato nell'indagine sull'autoparco della mafia in via Salomone. Qui appare come Maestro venerabile della loggia «Might and Freedom» del partito del Progresso sociale.

I MANAGER DEL COMUNE

Buoni rapporti il clan intratteneva con Giuseppe Tomarchio, direttore generale del Comune di Milano all'epoca di Giuliano Pisapia, oggi riciclatosi in manager della sicurezza privata; nonché con Carmelo Maugeri, funzionario dell'assessorato ai Lavori pubblici e responsabile per il Comune degli appalti in tribunale, già citato nell'inchiesta Anac sugli appalti Expo a Palazzo di giustizia. Ora si scopre che Maugeri aveva ricevuto da Alessandro Fazio la delega a vendere una villa a Brebbia, vicino al Lago Maggiore.

«CAVALCARE I GRILLINI»

Nicola Fazio (fratello di Alessandro, anche lui poi arrestato, ndr) incontra l'imprenditore Alessandro Colombo, che si lamenta di un pagamento che gli tocca fare: «A questo qua devo dargliene almeno dieci prima di Natale (...) però quello da cui mi ha portato mi sembra assolutamente attendibile (...) cioè questo qua è il portavoce di Di Maio, se non va bene questo io non lo so... Perché se le cose vanno bene meglio cavalcare Di Maio e company piuttosto che.. capito? Meglio stargli dietro».

VOTO BIPARTISAN

Orazio Elia (arrestato pure lui, ndr) discute di politica con alcuni compari: e invita a votare Ernesto Sarno, candidato alle comunali nella lista Sala. «Ma quindi chi è che dobbiamo votare?» «Questo qui! Ernesto Sarno! » «Ah figa bisogna votare il Pd» «Non voti il Pd voti lui.. Mica devi votare il Pd, tu voti lui..dobbiamo cercargli di dare più voti possibili a lui .. se vince» «Dammi i santini che li distribuisco in famiglia». Per chi non si rassegna a votare a sinistra è pronta l'alternativa: «Comazzi aveva due case di riposo negli anni 90, il figlio si candida, così chi vorrebbe votare Forza Italia gli dai Comazzi».

GLI AFFARI DEL DON

Il 4 novembre un terzetto di uomini legati al clan va nella settecentesca Villa Soncino di Cinisello Balsamo a trovare don Giuseppe Moscati, prete con la passione del business. Al prete offrono il loro appoggio per una variante che autorizzi un impianto per il tennis dentro la villa. In cambio, don Moscati accetta di entrare nel 50 per cento di una società del clan per produrre fatture false, e incamera la sponsorizzazione di un musical su Madre Teresa di Calcutta.

Il detenuto clandestino è disabile La Cassazione dice no all'espulsione

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Per lui era stato disposto il rimpatrio in alternativa al carcere, ma per i giudici prevale il diritto alla salute. Con l'assegno Inps

In carcere non ci può stare perché è disabile. Ma espellerlo non si può perché, viste le sue condizioni fisiche, rimandandolo a casa si violerebbe il suo inviolabile diritto alla salute. E quindi l'ipotesi più probabile è che un detenuto del carcere perugino delle Capanne, condannato in via definitiva per reati tutt'altro che lievi, se ne torni in libera circolazione per la città, con la benedizione della Cassazione. È una situazione paradossale, quella innescata dalla sentenza della Suprema Corte depositata ieri, che ha accolto il ricorso presentato dal detenuto di origine africana. Dopo che la sua condanna era diventata definitiva, l'uomo aveva chiesto al tribunale di Sorveglianza di Perugia che la detenzione in carcere venisse sostituita con l'espulsione dal territorio italiano. Ma appena i giudici hanno accolto la sua richiesta, il detenuto attraverso i suoi legali ha impugnato il decreto di espulsione. E si è visto dare ragione.

L'uomo, a quanto pare, è effettivamente malconcio: tempo fa gli è stata amputata una gamba, ed è costretto a utilizzare per spostarsi una carrozzina o una protesi. Situazione scomoda, ma non peggiore di quella di decine (e forse centinaia) di detenuti che però vengono ugualmente tenuti in carcere. E infatti l'uomo si è ben guardato dal chiedere, come sarebbe stata sua facoltà, la sospensione della pena per motivi di salute, chiedendo invece di essere rispedito in patria. Il giudice di sorveglianza aveva accolto la sua richiesta. E aveva anche stabilito che le condizioni fisiche del detenuto non impedivano affatto l'espulsione dal Paese: «La disabilità non rientra tra le condizioni che il legislatore ha posto a fondamento del divieto di espulsione», per il giudice del capoluogo umbro.

A quel punto i legali del migrante hanno ricorso in Cassazione spiegando che l'uomo manca dal paese di provenienza da oltre trent'anni, non vi ha più né parenti né amici che possano prendersi cura di lui. E che il suo paese non prevede alcun tipo di assistenza per le persone disabili ed è anzi «aduso alla discriminazione delle stesse». Mentre invece, spiegava, in Italia è stata riconosciuta la sua invalidità al cento per cento e gli viene erogata una regolare pensione Inps. Notizia a dire il vero curiosa, visto che - a leggere la sentenza - era in Italia senza permesso di soggiorno.

I giudici della prima sezione della Cassazione hanno stabilito che il suo diritto a restare in Italia si basa su una interpretazione «costituzionalmente orientata» delle norme sull'immigrazione e sui principi affermati dalla Corte europea dei diritti dell'uomo. L'espulsione dell'uomo potrebbe ledere il «nucleo irriducibile» dei diritto alla salute previsto dall'articolo 32 della Costituzione. Quindi bisogna valutare «caso per caso». Quindi l'ordinanza del giudice di Perugia viene annullata, e il caso andrà rivisto.

Gli spioni del web conoscono i debiti di 400mila italiani

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Gli hacker hanno rubato dai computer di Unicredit le condizioni di alcuni prestiti. Ma nessuno è a rischio

Un'arma straordinaria di ricatto nelle mani di criminali senza volto e con quattrocentomila vittime potenziali. Questo, secondo quanto risulta al Giornale, sono i dati che un gruppo di hacker ha sottratto dai computer di Unicredit. Nelle mani dei banditi non ci sono solo i nomi e i codici Iban dei clienti, come si riteneva finora. C'è anche l'esposizione di ogni singolo cliente nei confronti della banca, con i finanziamenti ricevuti nel corso degli anni e ancora aperti, forse anche con il tasso praticato. Un dato la cui segretezza è importante per qualunque cliente, e che nel caso degli imprenditori diventa addirittura vitale, è oggi nelle mani dei cybercriminali che hanno bucato i sistemi di difesa del colosso.

Era stata la stessa Unicredit il 26 luglio a rendere noto, con una denuncia alla Procura della Repubblica di Milano, di essere stata vittima di un attacco in due ondate successive, la prima tra il settembre e l'ottobre del 2016 e una seconda a cavallo tra giugno e luglio. «Si ritiene che nei due periodi siano stati violati i dati di circa 400mila clienti in Italia», aveva specificato Unicredit, garantendo che «non è stato acquisito nessun dato, quali le password, che possa consentire l'accesso ai conti dei clienti o che permetta transazioni non autorizzate. Potrebbe invece essere avvenuto l'accesso ad alcuni dati anagrafici e ai codici Iban».

Purtroppo le cose non stanno esattamente così. È vero che le pin e le password per movimentare i conti non sono state rubate, quindi nessun cliente rischia di trovarsi col conto svuotato. Ma nel bottino dei pirati è finito il dato cruciale dell'esposizione di ognuno dei 400mila clienti verso la banca. Un dato prezioso nelle mani di ricattatori, strozzini, concorrenti.

Come è stato possibile? Nell'immediatezza, Unicredit aveva indicato in un «partner commerciale esterno italiano» il canale utilizzato dai pirati per penetrare le sue difese. Esatto. A venire impiegate per superare gli schermi di sicurezza sono state sei chiavi di accesso nelle disponibilità di una azienda romana, da anni partner finanziario del colosso di piazza Gae Aulenti. Resta da capire perché un partner esterno fosse in possesso di queste chiavi e perché gli alert tecnologici di cui Unicredit sicuramente dispone non siano suonati al momento della prima incursione, quella del settembre-ottobre, e neppure tra giugno e luglio, quando l'attacco si è ripetuto. Solo la mattina del 26 luglio, quando ormai il danno era diventata una voragine, i legali di Unicredit hanno salito le scale del palazzo di giustizia di Milano per denunciare l'accaduto e scatenare la caccia ai colpevoli.

La caccia si annuncia, come spesso accade in questi casi, assai complessa. Il grimaldello, le sei chiavi d'accesso, è stato succhiato a Roma: e da qui parte la ricerca del dipendente (o ex dipendente) infedele che potrebbe avere girato, per soldi o per vendetta, le chiavi agli hacker. Nei giorni scorsi Unicredit aveva cercato di circoscrivere in qualche modo la gravità della perdita, facendo sapere che potevano essere stati violati i dati dei clienti della finanziaria che si erano rivolti per un prestito garantito dalla cessione del quinto dello stipendio. Ma ormai sta apparendo chiaro che i dati sensibili sfuggiti al controllo riguardano l'intero parco dei clienti hackerati.

La talpa potrebbe essere individuata, prima o poi. Ma per dare un nome ai «cervelli» dell'operazione servirà risalire a ritroso le tracce informatiche lasciate dall'incursione. Un lavoro non impossibile ma che quasi sicuramente porterà a server assai lontani dall'Italia, in uno dei tanti paradisi informatici in cui le richieste di assistenza giudiziaria si scontrano con mille ostacoli. È lì, oltre la Cortina di ferro delle rogatorie, che oggi sono imboscati i segreti di Unicredit, e dei suoi quattrocentomila clienti.

Da Varese a Oropa: cappelle e santuari tappe da via Crucis

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In mostra alla Regione il tour fotografico di Marco Beck Peccoz sulle nove mete

Luca Fazzo

Arrampicati tra i laghi e le Alpi, in quell'arco di terre che sta a cavallo tra il Piemonte e la Lombardia: figli tangibili di devozione a Dio o alla natura, o a quel terreno trascendente dove le due entità finiscono col coincidere. Nacquero così, i Sacri Monti, tra il Quattrocento e il Cinquecento. E così li racconta la mostra che oggi si apre a Palazzo Lombardia, con le immagini che il fotografo Marco Beck Peccoz ha raccolto, peregrinando di monte in monte, come i viandanti che in quei secoli di fatiche immense portavano la loro devozione dall'uno all'altro.

Sono nove in tutto, i Sacri Monti della mostra: sette in territorio piemontese, due in Lombardia. Il più antico è in Val Sesia, a Varallo, voluto dai frati che tornavano dalla Terra Santa e vollero lì replicare i luoghi di Cristo, in modo da consentire ai fedeli non in grado di affrontare il lungo viaggio verso Gerusalemme e la Galilea di inginocchiarsi davanti a una loro riproduzione fedele. Ma la svolta vera, il potente impulso, venne quasi mezzo secolo dopo per opera dell'arcivescovo di Milano, Carlo Borromeo, futuro santo e destinato a entrare nell'immaginario collettivo per il Sancarlùn, la gigantesca statua che lo ritrae svettante su Arona.

Fu Borromeo, che del Concilio di Trento era stato protagonista, a imporre la Controriforma in terre dove le predicazioni eretiche avevano spesso attecchito: e la realizzazione dei Sacri Monti fu una sorta di riconquista del territorio, di marmorea rivendicazione di controllo e dominio. Sotto San Carlo venne ristrutturato il santuario di Varallo Sesia e si diede il via ai lavori per quelli di Crea ed Orta, e anche dopo la morte di Borromeo nel 1584 si continuò realizzando il Sacro Monte di Varese, che è forse il più conosciuto dai lombardi; e poi in sequenza Oropa, Ossuccio, Domodossola, Ghiffa e Belmonte. Sorgevano uno dopo l'altro, quasi sempre in luoghi già al centro di forme locali di devozione, per la presenza di cappelle o santuari minori, e spesso eredi di vecchi culti pagani. Nascevano sulla base di progetti minuziosi e rigidi, governati dalla «Fabbriceria» che ne dirigeva i lavori, e ne garantiva l'ortodossia dei contenuti.

La moda - per così dire - dei Sacri Monti, dall'Italia del nordovest si diffuse nel resto del Paese e in diverse nazioni dell'Europa cattolica. Ma il cuore, il nucleo storico, resta questo raccontato nelle foto di Beck Peccoz, nel racconto voluto d'intesa tra le due Regioni che lo ospita. Sono architetture semplici, razionalmente calate nel territorio, come racconta bene la Piazza dei Tribunali che fa parte del santuario di Varallo Sesia, ma visibilmente forti nella scelta di marcare il territorio, di rivendicare con determinazione la presenza cristiana nei territori scoscesi su cui incombono le Alpi. E infatti sono massicci, imponenti quasi come - e lo si coglie bene nelle vedute aree - si trattasse di fortezze militari.

Oggi sono prevalentemente mete di gite domenicali, destinazione ideale di pedalate amatoriali. Ma la mostra ne restituisce anche la dimensione mistica, la carica quasi violentemente religiosa delle rappresentazioni che vi sono ospitate, comprensive di mostri, draghi e demoni. «La realizzazione di un'opera di architettura e di arte sacra in un paesaggio naturale, per scopi didascalici e religiosi, ha raggiunto la sua più alta espressione nei Sacri Monti dell'Italia settentrionale», si legge nelle motivazioni con cui l'Unesco ha inserito i nove santuari tra i patrimoni mondiali dell'umanità. Ma l'Unesco è atea, o quantomeno agnostica, e quindi sfugge alle implicazioni cruciali che presiedono alla loro nascita, alla sacralizzazione della montagna che li ispira: «Il monte è sacro e il sacro ha come palcoscenico privilegiato il monte».

La mostra «Lo sguardo sui Sacri Monti» viene inaugurata oggi alle 12 a Palazzo Lombardia e rimane aperta fino al 5 gennaio 2018. Ingresso da via Galvani 27. Orari d'apertura: dal lunedì al venerdì, dalle 10,30 alle 18,30.

Appalti Expo irregolari Comune contro giudici «I soldi? Facevano loro»

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Ricorso al Tar dopo la condanna dell'Anac: 12 milioni di euro spesi senza gara pubblica

Chi è il mandante del gigantesco pasticcio dei soldi spesi in Tribunale in nome di Expo, distribuendo appalti sottobanco ai soliti noti legati a Finmeccanica? Il Comune, preso di mira il mese scorso dalla delibera dell'Anac, l'authority anticorruzione di Raffele Cantone, non accetta di restare da solo a rispondere dei milioni di euro investiti fuori da ogni regola in tecnologia informatica, segnaletica, cervelloni segreti, centraline d'ascolto e quant'altro. E con un ricorso al Tar del Lazio, cui chiede di annullare la delibera dell'Anac, Palazzo Marino punta esplicitamente il dito contro i vertici degli uffici giudiziari milanesi. Hanno deciso tutto loro, noi abbiamo eseguito e basta.

La delibera è stata approvata nei giorni scorsi dalla Giunta comunale e segna un punto di svolta nella vicenda originata dagli articoli del Giornale e del blog Giustiziami che a partire dal 2014 hanno denunciato come 12 dei 15 milioni di euro stanziati per ammodernare la giustizia milanese in vista di Expo siano stati spesi senza gara pubblica, aggirando le normative sugli appalti. Finora la difesa di Palazzo Marino era stata affidata ai due dirigenti, Carmelo Maugeri e Nunzio Dragonetti che firmarono gli affidamenti diretti dei lavori. Ora invece a scendere in campo è direttamente la Giunta, che nella delibera di venerdì scarica tutte le responsabilità sui vertici del tribunale, della Procura generale, della Procura e della Corte d'appello. Uno scontro frontale che irrompe nelle relazioni finora assai serene tra la nuova giunta e Palazzo di giustizia. Ma evidentemente la posta in gioco è troppo alta perché il bon ton prevalga: di mezzo non c'è solo il provvedimento dell'Anac ma anche l'inchiesta della Corte dei conti con il rischio di richieste di risarcimento, e il procedimento penale aperto da ben tre Procure (Milano, Brescia e Venezia) dove potrebbe scattare l'accusa di turbativa d'asta.

Nella delibera di Giunta si sottolineano non solo i danni di immagine che il Comune ha ricevuto dal procedimento dell'Anac ma anche la paralisi di fatto in cui in futuro, in casi analoghi, si troverebbe il Comune, stretto tra indicazioni che vengono da fonti autorevoli quali i magistrati e le prassi imposte dall'autorità anticorruzione. Alla domanda cruciale, ovvero se si potesse affidare i lavori direttamente alle aziende in nome della presunta continuità con appalti precedenti, il Comune nemmeno risponde. Ciò che conta è che i fabbisogni, le valutazioni e le scelte operative erano decise dai rappresentanti degli uffici giudiziari d'intesa con il ministero della Giustizia e il Comune si limitava a tradurre in atti amministrativi le indicazioni dei magistrati. Se qualcuno deve finire nei guai, dicono a Palazzo Marino, non siamo noi.

Il Cavaliere vince in appello Lario gli restituirà 43 milioni

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Il tribunale revoca all'ex moglie l'assegno mensile da 1,4 milioni. Berlusconi: «Storia che mi addolora»

Quando nel maggio scorso la Cassazione rivoluzionò il diritto agli alimenti per i divorziati, era apparso inevitabile che la nuova linea sarebbe stata applicata anche al divorzio più ricco e raccontato d'Italia: quello tra Silvio Berlusconi e la sua seconda moglie Miriam Bartolini, meglio nota come Veronica Lario. Se un ex coniuge è in grado di cavarsela da sola, aveva detto la Cassazione, non ha diritto a essere mantenuto. E puntualmente ieri la Corte d'appello di Milano traduce in pratica il nuovo orientamento, e per la Lario è una batosta. L'assegno da un milione e 400mila euro al mese che le era stato riconosciuto in primo grado viene azzerato. Non ha più diritto a nulla, d'ora in avanti dovrà bastare a se stessa. E anzi dovrà restituire gli arretrati, circa 43 milioni: «Io li prenderei in lire perché l'euro mi sta molto antipatico», è ieri sera il commento di Berlusconi. Che per il resto dice: «Non ne parlo, è una vicenda che mi amareggia».

«L'attuale condizione non solo di autosufficienza ma di benessere economico della signora Bartolini tale da consentirle un tenore di vita elevatissimo, comporta il venire meno del diritto a percepire un assegno divorzile»: questo è il passaggio finale della sentenza scritta dal giudice Maria Grazia Domanico. A questa conclusione la Corte arriva dopo avere misurato punto per punto i torti e le ragioni addotte dagli avvocati delle due parti, che hanno - con la crudezza inevitabile in queste circostanze - reso noti dettagli privati.

Berlusconi ha fatto presente che negli ultimi tempi la ex moglie ha incassato 26mila euro al giorno di alimenti, che ha liquidi per sedici milioni e gioielli per dieci, e che possiede case a Milano, a Bologna, a Porto Rotondo, a Londra, a New York e in Engadina, che valgono ottanta milioni e da sole basterebbero a farla vivere di rendita. Ma i dettagli più espliciti sul proprio tenore di vita li ha forniti in realtà proprio la Lario, che ha elencato punto per punto i comfort cui era abituata e che chiedeva di poter mantenere: dalle dodici persone di servizio a Macherio, al personal trainer, all'estetista personale, ai venticinque addetti alla sicurezza, ai voli in «massima classe» e in aereo privato, alle crociere ai Caraibi sullo yacht Morning Glory.

Sull'altro piatto la Lario ha posto il suo ruolo nella famiglia: «Ha personalmente allevato i propri tre figli e si è fatta carico del loro accudimento coadiuvata, solo in certi periodi, dalla madre e dalla zia». D'altronde «la signora Bartolini non può svolgere lavoro e non lo ha mai svolto, se non per un breve periodo quando era molto giovane e svolgeva attività di attrice, lavoro che ha interrotto accondiscendendo alla volontà del coniuge».

Decisiva, nella sentenza Berlusconi-Bartolini, è stata la profonda svolta impressa dalla Cassazione nel maggio scorso, che i giudici milanesi fanno propria: garantire il tenore di vita «rischia di ancorare le decisioni a un modello tradizionale di matrimonio e dei rapporti tra coniugi ed ex coniugi che appare superato nella relata sociale attuale». Col divorzio, dicono, si apre una fase nuova per entrambi. Ma qualche peso nella decisione sembra averlo avuto il comportamento della Lario durante il processo: «Sarebbe stato rilevante conoscere quantità e qualità delle spese oggi sostenute da Miriam Bartolini» che «pur sollecitata dalla Corte non ha ritenuto di adempiere a tale suo onere probatorio». La Lario, rimarcano i giudici, non ha neanche voluto dire dove viva oggi. E comunque quella di non lavorare, scrivono, è stata una sua scelta.


Cellula Isis libera di colpire. "Non è possibile arrestarli"

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Il pm: carcere per 5 tunisini. No del gip e sì del Riesame. Dovrà decidere la Cassazione. Intanto nessuna custodia

Chissà cos'altro era necessario perché un giudice si convincesse della sua pericolosità. Bilel Chiahoui, tunisino, fu catturato nell'agosto dell'anno scorso al termine di una caccia all'uomo frenetica, che impegnò cento carabinieri in una corsa contro il tempo, dopo che sulla sua pagina Facebook aveva scritto «voglio morire da martire», e insieme alla data di nascita aveva messo quella di morte: il giorno stesso, 11 agosto 2016, a Pisa. Per bloccare l'incubo di un attentato suicida l'intera Toscana vene passata al setaccio. Chiahoui venne catturato ed espulso.

Eppure meno di un anno dopo un giudice del tribunale di Torino ha ritenuto che Bilel non fosse un terrorista, un pericolo per la società civile, e ha rifiutato gli ordini di cattura chiesti dal pm torinese Andrea Padalino contro di lui e altri quattro estremisti islamici della stessa cellula: tutti finti studenti, arrivati in Italia sostenendo di iscriversi alla università di Torino dove non hanno mai messo piede. Ora, accogliendo il ricorso della Procura, il tribunale del Riesame ha ordinato l'arresto del quintetto, ma - come vuole la legge - il provvedimento resta privo di efficacia, in attesa dell'eventuale ricorso in Cassazione. E così si produce la situazione surreale che vede tre terroristi tranquilli a casa loro, dove si trovano agli arresti domiciliari per lo spaccio di droga con cui si mantenevano mentre progettavano la jihad, senza che li si possa arrestare; mentre Chiahoui e un altro espulso sono almeno a distanza di sicurezza dal territorio italiano.

Eppure sulla pericolosità della cellula era difficile avere dubbi, da ben prima che Chiahoui annunciasse la sua trasformazione in kamikaze. Dello stesso gruppetto facevano parte anche Wael Labidi e Khaled Zeddini, partiti nel 2015 dall'Italia per la Siria per unirsi all'Isis e caduti combattendo per lo Stato islamico. Chiahoui e gli altri - pedinati e intercettati - celebrano gli amici come martiri, «che Dio lo abbia in gloria», e portano il cuscus in moschea per il banchetto funebre in loro onore. D'altronde uno del quintetto, Bilel Mejiri, era stato fotografato in Tunisia tra la folla che applaudiva un comizio di Abu Ayadi, il leader del gruppo terrorista di Ansar al-Sharia ucciso poi dai bombardamenti americani nelle terre del Califfato; un altro, Marwen Ben Saad, viene registrato dal Ros dei carabinieri mentre dice: «Se andassimo a farci martiri in Siria sarebbe meglio», e poi ancora «Io li colpisco, sparo, giuro! Li distruggo, sì, è facile, io farei un lavoro pulito»; e Chiahoui pubblicava su Facebook le foto dell'amico morto combattendo: «Uomo in un tempo di pochi uomini. Wael, ti adoro in Allah».

Eppure, il 21 giugno scorso il giudice preliminare Stefano Vitelli (a cui discolpa si può dire soltanto che è un garantista recidivo, essendo lo stesso giudice che assolse Alberto Stasi dall'accusa di avere ucciso la fidanzata) rifiuta di emettere le ordinanze di custodia, lasciando i cinque a piede libero. Secondo il giudice, i proclami pro Isis «rientravano nell'esercizio del diritto inviolabile alla libera manifestazione del pensiero», mentre gli annunci di Chihahoui non dimostravano nulla, visto che non aveva giurato fedeltà all'Isis ne risultava «un organico arruolamento nella suindicata organizzazione terroristica».

Ora il Tribunale del riesame ribalta tutto, riconoscendo quello che tutti sanno: che le bande islamiche legate all'Isis non sono una organizzazione rigida dove si entra con tessera e giuramento, ma «strutture caratterizzate da estrema flessibilità interna» i cui «soggetti possono essere arruolati anche di volta in volta con una sorta di adesione progressiva», «anche mediante adesione telematica». Ordine di cattura per tutti, dunque: ma per ora è come se non esistesse.

Holding da 150 miliardi. I beni presi a Riina? Briciole per "Mafia spa"

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Sequestrati al boss un'ottantina di milioni in passato e 1,5 a luglio. Il vero tesoro è altrove

C'è una certa eleganza nel fatto che l'ultimo bene sequestrato a Totò Riina, prima che rendesse l'anima a Dio, sia stato un luogo sacro: i terreni del Santuario Maria Santissima del Rosario, nella sua Corleone. Anche quei campi, destinati a sostenere con i loro frutti l'attività pastorale, finanziavano in realtà il vecchio padrino e il suo clan. E ora che Riina non è più tra noi, forse quei beni potranno tornare nelle mani della Diocesi di Monreale, che all'indomani del sequestro si era mostrata comprensibilmente costernata.

Insieme ai sacri terreni, i carabinieri del Ros nel luglio scorso portarono via ai familiari di Riina 32 conti correnti, per un totale di un milione e mezzo di euro. Importo cospicuo per un comune mortale, un po' deludente se confrontato al mito delle ricchezze di Cosa Nostra, agli studi macroeconomici che ne fanno la prima azienda del Paese, 150 miliardi di fatturato annuo, più di Exor, il doppio dell'Enel, il triplo dell'Eni. Così in quella occasione - e a maggior ragione oggi, con i resti di Riina avviati a illacrimata sepoltura - fu inevitabile tornare a interrogarsi sulla distanza profonda tra la mafia raccontata dalle analisi, la Spa planetaria di cui parlano pentiti e statistiche, e la realtà di beni terrigni, opulenti e rozzi che traspare dai provvedimenti di sequestro. Che poi è la stessa distanza tra l'immagine di un moderno boss imprenditore, ad di una Cosa Nostra ltd in grado di muoversi nell'economia globale, e il viddano semianalfabeta sepolto da un quarto di secolo in un carcere di massima sicurezza. Quale era il vero Totò Riina, come convivevano in lui i due volti? La domanda è cruciale, perché ne porta con sé un'altra: se Totò è stato fino alla fine il capo dei capi, dove approda adesso lo scettro del comando, a chi finisce il pacchetto di controllo della company?

Se si frugano i 24 anni trascorsi dal giorno in cui «Ultimo» e «Vichingo» tirarono giù di peso 'u curtu dalla Citroen del suo autista, l'elenco dei sequestri a ripetizione di beni che hanno colpito lui, la sua famiglia fino al centesimo grado di parentela, e poi complici, compari e prestanome, non si può che restare delusi. Tesori, indubbiamente: ma tesori fatti di villini a Mazara e negozi di auto usate, libretti di risparmio e capannoni di periferia. L'ultimo censimento completo dei beni di Riina risale ormai a molti anni fa: 300 appartamenti e uffici, 38 appezzamenti di terreno, 1.685 ettari coltivati a vigneto. Valore totale, un'ottantina di milioni sequestrati dallo Stato. Okay, ma il resto?

La spiegazione più ovvia è che quelli non sono i beni di Cosa Nostra ma il patrimonio personale di Riina, i fringe benefit accumulati negli anni. E che, al di sopra di questo inventario un po' mezzadrile, esista un altro livello, un universo parallelo dove i profitti miliardari di Cosa Nostra si sono riversati nel corso degli anni, riversandosi nella new economy e lavandosi nei circuiti della finanza. È chiaro che non potevano essere né Riina né Provenzano, che non hanno mai visto un computer in vita loro, a dirigere questo valzer di quattrini, e che anche lì, da qualche parte, devono muoversi le menti raffinatissime di cui parlava Falcone. Queste menti adesso con chi si rapporteranno, a chi daranno conto? Il principio è quello della continuità aziendale, come spiegò lo stesso Riina ai colletti bianchi che avevano fatto affari con la vecchia mafia palermitana, da lui sterminata e soppiantata: «Adesso rendete conto a me». Oggi è lui ad uscire di scena, non a colpi di kalashnikov in una strada di Palermo ma intubato nel verde asettico di una stanza d'ospedale. Poiché il crepuscolo di Riina è stato lungo, la transizione ha potuto venire trattata e organizzata con calma e cautela. E da qualche parte forse c'è già qualcuno - e non è detto che sia Matteo Messina Denaro - pronto a presentarsi agli gnomi che hanno le chiavi del caveau a ricordare che il padrino è morto, ma la ditta è viva.

Strasburgo, i segreti del tribunale ​che deciderà sul futuro di Berlusconi

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Il Palazzo è sold out per l'udienza, allestita una sala video. E il leader presenta un'altra memoria difensiva

Completo, tutto esaurito. All'antivigilia dell'udienza 5428/13, «The case of Berlusconi versus Italy», se si chiede al portinaio della Corte come entrare ad assistere, ti guarda come se gli avessi chiesto un biglietto per il derby mezz'ora prima del fischio d'inizio. «Niente da fare, è pieno da settimane»: e anche dal suo sguardo si capisce che qui sta per accadere qualcosa di straordinario. Sono le cinque di lunedì sera, e sul Palazzo dei Diritti dell'Uomo è già scesa la notte. Le ultime comitive di studenti in visita sciamano vociando verso le luci della Petit France. Il colosso di vetro e cemento dal nome impegnativo resta vuoto. Un braccio d'acqua, il canale che va verso il Reno, lo separa dai giganteschi santuari della burocrazia comunitaria: il Parlamento, il Consiglio d'Europa. Basterà questo braccio d'acqua a tenere lontane le voci della politica da quelle del diritto, a lasciare che domani i 17 giudici chiamati a sciogliere il caso 5428 decidano con serenità da giuristi, senza ascoltare le sirene di chi in un modo o nell'altro vorrà condizionare la loro sentenza?

Per chi non riuscirà a entrare, e saranno la grande maggioranza degli aspiranti, i vertici della Corte hanno allestito una sala video, e fatto sapere che a seduta conclusa, dopo una manciata di ore il filmato integrale sarà disponibile in streaming. Per gli altri, per i fortunati che hanno un biglietto di tribuna per «Berlusconi versus Italy», la fila all'ingresso comincerà prima delle otto del mattino. Una cosa del genere, il portinaio del palazzo dice di non averla mai vista. Dieci giorni fa la Grand Chamber - la stessa che domani affronterà la vicenda del Cavaliere - ha affrontato un altro caso epocale, i tre ricorsi di giornalisti e attivisti contro il Regno Unito per avere spiato le loro conversazioni con Edward Snowden, quello di Wikileaks: non se l'è filata nessuno. Invece domani arriveranno dall'Italia, dall'Europa, dall'America, sfidando il linguaggio un po' arido di questa branca anomala del diritto, per raccontare come anche da queste sponde passi la resurrezione politica del leader più longevo del Vecchio Continente: speranza o incubo che sia.

Sul quai Ernest Bevin, la strada che costeggia il canale, i muri sono tappezzati di storie di malagiustizia vera o presunta, drammi di gente che nel suo paese si è sentita vessata anche dai giudici: e che, chissà con quale fortuna, è venuta a bussare a Strasburgo. Spesso gente dell'Est, come la grande maggioranza degli europei che si rivolgono alla Corte, bulgari o croati che si ostinano a credere nel mito di un diritto più forte dell'arroganza dei singoli Stati. Nei comunicati della Corte, i casi si equivalgono tutti, grandi e piccoli, e nel ruolino della Grand Chamber il «Berlusconi case» viene subito dopo quello di Nicolae Tanase, un tizio rumeno tamponato nel 2013 da un camion dell'esercito. E sono accomunati anche dagli anni di nascita del fascicolo, ricorsi vecchi di cinque, sei, sette anni, tempi infiniti che a volte portano il cittadino a sentirsi dare ragione a pena ormai espiata, come fu per Contrada.

È per scongiurare questo spauracchio, la beffa di una sentenza favorevole che arrivasse fuori tempo massimo, che gli avvocati di Berlusconi premono perché il dispositivo venga subito emesso, per dare il tempo al Cavaliere di partecipare alle prossime elezioni. Ed a sostegno di questa pressione dieci giorni fa Andrea Saccucci e Bruno Nascimbene, i due legali che combattono per Berlusconi questa battaglia decisiva, hanno depositato nella cancelleria di Strasburgo una memoria in extremis per replicare a un'ultima insidia: quella arrivata dalla Commissione di Venezia, un organismo consultivo cui Strasburgo aveva chiesto un parere sui meccanismi che portarono all'estromissione del leader azzurro dal Senato. I saggi, scrivono i due legali, sono andati assai oltre il loro mandato, prendendosi la briga di dare risposte che non erano state chieste: a volte correttamente, a volte prendendo - secondo Saccucci e Nascimbene - solenni cantonate, come quando «ignorano completamente» che la Costituzione italiana ha badato bene a non consentire al Parlamento poteri assoluti sulla esclusione dei suoi membri, per evitare prevaricazioni della maggioranza sulla minoranza: che è invece, grazie al decreto Severino, quanto toccato a Berlusconi. «Il ricorrente - concludono - è stato privato del suo seggio al Senato applicando retroattivamente una norma varata dal governo. La procedura seguita davanti al Senato non prevede un minimo di garanzie e di imparzialità e non previene alcun abuso di potere».

È il giorno del giudizio Il primo obiettivo: un verdetto rapido

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Oggi a Strasburgo il ricorso dell'ex premier Si punta a un provvedimento d'urgenza

Un'impresa quasi disperata, il tentativo di spiegare le ragioni della politica a giudici che per definizione le sono (o dovrebbero esserle) estranei. Oggi è il giorno del giudizio per Silvio Berlusconi e per la sua richiesta alla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo di dichiarare ingiusta la sua espulsione dal Senato. Il Cavaliere e suoi legali sono convinti delle buone ragioni del ricorso. Ma sanno che la prima vera sfida è convincere i giudici a emettere una decisione in tempo per le elezioni del prossimo anno. Ed è questa, ottimismi di facciata a parte, la più impervia.

A sinistra gli avvocati del Cavaliere; a destra quelli del suo avversario, il governo italiano. È questo lo scenario che stamattina giornalisti e curiosi di mezzo mondo si troveranno davanti quando accederanno alla sterminata aula della Grand Chamber. Ed è sui due schieramenti che incomberà la piccola, cruciale norma cui si affidano le speranze di Berlusconi di avere giustizia in tempi brevi. È l'articolo 39 del regolamento della Corte di Strasburgo, quello che consente in casi particolari di emettere un provvedimento provvisorio, senza attendere i tempi lunghi delle decisioni. La norma può essere applicata, secondo la giurisprudenza della Corte, nei casi in cui ci sia il «rischio imminente di un danno irreparabile». Già, ma qual è un danno irreparabile? Per Berlusconi, lo è anche la sua estromissione forzata dalla prossima tornata elettorale: che non solo priverebbe lui di un suo diritto costituzionale ma limiterebbe anche la libertà di scelta dei cittadini. Ma la Corte finora ha usato questo strumento solo per bloccare espulsioni e estradizioni che mettevano a rischio la incolumità fisica del ricorrente, e si è trattato quasi sempre di provvedimenti urgenti del giudice di turno. Mai nella sua storia, si fa notare, una misura provvisoria è stata emessa dalla Grand Chamber, la sezione suprema che oggi giudicherà il caso «Berlusconi versus Italy».

Così il duello di oggi si annuncia aspro ma un po' strano, un match destinato a concludersi senza che l'arbitro alzi il braccio del vincitore. Il verdetto arriverà chissà quando: 10, 12 mesi i tempi d'attesa medi per le sentenze della «Grand» (per dare un esempio, il prossimo lunedì si conoscerà la sorte dell'ex primo ministro georgiano Ivane Merabishvili, la cui udienza si tenne il 7 marzo). Magari nel frattempo circoleranno voci, indiscrezioni sull'andamento della camera di consiglio (che si terrà già oggi), notizie di pronunciamenti o spaccature. Ma nulla in grado di consentire a Berlusconi di candidarsi alle politiche del 2018.

Eppure l'attesa è forte, palpabile. Perché mai nei suoi quasi 60 anni di vita la Corte di Strasburgo si era trovata così pesantemente coinvolta nella vita interna di uno dei paesi fondatori dell'Unione, mai era stata chiamata a fare da arbitro di uno scontro politico tra maggioranza e opposizione come quello di cui - comunque lo si guardi - il «Berlusconi case» è il punto di approdo.

Ieri, mentre gli ultimi giudici della Corte arrivavano dai loro paesi a Strasburgo, in uno studio legale si sono ritrovati gli avvocati della squadra difensiva di Berlusconi per mettere a punto definitivamente le strategie. Niccolò Ghedini, il difensore storico del Cavaliere, si è incontrato con Andrea Saccucci, Giulio Nascimbene e Edward Fitzgerald, i tre specialisti di diritti umani che guidano la task force. La convinzione è che la partita sia comunque aperta, se non sui tempi sicuramente sul contenuto della decisione, e che decisivi saranno gli interventi in aula: soprattutto nello spiegare ai giudici che la cacciata di Berlusconi dal Senato non fu un atto giudiziario ma una operazione politica.

Caracciolo, la giudice protagonista del caso Marò

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dal nostro inviato a Strasburgo

Dalla battaglia per salvare i marò Latorre e Girone dalla giustizia indiana a quella per tutelare in Europa il marchio del Parmigiano Reggiano: da anni Ida Caracciolo (nella foto), avvocato e docente universitario, ha rappresentato l'Italia negli scontri internazionali dove ci fossero da difendere gli interessi del nostro Paese. Chi la conosce la definisce una professionista battagliera e preparata. Ma oggi dovrà spogliarsi dei panni di avvocato e indossare quelli, per lei inconsueti, di giudice. Sarà lei il membro italiano della Grand Chamber chiamata a decidere la sorte di Silvio Berlusconi e del suo ricorso contro l'estromissione del Parlamento in base alla legge Severino.

A catapultare la Caracciolo al centro del «Berlusconi case» è stata la decisione di Guido Raimondi, presidente della Cedu, di astenersi dalla udienza di oggi, essendo approdato a Strasburgo sulla base di una designazione di tre candidati firmata dal governo Berlusconi. La scelta di Raimondi venne alla fine effettuata dall'assemblea di Strasburgo, ma quella designazione ha spinto comunque il primo presidente dell'opportunità di farsi da parte.

Ma un giudice del paese coinvolto deve fare per forza parte della Grand Chamber, e ha un ruolo importante: prende la parola di diritto in camera di consiglio, e spesso i colleghi si fanno aiutare da lui per orientarsi nelle vicende e nelle norme di un paese di cui sanno poco. Sarà la professoressa romana a svolgere questo ruolo delicato. L'ha scelta Angelika Mussberger, il giudice tedesco che presiederà l'udienza di oggi, in una lista di giudici ad hoc presentati dall'Italia proprio per evenienze di questo tipo. La lista, che conteneva complessivamente cinque nomi, venne inviata nel 2010 alla Corte da Silvio Berlusconi, allora presidente del Consiglio, e confermata due anni dopo dal governo di Mario Monti. È stata probabilmente questa investitura «bipartisan» a convincere Ida Caracciolo che non fosse necessario tirarsi a sua volta indietro.

Sposata, una figlia, la Caracciolo compirà proprio domani 56 anni, è consulente del ministero della Difesa e dello Stato Maggiore, e ha rappresentato l'Italia nella causa internazionale intentata contro di noi dalla Jugoslavia per la guerra del 1995.

LF

A Strasburgo il ricorso del Cav: "Dal Senato decisione arbitraria"

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Aula piena alla Corte Ue dei diritti dell'uomo. Da oggi 17 giudici decideranno sulla legittimità della decadenza di Berlusconi

Aula stracolma: avvocati, studenti, giornalisti e semplici curiosi si sono accaparrati in questi mesi i posti disponibili e riempiono questa mattina l'aula della Grand Chamber della Corte europea dei diritti dell'Uomo, chiamata a decidere sulla legittimità della estromissione di Silvio Berlusconi dal Senato italiano.

Gli avvocati italiani di Berlusconi, Niccolò Ghedini e Franco Coppi, sono stati i primi a entrare in aula, raggiunti poco dopo dagli specialisti di diritto internazionale che prenderanno per primi la parola. Nei banchi opposti, gli avvocati nominati dal Governo italiano per difendere la legittimità della decadenza di Berlusconi. La Corte è presieduta dalla tedesca Angelika Nussberger e composta da altri sedici giudici. L'Italia è rappresentata da Ida Caracciolo, docente di diritto internazionale a Napoli.

La Nussberger ha dichiarato aperta l'udienza, ricapitolando i passaggi della vicenda e dando la parola a Maria Giulia Civinini, una degli avvocati del governo italiano. L'affare è inedito, ha premesso la Civinini, ma il governo italiano ha rispettato la Convenzione europea dei diritti dell'uomo e nessun articolo può essere applicato contro il governo italiano, ha detto. I diritti di Berlusconi sono stai scrupolosamente garantiti e tutti i i passaggi sono stati minuziosamente rispettati; la decisione non era arbitraria ma legale e giuridicamente motivata, rispettando in teoria e in pratica la Convenzione europea dei diritti dell'Uomo.

La norma Severino non è persecutrice nè ad personam, ha aggiunto la Civinini. La legge d'altronde è il punto di arrivo del progetto varato dal governo Berlusconi nel 2010 e ha avuto un ampio sostegno parlamentare, con solo diciannove voti contrari. La legge Severino si applica solo per le condanne superiori ai due anni per crimini gravi e il ricorrente è stato condannato a quattro anni per frode fiscale, un crimine contrario al buon governo e destabilizzante per il bene pubblico, ha concluso la Civinini lasciando la parola a Edward Fitzgerald, uno dei difensori di Berlusconi.

Il Senato, dice Fitzgerald, si è appoggiato su una legge non applicabile ai tempi del delitto. È stata una decisione arbitraria e sproporzionata, priva di possibilità di appello. Nessun tribunale ha potuto esaminare finora la decisione del Senato. È la prima volta nella storia d'Italia che un eletto viene fatto decadere dal suo ufficio. Il governo italiano non sa spiegare perché è stato fatto decadere Berlusconi ma non Minzolini (anche lui condannato in via definitiva, ndr). Vuol dire che le norme non sono chiare, e se la norma non è chiara esiste un rischio di abuso, ogni governo, ogni maggioranza potrà privare un rappresentante del suo mandato. Questo è incompatibile con lo Stato di diritto, ha concluso Fitzgerald.

La parola passa a un altro difensore del Cavaliere, Bruno Nascimbene, che si è soffermato sulla natura penale della legge Severino, che impedirebbe la sua applicazione retroattiva. "Le etichette non contano - dice Nascimbene - e la Corte di Strasburgo lo ha sempre sancito. Conta la sostanza delle norme. E come fa una sanzione così grave, di una severità estrema, che priva un cittadino dei diritti politici da sei a tredici anni, non essere penale?"

Tutti i dubbi dei giudici Ue sull'incandidabilità di Berlusconi

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Non sono solo Berlusconi e i suoi legali ad avere dei dubbi sulla regolarità della estromissione dal Senato nel 2013

"L'udienza è finita, la Corte deciderà. Le parti saranno avvisate". Alle 11,30, dopo appena due ore e un quarto di udienza, Il presidente Angelika Nussberger mette la parola fine all'ultima battaglia di Silvio Berlusconi, quella davanti alla Corte europea dei diritti dell"Uomo.

La decisione, ormai è certo, arriverà solo tra molti mesi. Ma l'udienza di oggi ha dimostrato che non sono solo Silvio Berlusconi e i suoi legali ad avere dei dubbi sulla regolarità della estromissione del Cavaliere dal Senato nel 2013. A Strasburgo, dopo gli interventi del governo italiano e dei legali del leader di Forza Italia, prendono la parola i giudici, ai quali la procedura della Corte europea consente di porre domande e richieste di chIarimento. I giudici cui la presidente Nussberger dá la parola dImostrano di avere studiato a fondo la pratica. E alcune delle domande che rivolgono sollevano questioni che, se il governo italiano non saprà rispondere in modo convincente, rischiano di portare acqua al mulino di Berlusconi.

Comincia il giudice albanese Ledi Bianku, che raccoglie uno dei temi sollevati dalla difesa dell'ex premier: in cosa il caso di Augusto Minzolini era diverso da quello di Berlusconi? Perché il senatore azzurro, anche lui condannato, ha potuto restare in Senato? Il tema è quello della discrezionalità della decisione, e quindi della sua utilizzabilità a fini politici. Ma ancora più ficcanti sono le domande del giudice portoghese Paulo Pinto de Albuquerque. Perché, chiede, nella Giunta del Senato venne cambiato il relatore, che si era espresso contro la decadenza di Berlusconi? Perché in aula il voto è stato a scrutinio palese, se il regolamento prevede che nei caso che riguardano le persone si vada a scrutinio segreto? E qual è la differenza tra la ineleggibilità prevista dal codice penale e la incandidabilitá prevista dalla legge Severino? Perché una è considerata una pena e l'altra, che è più severa, secondo il governo italiano non lo è, e quindi può essere applicata retroattivamente? E soprattutto, perché contro la decadenza degli amministratori locali si può ricorrere alla magistratura e per quella dei parlamentari non c'è rimedio? "Domande intelligenti", commenta uno dei legali del Cavaliere, Edward Fitzgerald. Le risposte di Maria Giulia Civinini, avvocato del governo italiano, arrivano dopo venti minuti:sul tema che appare cruciale, quello del caso Minzolini, dice che lî c'era il fumus persecutionis. "E perché- sorridono nello staff di Berlusconi- nel nostro no?"


Il business dei dati in rete: così guadagnano i trafficanti

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Il valore delle identità digitali rubate è incalcolabile per il mercato nero. Tra piccoli abusi e grandi reati

Nemesi del destino: gli alfieri della trasparenza via web, i teorici della potenza purificatrice dell'informatica, catapultati in pieno in una delle tematiche più oscure della società contemporanea. Schedatura di massa, Grande Fratello, mercato delle informazioni: da oggi il Movimento 5 Stelle deve fare i conti con le paure di chi sente ogni attimo e aspetto della sua vita controllato via smartphone. Anche le banche dati grilline, ha stabilito il Garante per la privacy, erano alla mercè dei trafficanti di dati, grazie ai software obsoleti e alle chiavi d'accesso consegnate a soggetti mai indicati. E quindi erano pronte a finire nel calderone dei mercanti di informazioni.

É un business dal valore incalcolabile, in cui i dati in mano alla Casaleggio & Associati - nome, indirizzo, codice fiscale - hanno di per sé un valore modesto: perché non contribuiscono al profiling, che è il vero affare degli spacciatori di identità digitali. Abitudini, gusti, disponibilità economiche: questi sono gli elementi chiave del profiling, i dati che servono a disegnare la personalità del cittadino-consumatore. È intorno a questi che si combatte la vera battaglia tra difensori della privacy e mercanti di informazioni. Esiste un mercato tecnicamente lecito, di cui i cittadini sono vittime ma anche un po' colpevoli, nel momento in cui accettano senza leggerle le clausole di contratti o di app, e che ha per oggetto i dati personali; ma esiste anche un prospero mercato nero di dati sensibili, che per legge non possono venire divulgati ma che circolano ugualmente: dallo stato di salute agli orientamenti sessuali o politici.

Nel corso del tempo, la scure del Garante per la privacy - che il 21 dicembre ha colpito i 5 Stelle - ha portato alla luce una lunga serie di abusi. I supermercati Gs nel 2008 vennero multati per avere utilizzato senza il permesso dei clienti le carte fedeltà per schedarli fino al midollo. Nel 2012 Enel Energia è stata condannata per avere comprato dalla società Consodata migliaia di nominativi di cittadini da bombardare con le proprie proposte commerciali: si scoprì che Consodata aveva a sua volta rastrellato i nominativi qua e là, per esempio dagli acquirenti di telefoni Motorola. Purtroppo il mercato di dati non porta solo al fastidio delle molestie telefoniche ma a incursioni potenzialmente devastanti nella sfera economica: nel 2011 le banche italiane dovettero spendere 100 milioni di euro per adeguarsi agli ordini del Garante, e bloccare così il commercio di informazioni finanziarie a favore di investigatori privati e avvocati divorzisti; per non dire delle cinque società di moneytrasnfer che vendevano i nomi di ignari cittadini agli esportatori cinesi di capitali, per effettuare gli spostamenti di soldi a loro nome frazionandoli per evitare controlli. Sulle cinque società che gestivano il traffico si è abbattuta nel marzo scorso una sanzione da undici milioni di euro.

Le occasioni in cui il cittadino mette, più o meno inconsapevolmente, i fatti propri nel calderone del web sono pressocché continue: in ogni istante in cui accede al cellulare o al computer l'homo virtualis racconta qualcosa di sé. Che i social network, Facebook in testa, campino sulla rivendita di profili è fin troppo noto. Ma a venire succhiati e riciclati sono anche i dati provenienti da piattaforme di petizioni come change.org o firmiamo.it, che dietro lo schermo della nobile indignazione per qualsivoglia causa fanno incetta di dati personali.

Le norme per contrastare questo traffico, sulla carta ci sono: ma a maggio tutto cambia, perché entrerà in vigore il Regolamento europeo, pieno di sani principi ma avaro di indicazioni pratiche. Forse adatto alla Svezia, ma in Italia rischia di rendere i controlli più complicati.

Altre accuse, ma Bellomo risale in cattedra

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Anche Milano indaga per reati fiscali sul magistrato nella bufera per le molestie alle allieve

Milano - Giubbotto di cuoio nero alla Fonzie, maglietta bianca, i brocardi latini citati come se piovesse: rieccolo, Francesco Bellomo, il giudice del Consiglio di Stato finito nella bufera per la sua disinibita gestione dei corsi per aspiranti magistrati. Solo un lieve, continuo tic all'occhio sinistro racconta che lo stress di questi giorni, la preoccupazione per la sua carriera finora inarrestabile, scuotono quest'uomo che sembra un ragazzino. «La deviazione degli effetti del contratto con particolare riguardo alla protezione dei terzi», è il titolo della lezione scelta da Bellomo per riapparire agli alunni milanesi dei suoi corsi. Prima della tempesta, Bellomo nel capoluogo lombardo teneva lezione in un hotel cinque stelle, il Grand Visconti Palace di viale Isonzo. Quando iniziarono le prime nubi, radunava gli allievi nello stesso hotel, ma appariva via schermo. Ieri, per la lezione, sceglie la diretta streaming dal sito. Ma la connessione traballa peggio della carriera di Bellomo, le frasi sulla «clausola di salvezza» si spezzano a metà, la lezione diventa inascoltabile. Anche questo, forse, è un segno dei tempi.

A Milano, la Procura della Repubblica ha aperto una sua inchiesta a carico di Francesco Bellomo. Per ora il fascicolo è assegnato al dipartimento reati sessuali, diretto dal procuratore aggiunto Letizia Mannella, per accertare se anche le allieve milanesi del consigliere di Stato abbiano ricevuto molestie come le loro colleghe dei corsi di Roma e di Bari. Ma il vero tema dell'indagine rischia di essere quello sui reati fiscali, sul sistematico accumulo di fondi neri da parte del magistrato. Perché proprio nel capoluogo lombardo la scuola di Bellomo, la «Diritto e Scienza», aveva buona parte dei suoi corsisti. E qui teneva le tariffe più alte: «Evidentemente - racconta al Giornale uno degli allievi - pensava che qui fossimo tutti più danarosi».

Che accumulasse soldi in barba al fisco appare certo: «L'iscrizione al corso si pagava con regolare fattura racconta l'allievo - ma poi c'erano una serie di extra. Una lezione di estrema importanza, come l'esercitazione pratica per il tema d'esame, costava duecento euro se si pagava in nero, duecentocinquanta se si voleva la fattura. Ovviamente, molti di noi sceglievano la prima strada». Quante persone partecipavano a ogni lezione? «Tra le cento e le centocinquanta». I conti sono presto fatti.

Com'era, Bellomo? «Terribile, arrogante, ma bravissimo». «Le sue lezioni erano una sorta di evento. Arrivava sempre vestito di bianco, dal vivo dimostra venticinque anni, non so come faccia. In prima fila, nella sala dell'albergo, c'erano solo le sue borsiste: abito da sera, scosciatissime. La prima volta che le ho viste, francamente mi sono sembrate delle escort più che delle aspiranti magistrate». Con le altre, con le corsiste ordinarie, ci provava? «Io non ho mai visto niente di anomalo. Piuttosto, col senno di poi, ripenso a certe lezioni della fine dell'anno scorso, quando probabilmente aveva già saputo che c'era un procedimento disciplinare a suo carico: tenne tutta una spiegazione sul fatto che se un contratto civile prevede lo scambio di contropartite sessuali non è illecito, perché c'è la libera determinazione delle parti».

A richiamare in massa ai corsi della sua scuola, c'erano le percentuali che Bellomo poteva vantare di allievi poi diventati magistrati: «Ma più di questo specchietto per allodole, a convincermi a iscrivermi è stata la qualità dell'insegnamento. Quello che non ero preparato a trovare era il clima surreale che si respirava intorno a lui, una sorta di culto della personalità che lui istigava apertamente. E ancora meno ero pronto a accettare il sistema dei pagamenti sottobanco: ma come, dici di fare di noi dei magistrati e poi sei il primo a rubare?».

Quando i barconi sul Naviglio erano cimeli della sua storia

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Le chiatte rimosse brutte copie di quelle degli anni Settanta, simbolo della trasformazione del Ticinese

I timonieri della Canottieri Milano se li vedevano apparire davanti all'improvviso, immensi e silenziosi a scendere accompagnati dalla corrente del Naviglio Grande, carichi di sabbia: ed era un gioco di centimetri schivarli di una spanna senza interrompere il tonfo ritmico dei remi, e scorrere via nella nebbia, verso Corsico.
Quelli, erano davvero barconi: gli ultimi eredi - e si parla degli inizi degli anni Settanta - della secolare storia di merci arrivate a fare grande Milano lungo i suoi canali, esempio fulgido e insuperato dell'ingegnosità lombarda. I barconi che in questi giorni il Comune - con insolito, quasi imprevisto atto di forza - smantella e spazza via dal panorama, nacquero come citazioni di quelle chiatte storiche, di cui peraltro riutilizzavano gli scheletri. C'era una certa grandeur filologica, nell'idea di portare a nuova vita i barconi del Naviglio, una citazione esplicita del passato della città calata nel suo presente. Non a caso a partorire l'idea fu Sergio Israel, il primo e più illuminato inventore della riconversione del Ticinese da quartiere popolare a fulcro della vita notturna cittadina (cui allora, fortunatamente, veniva risparmiato l'increscioso epiteto di movida).

Durò poco, quella stagione di rinascita: e i tre barconi che oggi vengono smontati hanno ben poco a che fare con quell'epoca viva. Si tratta di orridi relitti, abusi edilizi sopravvissuti incredibilmente per anni, nella morta gora dei controricorsi, nonostante la loro palese illegalità. Eppure nell'opera di demolizione in corso in queste ore un piccolo filo di nostalgia si può cogliere, perché insieme ai suoi ultimi, tristi epigoni si chiude quell'era complessa che il primo barcone, quello piazzato da Israel davanti alle «Scimmie», simboleggiava.

Le «Scimmie» sorsero sloggiando uno dei locali classici del Ticinese popolare, una trattoria da settemila lire a pasto, e per quei posti fu l'inizio della fine: l'esempio di Israel fu seguito a ruota, e uno dopo l'altro i ritrovi del vecchio borgo dei formagiatt cedettero sotto l'avanzare dei quattrini. Heineken al posto della croatina. Vecchie insegne fané vennero sostituite dai neon, e per la conquista degli spazi si aprirono scontri anche aspri: leggendario quello, con agguati e spedizioni punitive, tra gli aspiranti agli spazi del Nobel, il cinema di via Ascanio Sforza; a gestire l'irruzione erano spesso imprenditori legati a filo doppio ai gruppi dell'ultrasinistra, e uno dei «nuovi» locali, l'Osteria dell'Operetta, divenne persino la base dei terroristi dei Pac. Ma in quel clima teso e non sempre piacevole, scorrevano comunque fermenti culturali, voglie di contaminazioni. Alla Clinica di via Torricelli, si suonava il jazz, ma negli angoli sopravvivevano - pardon - le sputacchiere. Poi la conquista si fece assalto, il quartiere venne stravolto su entrambi i canali che ne sono gli assi portanti: in modo più patinato sul Naviglio Grande, con i suoi scorci da cartolina; brutalmente sul Naviglio Pavese. Di questo imbarbarimento, le tre chiatte rimosse erano il simbolo, ed il recupero della Darsena aveva come inevitabile corollario la loro scomparsa. Come quella dei tristi alberelli che i baristi avevano piantato sulle sponde, come quella delle speranze di un'epoca, come quella della nebbia.

Caccia ai fanatici antisemiti. La Procura al lavoro sui video

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Estremisti da fuori Milano al sit-in di piazza Cavour. E la Digos si è attivata prima delle denunce dei politici

Già prima delle denunce del Giornale e del Foglio, già da prima degli esposti di due dirigenti del Pd: la Digos milanese si era mossa ancor prima della pausa festiva per denunciare alla magistratura i responsabili dell'incredibile episodio avvenuto il 9 dicembre in piazza Cavour, davanti al «Palazzo dei Giornali». Gli slogan a favore dello sterminio indiscriminato degli ebrei non erano sfuggiti alle telecamere della polizia, e ora sono al centro del fascicolo che la Procura ha aperto per iniziativa del pm Alberto Nobili, capo dell'ufficio antiterrorismo.

Nell'inchiesta a carico di ignoti si ipotizza l'accusa di istigazione all'odio razziale. É la norma che di solito viene applicata o invocata per punire le manifestazioni dell'ultradestra qua e là per il Paese, e che ora per la prima volta, finisce al centro di una indagine giudiziaria in cui sono coinvolti dei militanti islamici. A rendere inevitabile l'accusa, secondo il pm Nobili, il grido Khaybar, Khaybar, l'armata di Maometto ritornerà, evocante lo sterminio di seicento ebrei da parte del Profeta nel corso delle operazioni di «pulizia etnica» dell'anno 628.

Alla accusa di istigazione all'odio razziale, nel fascicolo la Procura sembra orientata ad affiancare il reato di istigazione a delinquere: inevitabile, visto l'esplicito invito all'ammazzamento degli ebrei. Il primo passaggio dell'inchiesta della Digos è stata la traduzione giurata degli slogan, che non ha potuto che confermare: sì, in piazza Cavour a venire invocato era proprio l'episodio dell'oasi di Khaybar, lo stesso che lo sceicco Al Baghdadi citava decapitando l'ostaggio americano Nick Berg.

Che la magistratura non potesse stare ferma davanti alla più esplicita manifestazione di odio anti-ebraico avvenuta in Italia nel dopoguerra lo aveva segnalato martedì scorso in un articolo il magistrato Guido Salvini, giudice preliminare a Milano e autore di numerose sentenze sulla penetrazione jihadista in Italia. Salvini aveva ricordato come il riferimento epico ai fatti di Khaybar sia «un richiamo mitico ed eccitante che simboleggia per i musulmani la prospettiva finale della completa eliminazione degli ebrei».

Ora la Procura si muove. Secondo i primi accertamenti, a scandire lo slogan incriminato era solo una parte, minoritaria ma assai agguerrita, dei circa 1.500 militanti islamici arrivati in piazza Cavour per protestare contro il trasferimento dell'ambasciata americana a Gerusalemme. Tra questi, si apprende in ambienti Digos, anche numerosi estremisti provenienti da fuori Milano, dalle comunità islamiche sparse per la Lombardia dove spesso si annidano i predicatori estremisti, quelli più vicini alla ideologia della jihad.

D'Alema voltagabbana Sotto elezioni il Tap diventa una sciagura

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Il leader di Liberi e Uguali contro il gasdotto Ma solo quattro anni fa era favorevolissimo

Centocinquanta attivisti «no Tap» che hanno bloccato per ore l'accesso di due betoniere al cantiere della Trans adriatic pipeline, il gasdotto che deve collegare l'Italia all'Azerbaijan. Giovedì sera a San Basilio, alle porte di Lecce, si è consumata l'ennesima puntata della battaglia di ambientalisti e antagonisti al progetto destinato ad approvvigionare l'Italia di gas naturale: una battaglia che vede in campo, insieme ad estremisti di svariate provenienze, anche sindaci e amministratori locali.

Ma anche in Puglia si respira aria di elezioni, e così accanto ai violenti del movimento «no Tap» scendono in campo anche esponenti politici che mostrano di condividerne, se non i metodi, almeno gli obiettivi. Nulla di strano, se tra di loro non ci fossero anche personaggi che fino a pochi anni fa erano fieri sostenitori del Tap, e che ora hanno improvvisamente cambiato idea: senza peraltro rendere note le ragioni del brusco ripensamento.

Il retromarcia più vistoso è sicuramente quello di Massimo D'Alema, già segretario del Pds e presidente del Consiglio, oggi esponente di punta di Liberi e Uguali. Che a ridosso delle festività si è presentato in un comizio a Nardò, a poca distanza dalla zona destinata a ospitare il gasdotto, sparando ad alzo zero contro il governo e indignandosi per la «militarizzazione» che a suo dire sarebbe in corso per consentire ai lavori di entrare finalmente nel vivo. «Dovrebbe fare riflettere molti - ha tuonato D'Alema - il modo in cui il governo nazionale ha potuto decidere con un atto d'imperio, dopo una lunghissima vicenda, l'approdo del gasdotto in una delle aree turistiche più qualificate, con la pretesa di militarizzare il cantiere. Di fronte a tanta sfrontatezza, l'intera rappresentanza salentina avrebbe dovuto mettere la testa sotto terra dalla vergogna». Per contrastare la «sfrontatezza» del governo sul progetto Tap, serve una «rappresentanza più forte»: modo elegante per dire che se i salentini riporteranno D'Alema in Parlamento il prossimo 4 marzo, il gasdotto troverà finalmente pane per i suoi denti.

Pare che l'endorsement abbia colto di sorpresa persino gli attivisti «no-Tap», che in passato avevano dovuto catalogare il leader diessino tra i più ferventi sostenitori del progetto. In una intervista del 12 dicembre 2013 a Telerama D'Alema affermava testualmente: «È un'opera che può dare grandi vantaggi al nostro paese. Questo tubo si prevede che arrivi sottoterra a partire da dieci chilometri dalla costa e quindi non dovrebbe avere nessun impatto sulla costa. Vorrei sdrammatizzare la questione, non è che arriva questo tubo sulla spiaggia come si e fatto credere. Bisognerebbe cercare di dire la verità ai cittadini, non di raccontare le balle cercando di spaventarli». Tranne, evidentemente, sotto elezioni.

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