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Channel: Il Giornale - Luca Fazzo
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Ecco i signori dell'eroina. Dietro la nuova invasione c'è la mafia albanese

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Centinaia di chili in tutto il Nord e in Svizzera. Svelata la rete che ne gestisce l'importazione

Si muore a ripetizione, nelle strade milanesi dell'eroina, e torme di «tossici» tornano a vagabondare elemosinando i soldi per il «buco». Dietro questo brusco ritorno agli anni Ottanta, quando il flagello della droga falciava cento morti all'anno, ci sono nuovi signori. Non più i boss calabresi e siciliani che si sparivano tanto i canali di importazione quanto il controllo delle piazze. Oggi comandano gli albanesi. Sotto di loro, a controllare lo spaccio al dettaglio, sono i gambiani. Una etnia chiusa, compatta, ma inesorabilmente subalterna agli albanesi. Sono loro, i gangster venuti da Durazzo e Tirana, a tirare le fila. Sotto la loro guida, Milano è tornata ad essere l'hub dell'eroina non solo per il nord Italia ma anche per la Svizzera. E in Lombardia la mafia albanese è arrivata a stabilire anche gli impianti di lavorazione, il sintomo vero della potenza organizzata.

Raccontano uno scenario allarmante, le carte dell'operazione «Aquila Nera», con cui la settimana scorsa la Guardia di finanza ha tirato le somme di tre anni di intercettazioni, pedinamenti e sequestri. Ci sono sedici nomi, tutti di albanesi, molti dei quali impiantati da temo in Lombardia, tra Milano e Como. Manca, nell'elenco, il nome più importante. È quello di un cinquantenne residente a Durazzo, sulla costa adriatica. Il suo nome è Fatos Bakaj, ma si fa chiamare Piro. In Italia bazzica da quasi vent'anni, dall'epoca degli sbarchi di massa con le navi ed i gommoni. Già nel 2004 trafficava a Roma, venne fermato, portato in carcere: tempo tre anni gli diedero un permesso premio dal carcere di Modena, lui ovviamente svanì e tornò a darsi da fare. Nel 2011 la Procura di Milano lo incriminò di nuovo, l'anno dopo la polizia albanese lo catturò a Durazzo. Nel 2013 è stato consegnato in Italia ed è in carcere a Saluzzo. Ma è lui che continua ad essere il capoja, il punto di riferimento dei traficant e dei mafjos che hanno fatto irruzione nel mercato della droga in Lombardia, lasciato sguarnito dalle retate a ripetizione che hanno spedito in cella la criminalità italiana.

A lungo le gang shiptare hanno portato soprattutto marijuana, coltivata quasi alla luce del sole nell'entroterra albanese, e trasportata in Italia con i gommoni che - grazie alla esperienza acquisita traghettando immigrati clandestini - fanno la spola sull'Adriatico. Migliaia di chili di «erba» sbarcano a Bari e a San Benedetto del Tronto e risalgono la penisola. Ma ora i traficant puntano in grande stile sull'eroina, grazie ai canali che si sono aperti con le zone di produzione in Afghanistan. Sono gli albanesi a portare in Lombardia eroina a basso costo. È grazie a loro se la «roba» sta entrando prepotentemente nel mercato, richiamando in servizio vecchi consumatori e arruolandone di nuovi.

Nell'orbita di «Piro» Bakaj si muove, per esempio, Shkelzen Tafa, classe 1980, che nell'operazione «Aquila Nera» risponde di ben quattordici capi d'accusa. Tafa e sua moglie Adelina abitano a Como, in via Varesina, e la loro casa è diventato il centro di smistamento dei carichi destinati al mercato svizzero. Casa Tafa è magazzino ma anche laboratorio, visto che a dicembre 2013, quando lo arrestano, Shkelzen ha con sé due chili di eroina ma soprattutto cinquanta chili di sostanza da taglio. È un quantitativo che si spiega solo con decine di chili di eroina pura da lavorare e immettere nel mercato.

Le indagini delle Fiamme gialle del Nucleo di polizia economico-finanziaria di Milano hanno individuato anche i canali lungo i quali si muovono i capitali delle organizzazioni. L'uomo chiave si chiama Alban Shehu, abita anche lui dalle parti di Como, e si occupa di ritirare periodicamente in Svizzera i pagamenti dell'eroina spedita oltreconfine. È lui a fare poi arrivare, con corrieri o canali finanziari, il denaro in Albania, a suo padre Tomorr che, dedotta la commissione per il servizio, gira la somma ai boss delle organizzazioni locali. Soltanto nel periodo inquadrato dalla Guardia di finanza, Shehu padre e figlio movimentano oltre un milione e mezzo di euro: è il corrispettivo di quasi un quintale di eroina, al prezzo corrente in Albania. Nelle «bustine» che i gambiani spacciano sulle piazze milanesi, di quella «roba» c'è meno del dieci per cento. Il conto del colossale business è presto fatto.


Tram off limits per i disabili Il Tar condanna Palazzo Marino

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Luca Fazzo

Quasi tre anni non sono bastati al Comune di Milano per rispettare l'ordinanza del tribunale che aveva ordinato di adeguare le fermate del tram 24 alle esigenze dei portatori di handicap. Così ora il Tar della Lombardia condanna Palazzo Marino, e interviene d'autorità: entro sei mesi i lavori devono iniziare e finire. Poi dovrà intervenire il direttore del settore trasporto pubblico del Comune, Angelo Pascale, nominato dai giudici commissario ad acta, che entro 40 giorni dovrà risolvere la faccenda.

Tutto iniziò nel 2013 quando Francesco Roccio, un portatore di handicap abitante nella zona di via Ripamonti, chiese al tribunale civile di dichiarare «discriminatorio» il comportamento di Comune e Atm, che non gli consentiva di accedere al tram, i cui alti gradini costituiscono per lui un ostacolo insormontabile.

Il 18 giugno 2015, il giudice civile Orietta Miccichè aveva accolto il ricorso, ordinando al sindaco di allora Giuliano Pisapia di adeguare banchine e marciapiedi della linea 24 «in modo da renderli accessibili ai disabili motori», e ad Atm di modificare i tram in servizio sulla linea (quasi tutti modelli 4900, meglio noti come jumbo tram) o di sostituirli con mezzi a pianale ribassato.

Al Comune, la sentenza dava tempo fino alla fine del 2015 per mettere in regola i marciapiedi dell'intero percorso. Ma ad oggi l'unico intervento realizzato riguarda la fermata Ripamonti-Noto, dove Roccio sale di solito; ma tutte le altre, quelle dove magari vorrebbe scendere, continuano ad essere impraticabili per un invalido.

Esiste, in realtà, un progetto definitivo per le modifiche: ma manca l'esecutivo, e tutta da iniziare è la pratica della gara d'appalto dei lavori. Così Roccio si è stufato di aspettare, e si è rivolto ad altri giudici, quelli del Tar, per costringere il Comune a rispettare l'ordinanza del 2015. «I lavori non sono ancora stati realizzati e i termini sono stati superati», scrivono i giudici. Ora Pascale avrà «i poteri dell'ausiliario del giudice, compreso quello di affidamento dei lavori». Basterà perché il signor Roccio possa finalmente salire e scendere dal 24?

L'università dei 5 Stelle e quei bonifici a San Marino

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L'ateneo che sforna-ministri M5s fa i corsi on line per il Siulp, il braccio Pd della polizia. E i soldi finiscono nel Titano

Altro che vecchia Dc: con buona pace del fondatore Vincenzo Scotti, ottuagenario leader scudocrociato, la storia della Link, l'università divenuta la scuola quadri del Movimento 5 Stelle è - come documentano carte di cui il Giornale è in possesso - calata appieno nei traffici della sinistra nel comparto sicurezza: ed è marchiata da rapporti oscuri con il braccio operativo del Pd all'interno della Polizia di stato, il sindacato «progressista» Siulp. Dietro agli accordi ufficiali tra Link e Siulp passano scambi di favori, lauree facili, assunzioni di parenti e persino movimenti inspiegabili di soldi, che approdano alla fine su un conto a San Marino intestato a una società fiduciaria. A San Marino il segreto bancario è una cosa seria, ma chi ha visto i nomi dei reali beneficiari del conto garantisce che, se venissero resi noti, scoppierebbe un guaio.

Che il rapporto con gli apparati dello Stato sia il fiore all'occhiello della Link, lo si capisce guardando gli incarichi ministeriali che il M5s indica per due delle laureate all'ateneo romano: l'Interno per Paola Giannetakis e la Difesa per Elisabetta Trenta; e d'altronde ex allievo della Link è anche Nicola Ferrigni, assessore in pectore alla Sicurezza se la grillina Roberta Lombardi avesse vinto le regionali del Lazio. La Link si presenta insomma come fucina di specialisti della sicurezza, come canale di collegamento tra la politica e il mondo complesso della polizia e dell'intelligence. Può farlo grazie a presenze prestigiose tra i suoi docenti, come quello del generale della Gdf Andrea De Gennaro, fratello dell'ex capo della polizia e dei servizi segreti. Ma anche, più prosaicamente, grazie al rapporto di ferro con il Siulp, il sindacato maggioritario della polizia.

E qua arriva il bello. Siulp e Link hanno stretto un accordo per fornire corsi di laurea triennale in Scienze politiche ai poliziotti cui il titolo accademico serve per accedere ai concorsi per diventare dirigenti: centinaia di agenti e di ispettori che sognano il salto di qualità, e che per questo sono pronti ad affrontare robusti sacrifici. Il corso costa 4.100 euro, e si tiene interamente online. Per accedere direttamente al secondo anno, i poliziotti devono frequentare «un semestre svolto parallelamente al periodo accademico» con un «Corso di perfezionamento» su tematiche varie, dal crimine organizzato ai diritti umani all'ambiente: di tutto un po', insomma. Ma questo va pagato a parte.

Inizialmente, i soldi finivano alla Fondazione «Sicurezza e libertà», diretta emanazione del Siulp, che però non risulta avere mai retribuito alcun docente, e quindi non si capisce che corsi abbia mai potuto tenere. La situazione si fa ancora più oscura quando ai poliziotti iscritti al corso della Link viene comunicato che i soldi vanno versati su un conto corrente della Repubblica di San Marino, di cui viene fornito l'Iban. Il conto risulta acceso alla Banca Agricola Commerciale, nella Repubblica del Titano, e intestato a una fiduciaria del posto. Chi c'è dietro? Una parte delle rette dei poliziotti ritorna in qualche modo al sindacato? A rendere legittima la domanda c'è un appunto firmato da Pasquale Russo, direttore generale della Link, che nel «budget preventivo» indica la cifra «20mila Siulp».

I buoni rapporti tra la Link e il sindacato dei poliziotti sono attestati, tra l'altro, dal fatto che il figlio del segretario amministrativo del Siulp, Sandro Pisaniello, è stato assunto all'università. Si chiama Andrea Pisaniello, i sindacalisti del Siulp lo presentano come «professore», ed è lui a tenere le sessioni d'esame. Per legge, come è ovvio, gli esami andrebbero sostenuti nella sede accademica, alla presenza della commissione. Invece la Link li tiene dove capita (a Firenze persino al mercato comunale) e alla presenza del solo «professor» Pisaniello. Nelle chat interne al sindacato gli allievi vengono preallertati delle domande che verranno loro poste (qualcuno si spinge a chiedere anche le risposte, e viene pubblicamente rimbrottato).

Con questi corsi Link si laureano anche dirigenti del Siulp: come il segretario nazionale Felice Romano e quello laziale Saturno Carbone, entrambi con 110 e lode. Il fratello di Romano, Domenico, in forza ai servizi segreti, deve accontentarsi di 104. Le domande non sono terribili (in una si chiede se la Guerra Fredda fu la campagna di Russia!), e una certa allegria del sistema è confermata dal fatto che la prova autografa di Felice Romano sia attualmente in mano al Giornale anziché alla commissione esaminatrice (che non c'era).

Questa è la scuola quadri dei grillini, e dei futuri dirigenti di polizia.

Le chat segrete del caso Link e lo strano conto a San Marino

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Il caso dell'ateneo coi docenti M5s: i 400 allievi agenti del Siulp versano i soldi nel Titano su «Hero». Ma di chi è?

Hero, come «eroe»: è dietro questa sigla che si nascondono i titolari del conto a San Marino dove in questi mesi sono affluite decine di migliaia di euro da parte di poliziotti di tutta Italia, iscritti ai corsi di laurea della Link, l'università fondata dal dc Vincenzo Scotti e divenuta ora la fucina degli «esperti» del Movimento 5 Stelle. Grazie alla convenzione con il Siulp, il più grosso sindacato della polizia, quattrocento poliziotti possono laurearsi in Scienze politiche e accedere al concorso per commissario. Ma sulle modalità di quei corsi e sui beneficiari dei versamenti ora è bufera, dopo l'articolo di ieri del Giornale che documentava le troppe anomalie della vicenda.

I primi a prendere la parola sono i vertici della Polizia, che con una lettera al Giornale fanno sapere che «le uniche convenzioni attualmente vigenti tra Polizia di Stato e mondo universitario, sono quelle con l'Università degli studi di Roma La Sapienza e l'Università degli studi di Napoli Federico II». Niente a che fare con la Link, dunque. Ed è proprio così: a fare l'accordo con l'università sono i vertici del Siulp, cioè il segretario nazionale Felice Romano e il segretario amministrativo Sandro Pisaniello: il cui figlio è stato assunto proprio alla Link e fa da tutor ai poliziotti.

Per avere la certezza che la laurea alla Link si conquisti senza troppa fatica basta leggere la chat che intrattengono con alcuni iscritti Marino Spagna e Alessandro Benucci, esponenti del Siulp di Firenze. Il 28 settembre 2017 è Spagna a comunicare agli agenti i temi che «devono studiare attentamente» in vista dell'esame di analisi strategica: «geopolitica aerospaziale, geopolitica delle religioni, geopolitica cinese». Il 17 novembre alle 12.05 Benucci preannuncia in modo ancor più dettagliato gli argomenti per l'esame di organizzazioni internazionali.

Certe perplessità sui corsi di laurea della Link non sono nuove: una sentenza del tribunale di Roma del 2013 ricostruisce come grazie alla convenzione con il ministero dell'Agricoltura, stesa dal direttore di settore Giuseppe Ambrosio, riuscirono a laurearsi alla Link e subito dopo a vincere un concorso interno al ministero la moglie dello stesso Ambrosio, Stefania Ricciardi, e la sua segretaria personale. «L'effettiva partecipazione ai corsi da parte delle stesse desta non poche perplessità, in quanto i riferiti tempi e modalità di svolgimento degli esami contrastano con ciò che invece emerge dai relativi statini», scrissero i giudici.

Ora lo schema - convenzione con la Link, e esami benevoli - sembra ripetersi nel caso che investe il Siulp. Ma qui oltre all'ombra di un trattamento di favore agli aspiranti dottori si aggiungono gli interrogativi sui quattrini che girano, e che approdano sul conto della Hero a San Marino.

Di chi è il conto? Non della Link, che ieri sulla sua pagina Facebook scrive testualmente che l'«università non ha o ha avuto conti a San Marino». Il corso di perfezionamento che è la giustificazione formale dei soldi inviati da ogni iscritto alla Hero è stato «erogato dalla fondazione Sicurezza e Libertà», emanazione dei vertici dello stesso Siulp (il primo socio è il segretario nazionale Felice Romano). E già qui ci sarebbe da discutere.

A rendere tutto ancora più oscuro è che dei «corsi di perfezionamento» pagati dai poliziotti non c'è traccia. Eppure la Link li tiene per buoni, e consente ai poliziotti che li frequentano di accedere direttamente al secondo anno del corso di laurea in Scienze politiche, rinunciando alle rette corrispondenti. Di fatto, lo schema è semplice: il Siulp rimpolpa i ranghi della Link (secondo la stessa università, ben 400 dei suoi 2.500 iscritti sono poliziotti), che però incassa solo le rette del secondo e terzo anno. Il resto finisce a San Marino. A dare l'indicazione del nuovo conto nella chat dei poliziotti è, alle 12.49 del 27 febbraio scorso, Marino Spagna. Parla esplicitamente dei «600 euro corso Human Sicurity per abbonare il 1° anno accademico» e dice «volevo comunicarvi iban che mi ha inviato ieri sera Sandro Pisaniello presidente della fondazione per università Link Campus».

Sandro Pisaniello è dunque sia segretario amministrativo del Siulp che presidente della fondazione Link, ma il conto non è nè delLa Link nè del Siulp, che ieri fa sapere di non avere conti a San Marino.

Allora di chi è l'Iban SMZ030340980000060167336?

Berlusconi chiede la riabilitazione: ecco il piano per tornare eleggibile

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Chiesta al tribunale di sorveglianza di Milano la cancellazione dalla fedina penale della condanna per frode fiscale. Se concessa tornerà incensurato e eleggibile

Non ha potuto candidarsi alle elezioni, ma il suo rientro in una carica istituzionale potrebbe essere comunque assai prossimo: Silvio Berlusconi ha chiesto al tribunale di sorveglianza di Milano la riabilitazione, ovvero la cancellazione dalla fedina penale della condanna per frode fiscale inflittagli nell'agosto 2013 al termine del processo per i diritti tv. Il Cavaliere, come è noto, scontò un anno di pena in affidamento ai servizi sociali, lavorando presso l'istituto Sacra Famiglia di Cesano Boscone. E la legge prevede che dopo tre anni dalla espiazione della pena, il condannato possa chiedere la riabilitazione. Ovvero di tornare incensurato. E proprio questa è l'istanza che - come racconta oggi il Corriere della Sera - Berlusconi ha depositato il 12 marzo scorso nella cancelleria del tribunale milanese.

È una mossa praticamente scontata, ma che aggiunge un terzo scenario - e questo assai ravvicinato - alle strategie di Berlusconi per tornare a pieno titolo nella vita politica. Il primo, quello senza incertezze, è indicato dalla stessa legge Severino, che ha portato alla sua esclusione dal Senato: la legge prevede che la estromissione dalle cariche elettive possa durare sei anni, pertanto dalla fine di luglio del prossimo anno Berlusconi potrebbe in ogni caso tornare candidabile per ogni carica. Il secondo è affidato al ricorso alla Corte dei diritti dell'uomo a Strasburgo, che ha discusso il caso nell'udienza della Gran Chambre lo scorso autunno e che da allora non ha più dato segni di una decisione imminente. Ora, la richiesta di riabilitazione che potrebbe accelerare bruscamente i tempi del ritorno in scena. Tant'è vero che già nei giorni scorsi se ne era parlato negli articoli che ipotizzavano una candidatura del Cavaliere al ministero degli Esteri nel futuro governo.

L'articolo 179 del codice di procedura penale prevede che la riabilitazione possa venire concessa qualora il condannato "abbia dato prove effettive e costanti di buona condotta". A sostegno di questa tesi, Berlusconi può portare la decisione dello stesso tribunale di sorveglianza di Milano che decise di accorciare la sua pena dandogli atto del positivo comportamento. Sull'altro piatto della bilancia ci sono i procedimenti penali ancora aperti come cascami del caso Ruby, ma si tratta di accuse che Berlusconi respinge e che impiegheranno anni prima di arrivare ad una sentenza definitiva. Nel frattempo, il Cavaliere chiede di tornare in scena. I tempi di attesa del tribunale di sorveglianza di Milano, oberato di pratiche, in genere sono piuttosto lunghi. Ma la rilevanza della vicenda potrebbe portare la pratica su una corsia più veloce.

Il Cavaliere chiede la riabilitazione: udienza entro l'estate

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Il tribunale di Sorveglianza di Milano può rendere Berlusconi candidabile già a luglio

Luca Fazzo

Milano Prima dell'estate Silvio Berlusconi potrebbe tornare ad essere un protagonista a pieno titolo della vita politica, non solo come leader di Forza Italia ma anche come figura istituzionale, da una carica di ministro ad una candidatura in eventuali elezioni suppletive. Il tribunale di sorveglianza di Milano si appresta a fissare infatti l'udienza in cui verrà valutata la richiesta di riabilitazione presentata il 12 marzo da Berlusconi attraverso i suoi legali. Se accolta, l'istanza del Cavaliere lo riporterebbe allo status di incensurato e farebbe cessare immediatamente gli effetti nei suoi confronti della legge Severino, in base alla quale venne estromesso dal Senato dopo la condanna definitiva nel processo per i diritti tv.

La presentazione dell'istanza era stata anticipata nei giorni scorsi da Vittorio Sgarbi durante una trasmissione e viene confermata ieri dal Corriere della sera. In base all'articolo 179 del codice penale, trascorsi tre anni dall'espiazione della pena, il condannato può chiedere la riabilitazione nel caso «abbia dato prove effettive e costanti di buona condotta». Proprio questa circostanza viene sottolineata nell'istanza firmata da Niccolò Ghedini e Franco Coppi, legali dell'ex premier, che è ora sul tavolo di Giovanna Di Rosa, presidente del tribunale di sorveglianza di Milano. Nei prossimi giorni verrà fissata la data della camera di consiglio (non si tiene un'udienza vera e propria) che, visti i tempi medi di attesa, non dovrebbe tardare più di tre mesi.

Il percorso però non si annuncia privo di insidie. Il primo passo dei giudici sarà chiedere ai carabinieri una relazione sul cittadino Berlusconi: frequentazioni, tenore di vita, e quant'altro di prammatica, e qui non ci sono problemi. Ma il tribunale acquisirà anche il certificato dei carichi pendenti, nel quale appariranno ovviamente i processi in corso a carico del Cavaliere per corruzione in atti giudiziari, ultime conseguenze dell'interminabile caso Ruby. Di per sé, l'esistenza di altri processi ancora aperti non impedisce - secondo l'orientamento sia del tribunale di Milano che della Cassazione - che venga concessa la riabilitazione. Ma è ovvio che questi strascichi potranno condizionare la decisione finale.

Il tribunale potrebbe già decidere al termine della camera di consiglio prima delle ferie, o rinviare per approfondire: soprattutto se nel frattempo arrivassero memorie integrative dalla difesa di Berlusconi (che al momento non è intenzionata a farlo) o dalla Procura generale. Proprio l'atteggiamento della Procura, che rappresenta l'accusa, è al momento l'incognita principale. Quando Berlusconi chiese lo sconto di 45 giorni del suo affidamento ai servizi sociali, la Procura si oppose ma il tribunale glielo concesse ugualmente, dandogli atto di avere tenuto (dopo una intemperanza verbale verso la magistratura, di cui si era subito scusato) un comportamento «irreprensibile sotto ogni punto di vista».

Ora la speranza del Cav è che la scena si ripeta. Anche perché di una sentenza della Corte di Strasburgo, cui pure si è rivolto, per ora non c'è avvisaglia.

Governo e suicidio assistito: resti il reato, Fabo eccezione

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L'esecutivo si costituisce alla Consulta. La richiesta è di valutare caso per caso. Il rischio del vuoto normativo

Eliminare dal codice penale il reato di aiuto e istigazione al suicidio aprirebbe un vuoto normativo dalle conseguenze ingestibili e imprevedibili: perché se vi sono episodi come quello di Dj Fabo, dove la volontà di morire era ferrea e ripetuta, ve ne sono altri in cui le certezze son minori, e il confine tra i desideri del malato e quelli di chi gli sta intorno è più labile. Il reato rimanga dunque in vigore: e siano i giudici, caso per caso, a adeguare le loro sentenze ai casi specifici.

È questo, in sostanza, uno degli argomenti con cui il governo, attraverso l'Avvocatura dello Stato, ha deciso di scendere in campo nella drammatica vicenda di Fabiano Antoniani, meglio noto come Dj Fabo, e del radicale Marco Cappato che lo accompagnò in Svizzera a suicidarsi nel febbraio 2017, e che poi si autodenunciò alla Procura di Milano. Ne è nato un processo toccante e drammatico, al termine del quale i giudici della Corte d'assise hanno deciso di non decidere: e di mandare tutto alla Corte Costituzionale perché valuti la legittimità dell'articolo 580 del codice penale, che punisce col carcere «chiunque determina altri al suicidio o ne agevola l'esecuzione».

Nei giorni scorsi, il fronte che difende Cappato aveva raccolto quindicimila firme - tra cui quelle di illustri giuristi - per chiedere al governo di non costituirsi davanti alla Consulta in difesa della legge. Invece il 30 marzo scorso da Palazzo Chigi è arrivata, siglata dal sottosegretario Maria Elena Boschi, l'ordine all'Avvocatura generale dello Stato di scendere in campo. A suggerire la scelta è stato il ministro della Giustizia, Andrea Orlando.

L'argomento è delicato, perché porta davanti alla Consulta un tema complesso e sofferto come il «fine vita», sul quale l'evoluzione del comune sentire è continua. Nel caso specifico, poi, sono entrate in ballo le immagini in tv del processo a Cappato, i filmati di Dj Fabo morente, le sue condizioni disperate. E l'impossibilità per l'uomo, totalmente paralizzato, di suicidarsi senza aiuti.

Per questo, il ministero della Giustizia in una nota rimarca che non si tratta di una mossa contro Cappato ma a difesa del principio generale. Ad argomentare la mossa è stata Gabriella Palmieri, l'avvocato dello Stato più esperta di questi temi. Nelle diciassette pagine della sua memoria chiede in primo luogo che la questione sollevata dalla Corte d'assise di Milano sia dichiarata inammissibile perché irrilevante nel caso Dj Fabo: il processo a Cappato poteva essere portato a conclusione senza una condanna anche con la norma attuale, interpretandola in modo avanzato. Tant'è vero che al termine delle indagini preliminari il pm aveva chiesto di archiviare il procedimento.

Nel caso che la Corte scelga di entrare nel merito della vicenda, l'Avvocatura afferma che spetta al Parlamento stabilire in quali casi e con quali pene questi fatti debbano essere sanzionati, sapendo che il criterio di guida è la libertà di scelta del malato. Bisogna avere cioè la certezza che chi viene aiutato a morire abbia intrapreso questa strada liberamente e consapevolmente, senza suggerimenti che possono sconfinare nell'istigazione. Il tema, d'altronde, è così delicato che la stessa Corte europea dei diritti dell'Uomo (le cui decisioni vengono citate con insistenza dalla difesa di Cappato) ha lasciato ampi margini di discrezionalità ai paesi che aderiscono alla Convenzione.

Secondo il governo, dunque, la norma deve sopravvivere, perché l'alternativa è un far west dove tutto diventa lecito. Sarà poi il giudice a valutare caso per caso, anche perché la forchetta delle pene previste (da cinque a dodici anni) è così ampia da poter adeguare le condanne ai comportamenti specifici. La parola ora passa alla Corte Costituzionale: che difficilmente terrà udienza prima dell'autunno.

Prete pedofilo e vescovo Delpini. Quel processo segreto in Curia

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I vertici ecclesiastici erano al corrente delle accuse rivolte al sacerdote, ma l'allora vicario episcopale si limitò a spostarlo

La Curia milanese era così al corrente dell'episodio di pedofilia che in una parrocchia di Rozzano aveva avuto per protagonista un giovane prete, che avviò una istruttoria interna, una indagine segreta di cui solo ora si viene a conoscenza. Che fine abbia fatto l'indagine non si sa. Ma è documentato che il prete sotto accusa venne lasciato ancora a lungo a contatto con i ragazzini, e che i vertici della Curia si guardarono bene dal denunciare l'accaduto.

Il giovane prete, arrivato a Rozzano nel 2011 fresco di voti, si chiama Mauro Galli, e nel processo in corso a suo carico è emerso già con chiarezza il ruolo svolto dall'attuale arcivescovo Mario Delpini, allora vicario episcopale: che, informato dell'accaduto (don Mauro che invita un quindicenne a dormire a casa sua; lo porta nel suo letto e allunga le mani) si limita a spostarlo di parrocchia, e quando scopre che una indagine è in corso si premura di avvisare il prete e di trovargli un avvocato.

Ieri, in aula, arriva uno degli psichiatri che nel corso degli anni hanno seguito A., il ragazzo abusato: un giovane problematico, oscillante tra narcisismo e insicurezza. Il medico si chiama Angelo Bertani, e la sua è una testimonianza importante per più di un motivo. Il primo è che fa piazza pulita delle chiacchiere che affollano gli atti del processo, e che sembrano appassionare assai i giudici, secondo cui A. era «posseduto dal demonio»: tutte balle, le crisi in cui il ragazzo si dibatteva e parlava in lingue sconosciute erano messe in scena, simulazioni, e a confidarlo allo psichiatra fu il ragazzo stesso. Il secondo è che fornisce la versione più cruda dei contatti tra A. e don Mauro, nella notte passata nel letto matrimoniale: «Il prete ha iniziato a toccarlo e lui è rimasto immobile come se stesse dormendo. Il prete ha continuato a toccarlo, mi sembra anche sui genitali poi ha cercato di penetrarlo e lui si è irrigidito per impedirlo».

Ma la testimonianza del dottor Bertani è importante, anche perché rivela l'esistenza dell'indagine interna della Curia: «Sono stato sentito da un tribunale ecclesiastico. Erano in tre o quattro, mi hanno sentito in centro, a Milano, ma mi hanno stressato così tanto che non mi ricordo neanche dove fossimo». Possibile? E perché, dopo essere rimasta ferma per anni, la giustizia vaticana decise di muoversi? Come faceva la Curia a sapere che la vittima era stata in cura da Bertani, e cosa voleva sapere?

Gli interrogativi sono tanti. Di certo c'è che vennero convocati anche i genitori del ragazzo, e loro si ricordano bene dove avvenne l'interrogatorio: in piazza Fontana, all'Arcivescovado. E che i risultati dell'indagine ecclesiastica non furono trasmessi alla magistratura italiana. «In tanti anni, non mi è arrivata mai una denuncia dall'interno della Chiesa», aveva detto anni fa in una intervista il pm Piero Forno, e per questo finì sotto inchiesta. Ma anche in questo caso il sistema è quello. Si sa solo che gli atti dalla Curia milanese passarono a Roma, in Vaticano: a rivelarlo in una lettera alla famiglia di A. è il cardinale Angelo Scola, che critica pesantemente la gestione del caso di don Mauro da parte del suo vice Mario Delpini, parlando di scelte «maldestre» e «improvvide».

La Curia sapeva, e non denunciò. La famiglia, cattolicissima e quasi succube, non denunciò, nè lo fecero i servizi sociali. Ci vollero i carabinieri, che arrivati a casa di A. dopo un tentato suicidio ne raccolsero il racconto, perché il muro di silenzio si rompesse.


I poliziotti pagano. I no global mai

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Sono 27 i condannati tra forze di polizia e carabinieri per i fatti di Bolzaneto. E i "black bloc" violenti? Impuniti

Tra loro c'è chi è stato assolto con formula piena, chi è stato prosciolto per prescrizione. C'è chi, nella bolgia fuori controllo del G8 di Genova, si adoperò per evitare gli eccessi. E c'è chi nelle carte del processo si vede dare atto di non avere mai sfiorato un solo fermato. Sono poliziotti, carabinieri, secondini, medici. A quasi diciassette anni di distanza dai giorni che misero Genova a ferro e fuoco, ventisette uomini e donne dello Stato, ventisette tra le migliaia spediti allora allo sbaraglio nella trincea del G8, si vedono recapitare il conto di violenze in cui la grande maggioranza non ebbe alcun ruolo. Sei milioni di euro che la Corte dei conti di Genova ordina loro - con una sentenza depositata giovedì - di versare ai ministeri della Giustizia, degli Interni e della Difesa, a suo tempo condannati a risarcimenti milionari a favore dei no global fermati durante gli scontri e finiti in quello che fu il buco nero del sistema repressivo, la caserma «Nino Bixio» di Bolzaneto. E il conto potrebbe diventare ancora più pesante: ai ventisette la Corte dei conti potrebbe chiedere anche i «danni di immagine» subiti dallo Stato, nonostante una legge lo impedisca esplicitamente. Ma la Corte dei conti del capoluogo ligure chiede che la Corte costituzionale dichiari la illegittimità della norma che esclude questa possibilità. La faccenda, dunque, è destinata a protrarsi quasi all'infinito.

È una sentenza destinata a fare discutere: e che, a pochi giorni dalle esternazioni del pm Paolo Zucca sulla presenza di «torturatori» del G8 ai vertici della polizia, racconta bene come la ferita di Genova sia ancora aperta. Ed è destinata a dare voce alle proteste dei sindacati di polizia, che da tempo denunciano come alla sostanziale impunità dei black bloc e degli altri violenti, gli unici a finire condannati siano stati i servitori dello Stato.

A rendere ancor più singolare la sentenza di giovedì, c'è il fatto che ventidue dei ventisette chiamati a risarcire lo Stato non sono stati neanche condannati. Molti, dopo avere protestato per anni la loro innocenza, hanno dovuto accontentarsi della prescrizione. Ma il conto più salato viene oggi presentato a due che sono stati assolti: sono il generale della polizia penitenziaria Oronzo Doria e il magistrato Adolfo Sabella, all'epoca capo dell'amministrazione penitenziaria. Il primo è stato assolto con formula piena «perché il fatto non sussiste», per il secondo la Procura di Genova chiese l'archiviazione al termine delle indagini preliminari. Sono innocenti, insomma, ma per la Corte dei conti è un dettaglio trascurabile. Sabella dovrà versare un milione e 132mila euro perché «è improbabile che non abbia avuto modo di percepire che qualcosa di brutto stava succedendo», e anzi poche righe dopo quell'«improbabile» diventa addirittura «impossibile». Il generale Doria viene condannato a risarcire 809mila euro perché «ebbe sicuramente la percezione che qualcosa non andava e invece di intervenire si limitò a fare da semplice spettatore»: e pazienza se poche righe prima i giudici hanno dato conto di come per due volte, arrivato a Bolzaneto, Doria avesse ordinato di allontanare dal contatto con i fermati gli agenti più esagitati.

Nelle sue 172 pagine, la sentenza della Corte dei conti dà atto che solo cinque dei ventisette incolpati si sono visti attribuire atti specifici e concreti di violenza: per tutti gli altri l'accusa è di «non avere impedito», «avere tollerato», cioè di essere stati in balia del caos. Come Daniela Cerasuolo, agente della penitenziaria, di cui la stessa no global risarcita dice «lei personalmente non mi ha toccata», eppure dovrà risarcire tremila euro; o il medico Marilena Zaccardi, che per avere consentito che «i maltrattamenti fossero posti in essere» dovrà versare 181mila euro.

Uno solo dei poliziotti inquisiti per Bolzaneto non dovrà risarcire: Natale Parisi, ispettore di polizia, condannato a un anno in primo grado. Devastato da accuse che sentiva ingiuste, l'anno dopo andò a schiantarsi con la sua moto all'imboccatura di un tunnel, ultima vittima di quella follia chiamata G8.

Corona ancora pericoloso Ma gli ridanno 2 milioni

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Per i giudici leciti i soldi nascosti nel controsoffitto di casa sua. Confiscata l'abitazione in centro

Milano La domanda è: si calmerà un po', ora che sta per ritornare ricco? O viceversa i soldi in tasca saranno benzina per il fuoco incontrollabile che gli brucia dentro, l'anomalia caratteriale che gli impedisce di rispettare qualunque regola, e che fa di lui (come spiegava proprio ieri don Antonio Mazzi, che lo ha avuto in cura) uno che «si sente la divinità di se stesso»? Chi vivrà vedrà. Di sicuro, non sarà oggi l'ultima volta che le cronache dovranno occuparsi di Fabrizio Corona, già «re dei paparazzi», oggi affidato in prova ai servizi sociali dopo un lungo soggiorno in galera.

Il tribunale di Milano, ieri restituisce a Corona quasi per intero (dedotti solo 700mila euro che andranno al fisco per le tasse evase) i soldi che nell'ottobre 2016 erano saltati fuori dopo che uno strano attentato aveva richiamato l'attenzione della polizia sull'aitante maudit delle notti milanesi. Nel controsoffitto della casa della sua segretaria c'erano un milione e ottocento in banconote da cinquanta euro, avvolte in quindici pacchetti. Altri 800mila erano saltati fuori da due cassette di sicurezza in Austria. Foschi scenari di riciclaggi malavitosi avevano fatto irruzione nella telenovela di Corona, allora ricoverato in una comunità per tossicodipendenti: e l'ex della Moric e di Belen venne rispedito in cella.

É tornato libero da un mese e mezzo, e adesso si vede dissequestrato il malloppo. Non gli arriverà tutto in mano, e questo è forse un bene anche per lui: i soldi del controsoffitto andranno al liquidatore della Corona's, l'ultima delle sue società andate a gambe all'aria, e serviranno anche quelli a pagare i debiti con l'erario. Ad approdare a Fabrizio saranno invece gli 800mila euro delle cassette di sicurezza, appena anche le autorità austriache avranno archiviato la loro indagine per riciclaggio. Verranno ridati alla società Atena, la nuova creatura di Corona, posseduta formalmente (visto che Corona è interdetto da ogni carica sociale) al 99% dalla signora Gabriella Corona. Ma la signora è la mamma di Fabrizio, e quindi si può immaginare che alla fine i soldi arriveranno a lui.

Unico dolore, la bella casa di via de Cristoforis, che viene confiscata dal tribunale, essendo stata comprata con soldi fregati alla bancarotta della Corona's. Ma l'appartamento continuerà ad essere il nido d'amore di Corona, visto che l'amministratore giudiziario lo ha affittato (per quasi duemila euro al mese, si dice) a Silvia Provvedi, fidanzata di Fabrizio. E il tribunale di sorveglianza ha autorizzato a Corona ad andarci a vivere. Così Fabrizio è tornato a essere presenza fissa, e quasi elemento di arredo, della zona più glamour della Milano notturna, tra corso Como e Porta Garibaldi, scenario della sua ascesa e caduta: dove ha amici e anche nemici, e dove l'altro giorno un chiassoso litigio con un ex dipendente ha rischiato di rimetterlo nei guai. Ma Corona è fatto così. Come scrivono ieri i giudici: è socialmente pericoloso, ma non è che stia peggiorando.

Milano, scandalo sanità Arrestati quattro primari: erano soci dei fornitori

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Medici di due poli d'eccellenza, Pini e Galeazzi Coinvolto ex giudice e garante della legalità

Luca Fazzo

Milano Convegni esotici, ricche consulenze, pacchi natalizi: nei rapporti tra medici e case farmaceutiche il confine tra lecito e illecito è spesso vago, affidato più alle sensibilità individuali che a norme precise. Ma a Milano quattro medici di chiara fama quel confine lo avevano scavallato a pie' pari, diventando soci occulti delle stesse aziende di cui poi convincevano i loro ospedali a comprare i prodotti. E per realizzare il loro progetto avevano portato dalla loro parte nientemeno che un ex procuratore della Repubblica, uno dei magistrati prestati alla politica in nome della trasparenza: Gustavo Cioppa, per anni una delle toghe più importanti della Lombardia, prima giudice istruttore, poi sostituto procuratore generale, poi capo della Procura di Pavia, scelto da Roberto Maroni come sottosegretario alla presidenza della Regione Lombardia e «Garante per la legalità». E ora indagato per favoreggiamento e abuso d ufficio, accusato di essere divenuto «referente e portavoce» dei medici e dei loro affari.

Cioppa resta a piede libero. In carcere finisce l'imprenditore Tommaso Brenicci, alias Cicciobello nelle intercettazioni dei suoi complici: ai domiciliari quattro medici, tre dei quai docenti universitari, e il direttore sanitario del Gaetano Pini, l'ospedale che rappresenta l'eccellenza lombarda nel campo dell'ortopedia.

Il più noto degli arrestati è Giorgio Calori, primario al Pini, una autorità mondiale nel suo campo, volto noto di trasmissioni televisive sulla salute. Ma anche, stando alle carte dell'inchiesta, uomo alla disperata ricerca di soldi, costretto a chiedere prestiti in giro per non essere travolto dal mutuo della sua casa da 300 metri quadrati. Mentre due dei suoi colleghi a motivarli avevano il progetto di comprarsi una Maserati Ghibli per ciascuno.

Non è una storia di malasanità, di pazienti devastati da medici ignoranti e spietati. Anzi è paradossalmente una storia di eccellenza, perché i prodotti inventati da Calori e dagli altri erano innovazioni preziose: dall'Avn, un kit per rigenerare i tessuti ossei, al MicroDTT, un dispositivo per la diagnosi delle osteomieliti, le infezioni ossee.

Ma nell'ostinazione con cui questi prodotti venivano proposti (e quasi imposti) al Pini e al Galeazzi, l'altro polo dell'ortopedia milanese, è impossibile separare la passione clinica da quella per gli affari. E lo stesso vale per il pressing furioso sulla Regione Lombardia, attraverso il «Garante per la legalità» Cioppa, perché desse il via al «Progetto Domino», che sui prodotti brevettati dal clan si reggeva, e che fu varato dalla giunta nel marzo 2017. «Era un progetto valido, nell'interesse dei malati, proposto da un ospedale pubblico», spiega l'assessore Giulio Gallera: «Ma di quanto c'era dietro ho saputo solo oggi».

Ed ecco cosa c'era dietro: una serie di scatole societarie dove gli affari dell'imprenditore Brenicci si mischiavano in modo inestricabile a quelli dei camici bianchi. Giorgio Calori ha il 33 per cento della Its, la società inglese che commercializza l'Avs. Carlo Romanò e Lorenzo Drago, i due medici del Galeazzi, sono soci con Brenicci nella 4I, che vende il MicroDTT. Forse facevano l'interesse dei malati: di sicuro si facevano il loro.

"Voglio la borsa Vuitton. E la Maserati blu..."

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Gli appetiti dei luminari coinvolti nel «Progetto Domino». Tra regali e vanterie

Milano Affari nobili e meno nobili, rivalità, diffidenze: per un anno intero le microspie della Guardia di finanza hanno registrato i traffici dei medici del «Progetto Domino».

HO UNA CERTA ETÀ

Carmine Cucciniello, primario di traumatologia correttiva al Pini: «Se dalla Svizzera arrivano 50mila euro fatturati sono contento (..) ho un'età in cui non me ne frega un cazzo di andare ai convegni a divertirmi, vado solo se è focalizzato a vendere 5mila steli».

LA GHIBLI BLU

Carlo Romanò, primario di chirurgia ricostruttiva al Galeazzi: «Presa, blu metallizzata, interni in cuoio, pelle estesa (...) con i cerchi in lega bruniti e pinze blu un po' elegantina. Lorenzuccio (Lorenzo Drago, responsabile del laboratorio di analisi, ndr) le ha prese rosse. Pacchiane».

LA MUCCA DA MUNGERE

Un socio di minoranza di Brenicci si lamenta per i 50mila euro di consulenze pagati a Drago e Roanò: «Volevo discutere di alcuni costi tipo le consulenze esterne.. eh tu lo sai.. Non può, non può essere una mucca da mungere». E Benicci: «Io mi sono anche rotto i coglioni del fatto che loro, con la loro immagine, cioè la loro immagine l'abbiamo già pagata 18 volte».

IL RESPONSABILE MONDIALE

Giorgio Calori, primario di chirurgia riparativa al Pini, festeggia con la direttrice sanitaria Paola Navone le prospettive di affari: «Ho avuto l'incontro con questa azienda che è la più grande del mondo, si chiama Heraeus e hanno voluto me, se mi faranno ufficialmente nominare responsabile mondiale del progetto, cazzo tu sei di fianco a me».

È IL PIÙ IMPASTATO

Brennici parla di Calori con Lorenzo Drago, «Figa, è presidente da tutte le parti (...) Giorgio è molto forte in questo momento qua, poi magari lo uccideranno, eh, però è molto forte (...) oggi è il chirurgo italiano più impastato che c'è, numero uno in assoluto».

NON VOGLIO LA VUITTON

Da un convegno, Calori chiama la moglie. «La Vuitton non ti piace?». «Ne ho un'altra un po' più grande, non ne ho bisogno, non devi spendere». «Stefi è possibile che me la regalino, e allora cazzo non rompere i coglioni».

SPUTO DI CAMMELLO

Paola Navone, direttore sanitario del Pini, difende la qualità dei dispositivi venduti da Brenicci: «Noi avevamo consolidato che come strumento di raccolta del campione infetto si usassero i MicroDTT.. gli altri usano le solite provette con sputo di cammello».

CHIEDIAMO A GUSTAVO

La Navone spiega a Calori la strategia per incontrare i vertici della Regione. «Quando torniamo andiamo da Gustavo (Cioppa, sottosegretario alla Presidenza, ndr), andiamo da Johnny Daverio (direttore generale del Welfare, ndr), se no vado io da Giulio (Gallera, assessore al Wefare, ndr)». Ed ecco il racconto successivo: «Sono andata da Giulio mentre c'era lì Maroni e Daverio e ho detto dottor Daverio si tratta di siglare una partnership fra noi quattro su un progetto molto carino, mi ha detto ma se è per così poco perché non me l'hanno detto subito?, e gli ho detto mi sosterrà?. E Giulio mi ha detto lei deve essere sostenuta a prescindere».

L'OSPEDALE FACILE

Brenicci al telefono con Cucciniello: «Posso permettermi di dirti quello che penso da azienda? Il Pini è l'ospedale più facile del mondo, perché non ci sono gare, se sei amico di un chirurgo usi i prodotti che vuole, c'è tutto libero, tutto libero!».

A San Marino adesso spunta il filo rosso tra Link e Siulp

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Dietro la fiduciaria legata all'università vicina a M5s c'è una fondazione. Creata dai vertici del sindacato di polizia

Un filo sotterraneo lega la Link Campus, l'università romana diventata la scuola quadri del Movimento 5 Stelle, e i vertici del Siulp, il maggiore dei sindacati di polizia. Tutto ruota intorno alla Hero, la misteriosa società con sede e conto a San Marino, di cui sia la Link che il Siulp negano la paternità, ma alla quale centinaia di poliziotti hanno dovuto versare robusti oboli per accedere ai corsi di laurea triennali della Link e da lì ai concorsi interni alla Polizia di Stato per le carriere direttive. Il Siulp ha preannunciato querele al Giornale, dopo gli articoli che avevano alzato il velo sulla vicenda. Ma nuove carte confermano il pasticcio, allargano le sue dimensioni e sollevano nuovi interrogativi.

La Hero risulta controllata al 100 per cento da una fiduciaria della Banca Agricola Cooperativa di San Marino, ed è amministrata da Andrea Parmeggiani, commercialista nella repubblica del Titano, che interpellato dal Giornale rifiuta giustamente di indicare i veri titolari della società. Ma va tenuto presente che la Hero ha una sorta di antenata, una fondazione che prima di lei incamerava su un conto italiano i soldi dei poliziotti in cerca di laurea. Si chiama «Sicurezza e Libertà» e risulta costituita il 14 ottobre 2015, il suo legale rappresentante è il segretario nazionale del Siulp, Felice Romano, tra i suoi fondatori c'è quasi tutto il vertice del Siulp. È una costola del sindacato, insomma. Il 25 febbraio 2016 il direttore generale della Link, Pasquale Russo, chiede di essere iscritto alla fondazione, e per questo versa, non si sa se attingendo a quale fondo, ventimila euro. E non è tutto: Russo evidentemente si dà da fare per trovare altri finanziatori. Nell'aprile 2016, per esempio, scrive a Antonio Colasante, amministratore del Centro Italiano Servizi di Roma, annunciando che si è costituita la fondazione «da me personalmente sostenuta oltre che dall'università che dirigo. Il presidente sarà Gianni de Gennaro». E Colasante scuce anche lui diecimila euro.

Gianni de Gennaro, ex capo della polizia e dei servizi segreti, in realtà con la fondazione non c'entra niente, e la Link spende il suo nome per accreditarsi come canale di collegamento con il mondo della sicurezza e dell'intelligence. Nel comitato scientifico della fondazione siedono invece il fratello di de Gennaro, Andrea, generale della Guardia di finanza, tre prefetti (tra cui due ex vicecapi della polizia, Antonino Cufalo e Fulvio della Rocca) e l'ex segretario del Siulp Giuseppe De Matteis, oggi a capo della polizia alla Camera dei deputati. Cosa faccia esattamente la fondazione non si capisce, in teoria dovrebbe tenere corsi per I poliziotti ma nel suo bilancio 2017 non c'è un solo euro destinato questo scopo, e l'uscita principale è per «attività di supporto e promozione scopo associativo».

In sostanza la fondazione è una scatola vuota, dove attività della Link Campus e del Siulp si intrecciano e si confondono. Di certo c'è che la fondazione, in cambio dei suoi corsi, inghiotte il 20 per cento delle rette che i poliziotti dovrebbero versare alla Link. Questo fino all'inizio di quest'anno, quando agli agenti iscritti all'università viene comunicato il nuovo conto su cui versare l'obolo: è quello della Hero di San Marino, dietro cui si celano non più la fondazione ma uomini e donne in carne e ossa. È un affare succulento, un business sulla legittima aspirazione dei poliziotti a conseguire il «pezzo di carta» necessario per fare carriera. Per fare chiarezza, basterebbe una rogatoria a San Marino, che alzasse il velo sui beneficiari dell'Iban in nostro possesso numero SM8...336

Il primario al giudice: "Ho fatto il bene dei malati"

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Calori risponde all'accusa di aver preso mazzette E il collega Cucciniello: "Mai favorito aziende"

L'altro ieri l'imprenditore Tommaso Brenicci, l'unico finito in galera nella nuova retata sulla sanità milanese, davanti al giudice aveva scelto di avvalersi del diritto a stare zitto. Ieri mattina tocca al più illustre degli indagati, il professor Giorgio Calori, primario al «Gaetano Pini», finito agli arresti domiciliari. Calori, con accanto il suo avvocato Nerdio Diodà, invece parla, e parla molto. Oltre tre ore di interrogatorio, davanti al giudice Teresa De Pascale. Delle accuse contenute nell'ordine di custodia ne rifiuta alcune, ne ammette altre. Ma si difende anche dalle accuse che nell'inchiesta non ci sono, e che gli sono piovute addosso dopo l'arresto grazie a intercettazioni e interviste, e che hanno scandalizzato il pubblico ben più delle ipotesi di tangenti: quella di essere un chirurgo cinico e spietato, pronto a operare senza reale necessità solo per brama di guadagno.

«È stato lo stesso giudice - spiega Diodà al termine dell'interrogatorio - a darci atto che in tutta questa lunga indagine non è emerso nulla in questa direzione. Tutti gli interventi erano indirizzati soltanto a curare il malato». Resta l'accusa di corruzione, la brutta storia dei rapporti d'affari tra il primario e Brenicci, dei kit per rigenerare i tessuti ossei usati (e quasi imposti) da Calori per i suoi interventi: e della società inglese che li vende, la Its, e di cui lui è socio al 33 per cento. Una partecipazione mai indicata nella dichiarazione dei redditi, e soprattutto mai resa nota - come era doveroso - da Calori ai vertici del «Gaetano Pini».

Come se la cava ieri, su questo punto cruciale, il luminare? Ammette di essere al centro di un conflitto di interessi, ammette di avere omesso di comunicare il problema al suo ospedale. Ammette di avere ricevuto soldi da Brenicci, e spiega che i dividendi della Its sono ancora fermi in Inghilterra. Ma sostiene di non avere fatto in cambio nulla di contrario ai suoi doveri di medico, perché i prodotti che impiegava erano tutti «infungibili», cioè non potevano essere rimpiazzati con altri meno costosi di altre aziende. Ho fatto gli interessi dei malati, dice in sostanza. Ma non può negare di avere fatto anche i propri. Ed è significativo il fatto che al termine dell'interrogatorio il suo difensore non provi nemmeno a chiedere al giudice la revoca degli arresti.

Anche il collega Carmine Cucciniello rimane per oltre due ore nella stanza del giudice. Si difende, assistito dai legali Corrado Limentani e Giuseppe Ezio Cusumano, spiegando che le protesi che usava da lui stesso ideate e commercializzate da Brenicci «sono un prototipo utilizzato in tutto il mondo. Non ero io - aggiunge il primario - che le ordinavo per conto dell'ospedale, io le avevo ideate e brevettate e ho sempre agito nell'interesse dei pazienti, senza favorire alcuna impresa». Le presunte tangenti, cioè i 32mila euro in consulenze ricevuti da società dell'imprenditore arrestato, sarebbero piuttosto guadagni leciti percepiti «in diversi anni per l'attività di formazione e sviluppo» di quei prodotti.

Il caos di piazza San Carlo colpa della gang di maghrebini

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La banda in manette: usava lo spray urticante per rubare Odio su Facebook con i riferimenti alle stragi islamiste

Nel mucchio selvaggio ci sono italiani di seconda generazione, ragazzi dal nome arabo ma nati a Torino, a Ciriè, a Reggio Emilia: ma anche loro simili arrivati da poco, accolti con permesso di soggiorno. Nel degrado delle banlieu italiane, si sono ritrovati insieme, e hanno messo in piedi una banda frenetica e feroce. Erano diventati un incubo, quelli della banda del peperoncino. Fino alla tragedia finale, l'ennesimo evento preso di mira puntando sulla grande folla, sulla ressa dove è facile colpire e svanire: il megaschermo che in piazza San Carlo, a Torino, la sera del 3 giugno trasmette la finale di Champions tra Juve e Madrid.

Furono le loro imprese, le rapine a colpi di spray urticante, a scatenare il panico che travolse la folla dei tifosi, il fuggi fuggi impazzito sul tappeto dei cocci di bottiglia. 1.527 feriti: la più grave, Erika Pioletti, morì dopo quaranta giorni di agonia. Per mesi, la Procura di Torino e la polizia hanno scavato sulle leggerezze di chi organizzò l'evento senza vie di fuga, e per quelle violazioni il procuratore Armando Spataro si prepara a portare a processo tra gli altri il sindaco Chiara Appendino e l'ex questore Angelo Sanna. Ma intanto, faticosamente, certosinamente, andava avanti l'inchiesta per capire quale scintilla avesse scatenato il panico. Si erano fatte le ipotesi più diverse, dallo scherzo di un incosciente allo scoppio di un petardo. Invece erano stati loro. Quelli del mucchio selvaggio.

La sera del 3 giugno, in piazza, ci sono due di loro: Sohaib Bouimadaghen, vent'anni, nato a Ciriè; Mohammed Machmachi, stessa età, marocchino. Sono armati di spray, come ogni volta che si infilano tra la folla. Insieme al resto della banda hanno colpito decine e decine di volte: venti gli episodi già accertati, tra Italia e mezza Europa. Già una volta, a un concerto torinese di Elisa, avevano scatenato una mezza catastrofe. Ma l'incidente non li aveva turbati, avevano continuato per la loro strada di rapine e di razzie.

Quale occasione più ghiotta dell'evento del 3 giugno, con mezza città assiepata tra le transenne? Sohaib e Mohammed si muovono da esperti. Lo spruzzo in faccia, la vittima che non capisce più niente mentre spariscono il portafogli, i gioielli, il cellulare, e loro due svaniscono nella calca. L'ultima vittima rimane terrorizzata, urla, cerca di fuggire: e scatta la psicosi. «É vero, eravamo lì, siamo stati noi», confessano ieri, uno dopo l'altro, dopo essere stati fermati. Ma non potevano fare altro, erano inchiodati dalle prove: le perizie scientifiche che hanno trovato i residui di spray sugli abiti delle vittime, le intercettazioni in cui si vantavano dell'impresa, e da ultimo le perquisizioni in cui l'altra notte saltano fuori le bombolette di spray e alcuni gioielli strappati in piazza San Carlo.

Sohaib e Mohammed vengono fermati per omicidio preterintenzionale: per la Procura c'è un filo diretto, un rapporto di causa-effetto che collega le loro rapine alla morte della Pioletti. Insieme ad altri otto maghrebini vengono colpiti da ordine di custodia per rapine aggravate, ed è il catalogo impressionante delle imprese: dall'incursione a Mediaworld, a quelle in una discoteca a Verona, alla razzia al concerto di Elisa alla Ogr di Torino, il copione era sempre quello. Colpivano per fare i soldi, ma anche per odio verso gli infedeli. Su Facebook Bouimadaghen scrive: «Avete calpestato bambini e donne per un petardo, ve ne accorgete solo quando vi tocca la pelle».


Cade già l'accusa di omicidio per la gang di piazza San Carlo

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Il gip accoglie le tesi della difesa e modifica il capo di imputazione. E ora i maghrebini si sentono in colpa

Adesso piange, «Budino», e si dispera: ma fin quando era libero, anche dopo che le imprese della sua banda avevano trasformato in tragedia una festa di sport e di popolo, lui e gli altri ridevano, si vantavano dell'impresa. In piazza San Carlo, la sera del 3 giugno 2017, erano lui e i suoi amici ad aggredire la gente con lo spray al peperoncino per rapinare. Furono le loro imprese a scatenare il panico in cui millecinquecento persone rimasero ferite e perse a vita Erika Pioletti.

Catturati tre giorni fa, «Budino», ovvero Sohaib Bouimadaghen, e il suo compare Mohammed Machmachi, cominciano adesso a fare i conti con le conseguenze delle loro azioni. Ma quali saranno queste conseguenze? A quali pene vanno incontro? Dopo averli interrogati e raccolte le loro confessioni, il giudice preliminare ha modificato il capo d'accusa. La Procura, chiamata al compito non semplice di inquadrare giuridicamente i fatti di piazza San Carlo, li aveva arrestati per omicidio preterintenzionale, pena fino a diciott'anni di carcere. Per il giudice invece devono rispondere di «morte come conseguenza di un altro delitto»: in totale, considerate le aggravanti (oltre alla morte della Pioletti, c'è la enorme quantità di feriti) la pena massima resta quasi la stessa. Senza contare che «Budino» e il suo amico devono rispondere anche di una sfilza di rapine compiute in Italia e all'estero insieme a otto complici. E che sull'intera banda potrebbe a breve abbattersi anche la denuncia per associazione a delinquere.

Che si trattasse di una banda stabile ed agguerrita, d'altronde lo raccontano bene gli atti dell'inchiesta. I colpi a ripetizione, tutti con la stessa tecnica, avevano da tempo richiamato l'attenzione della Squadra Mobile di Torino, e proprio le indagini sulle rapine hanno portato a intercettare il telefono di Bouimadaghen, con gli espliciti riferimenti all'episodio di piazza San Carlo. È stata quella telefonata a convincere la procura di Torino ad accelerare i tempi, fermando il giovane per omicidio e interrogandolo a caldo. Nelle stesse ore veniva fermato anche Machmachi. A differenza di Bouimadaghen, che è nato a Ciriè ed è cittadino italiano, Machamachi ha passaporto marocchino, era ospite di un centro di accoglienza, il rischio di fuga era alto. Così hanno catturato anche lui d'urgenza. L'ordinanza di custodia in carcere spiccata ora dal giudice, anche se modificando il reato, dimostra che il quadro nei confronti di entrambi i fermati è solido. Stesso discorso per Hamza Belghazi e Aymene Es Sahibi, entrambi marocchini con permesso di soggiorno, anche loro presenti alla razzia di piazza San Carlo, e anche loro incriminati ora per la morte di Erika Pioletti.

Si parla di un quinto membro della banda che forse era presente in piazza, e si parla soprattutto di altri dieci o quindici nomi che potrebbero aggiungersi ai dieci già incriminati per una ventina di rapine. E più si allarga il numero di partecipanti - tutti tra i diciotto e i vent'anni, tutti di origine maghrebina ma spesso nati in Italia e con passaporto tricolore - l'impressione è che la tragedia di piazza San Carlo abbia portato alla ribalta un mondo a parte, un universo dove immigrati di prima o seconda generazione vengono inghiottiti quasi con leggerezza da una spirale di crimini e di violenza: dove la percezione della gravità dei delitti sembra lontana anni luce, tanto remoto appare il rischio di poter essere presi. Fin quando non ci scappa il morto.

Facebook "parassitaria". Ha copiato l'app di un'azienda milanese

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La società di Zuckerberg perde l'appello contro l'impresa che aveva ideato Faround

La prima era stata una vittoria, questo un trionfo. Per la seconda volta il «made in Milan» sconfigge la potenza planetaria di Facebook: una sentenza sancisce definitivamente che i cervelloni californiani agli ordini di Mark Zuckerberg hanno scopiazzato senza complimenti la creatura di una piccola e geniale azienda di Cassina de' Pecchi. Una marachella da scuola elementare, resa più grave dal fatto che la Business Competence (questo il nome della ditta affacciata sulla linea 2 del nostro metrò) aveva dovuto consegnare a Facebook, per vederla abilitata sul social network, la ricetta della sua invenzione. A Menlo Park hanno smontato il giocattolo, ne hanno ricavato le istruzioni, e lo hanno rimesso in servizio con un altro nome e un altro logo. Ma la sostanza era identica.

Concorrenza sleale e violazione del diritto d'autore: queste le colpe che nell'agosto 2016 il tribunale di Milano aveva contestato a Facebook, dichiarandola colpevole di avere copiato la app Faround, inventata dall'azienda milanese, ribattezzandola Nearby. Faround è una piccola diavoleria che informa in diretta l'utente Facebook sui negozi e i locali intorno a lui, ne riporta le prestazioni, i prezzi e le recensioni. Miracoli della geolocalizzazione, la nuova realtà in cui il Grande Fratello sa in ogni istante dove siamo (e anche come pensiamo).

Per ottenere l'annullamento della sentenza del tribunale, Facebook aveva messo in campo uno stuolo di legali di fama: a difesa del proprio orgoglio e dei propri quattrini. Ma ieri la Corte d'appello presieduta da Amedeo Santosuosso le ha dato torto su tutta la linea. La tesi di fondo di Facebook, secondo cui Nearby era già in fase di progettazione da tempo, secondo la Corte non ha trovato alcun riscontro: il capo dei progettatori di Facebook, Daniel Hui, ha potuto portare in aula solo ritagli di stampa e articoli di blog, «poco significativi e sprovvisti di dati». «Le appellanti non hanno prodotto né un business plan, né stati di avanzamento, né altra documentazione idonea allo scopo». E i giudici sottolineano come Facebook abbia impedito al perito del tribunale di accedere ai suoi elaboratori elettronici per verificare la loro tesi. «Può dirsi provata la derivazione dell'algoritmo dell'applicazione Nearby da quella di Faround, e conseguentemente sia la violazione del diritto d'autore sia la commissione di atti di concorrenza sleale», conclude la Corte. Facebook è colpevole di una «appropriazione parassitaria di investimenti altrui per la creazione di un'opera dotata di rilevante valore economico».

Facebook si è precipitata a fare sparire l'applicazione, ma dovrà comunque pagare danni e soprattutto imparare la lezione. E a Cassina festeggiano: «Siamo orgogliosi - dice Sara Colnago, il giovane capo di Business Competence - di essere stati coerenti con le nostre convinzioni nonostante tutti ci dicessero di lascia perdere».

Anche se in chat sono corna "Mantenere la moglie tradita"

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Secondo gli ermellini navigare sui siti d'incontri è pienamente equiparabile ad avere un rapporto reale

Una mazzata per il marito, un ammonimento per tutti gli altri uomini: andateci piano con il sesso via Internet, state alla larga dai siti di incontri a luce rossa. Perché se vostra moglie, dopo avervi scoperti, se ne andrà di casa, la colpa sarà solo vostra. E se pretenderà che la manteniate per il resto dei suoi giorni, la Cassazione le darà ragione. Anche se magari siete stati sposati con lei solo un anno.

In tempi in cui dalla Suprema Corte arrivano decisioni dolorose per le donne alle prese con la fine del loro matrimonio - che da alcune sentenze innovative si vedono negare gli alimenti se possono cavarsela da sole - decisamente controcorrente va l'ordinanza depositata ieri mattina dai giudici della prima sezione civile (femmina il presidente, femmina il relatore: ma non è detto che il dettaglio sia significativo). Confermando una sentenza della Corte d'appello di Bologna, i giudici condannano un ex marito a versare ogni mese seicento euro di assegno alla signora con cui si era sposato poco tempo fa. Invano, per schivare questo fardello, l'uomo aveva spiegato che ad andarsene di casa era stata la signora, venendo meno ai suoi obblighi di assistenza coniugale. Dicono in sostanza i giudici: la signora aveva il sacrosanto diritto di andarsene, dopo avere scoperto che il marito, benché fresco di matrimonio, smanettava su Internet alla ricerca di ragazze di facili costumi.

«Il ricorrente - si legge nell'ordinanza - si duole che la Corte d'appello abbia ritenuto giustificato l'allontanamento della moglie dalla casa coniugale senza preavviso esclusivamente per la scoperta di un interesse del marito alla ricerca di compagnie femminili sul web». Ma, rimarca la Cassazione, «l'abbandono del tetto coniugale è stato ritenuto giustificato dalla Corte d'appello proprio dalla violazione dell'obbligo di fedeltà» da parte dell'uomo, «intento alla ricerca di relazioni coniugali tramite Internet, ritenendo ciò circostanza oggettivamente idonea a compromettere la fiducia tra i coniugi e a provocare l'insorgere della crisi matrimoniale». Per la Cassazione la tesi non fa una grinza, e il ricorso viene dichiarato inammissibile.

Certo, si potrebbe ragionare sulla malinconia di un matrimonio in cui, a pochi mesi dal fatidico «sì», dai lanci di riso, dai confetti, il marito dedica il suo tempo a cercare altre donne sui siti di incontri. Dalla sentenza, si apprende che l'uomo «si è limitato a minimizzare la sua condotta», come d'altronde farebbe qualunque marito scoperto in flagrante. Resta il fatto che per i giudici quelle ricerche sul web, quell'indugiare su illusioni di altre carni e di altri abbracci, furono un peccato mortale, una pietra tombale sul dovere di fedeltà. E non conta nulla che il matrimonio sia durato poco, nè che la ex moglie abbia auto di lusso e case, nè che l'uomo percepisca solo una pensione da tremila euro: dettaglio quest'ultimo che apre nuovi temi di riflessione, perché rivela che il marito non è più giovane, e che i suoi bollori non possono essere spiegati con l'età. Ma in queste tematiche, a quanto pare, i giudici non si sono addentrati.

Gli costano cari, al signor P., quei giri sul web. Seicento euro, a vita. E dovrà pure risarcire allo Stato le parcelle del difensore d'ufficio della moglie.

Vallanzasca intravede la libertà "Consapevole dei propri errori"

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L'ex boss della Comasina chiede la scarcerazione. Parere favorevole del direttore della prigione di Bollate. No del pg

Milano Non lo vogliono più neanche in carcere: perché quel vecchietto con i denti malconci e la pressione alta è ormai l'ombra del delinquente che faceva tremare mezza Italia, ammazzando a sangue freddo vittime innocenti, rapinando e sequestrando.

Arrivato al suo quarantacinquesimo anno di galera, Renato Vallanzasca forse sta finalmente liberandosi della catena più pesante: il clichè che - complici i media - si è costruito addosso, il capobanda spietato e guascone. Oggi, dice il direttore del suo carcere, Vallanzasca è un rottame che sta finalmente facendo i conti col suo passato. Tenerlo in galera per avere cercato di rubare due cesoie e una mutanda non avrebbe senso.

La relazione del direttore del carcere di Bollate, Massimo Parisi, è l'asso che Vallanzasca - 68 anni e una valanga di ergastoli da scontare - cala nell'ultima partita per respirare l'aria dei liberi. Sa che non è facile. Lo Stato si era fidato di lui, gli aveva già concesso la semilibertà nonostante il peso dei suoi crimini: e lui si era giocato tutto il 13 giugno 2014, andando a rubare sessantacinque euro di merce nel supermercato sotto casa della sua donna. Peccato veniale, o sintomo di una inesausta incapacità di stare alle regole? Lui aveva avanzato la tesi malferma di una trappola, di un complotto ai suoi danni. Il tribunale era stato indulgente: 10 mesi di condanna per rapina impropria. Ma l'effetto devastante era stata la revoca di tutti i benefici carcerari, conquistati dal bel Renè con anni di buona condotta. Era tornato all'ergastolo.

Ora ci riprova, attraverso il suo avvocato Davide Steccanella. Ieri dal carcere lo portano a Palazzo di giustizia, davanti ai giudici di sorveglianza. Chiede la liberazione condizionale, cioè di tornare libero a tutti gli effetti: pena estinta, ergastoli scontati, il passato dietro le spalle. Cita Antonio Gramsci, cui la liberazione venne concessa dal regime «senza alcuna abiura», solo per la sua buona condotta. Ed è un paragone ardito ma significativo, perché anche nel suo caso di una «abiura», ovvero di una autocritica, non c'è traccia esplicita.

Anche la relazione che il direttore di Bollate mette a disposizione del tribunale è tutta una ricerca di segnali indiretti, di sintomi che facciano supporre un travaglio interiore, un distacco dalla «identità grandiosa e trasgressiva» del Vallanzasca degli anni Ottanta.

Non ha mai chiesto perdono alle proprie vittime: ma lo avrebbe fatto «per non strumentalizzare questo tema, (sarebbe come usare le parti offese") tenendo dentro di sé quella che, con il tempo e dietro mentite spoglie, emergeva come consapevolezza dei suoi errori». Ha incontrato il figlio di un poliziotto ucciso in servizio: ma non era il figlio di una delle sue vittime, come gli agenti della Stradale assassinati al casello di Dalmine. E comunque si è limitato a «spiegare e sviluppare riflessioni significative riferite sia alla propria storia di vita, sia a un livello più astratto». Se si è pentito, insomma, se lo tiene per sé.

Saranno ora i giudici a decidere cosa si nasconda dentro l'uomo magro e curvo che ieri si sono trovati davanti, quali fantasmi agitino il detenuto che a Bollate si fa i fatti suoi («stile di vita penitenziario molto schivo e riservato, poco socializzato e senza più un ruolo all'interno della comunità»). Il procuratore generale si oppone alla liberazione: «La direzione del carcere parla di un adeguato livello di ravvedimento, il codice imponeche il ravvedimento sia sicuro». E nel suo caso non lo è».

Olivetti, assolto in appello Carlo De Benedetti

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Per Carlo De Benedetti la fine dell’incubo arriva nella manciata di secondi che bastano al presidente della Corte d’appello di Torino per leggere il dispositivo della sentenza, e al suo avvocato Tomaso Pisapia per telefonargli la buona novella.

Il processo per i morti di amianto all’Olivetti di Ivrea si sgretola davanti ai giudici di secondo grado, il castello di accuse che nel 2016 avevano portato alla condanna dell’Ingegnere a cinque anni di carcere per omicidio colposo plurimo viene smontato nella camera di consiglio della Corte d’appello. Assolto per non avere commesso il fatto, e così pure suo fratello Franco, con lui per lunghi anni alla testa dell’azienda di Ivrea. I sette morti vi furono, ad ammazzarli fu l’amianto che in Olivetti era presente quasi ovunque: questo i giudici non lo smentiscono. Ma non possono essere i fratelli De Benedetti a risponderne. Loro potevano non sapere.

É una sentenza che ribalta completamente, per tutti gli imputati, l’impianto del giudizio in primo grado, celebrato davanti al tribunale di Ivrea, e che aveva visto scendere in campo come parti civili il Comune, il sindacato, e soprattutto il lungo elenco di vittime e di loro parenti. Oltre ai sette morti, nel capo d’accusa figuravano un folto gruppo di operai e impiegati ammalati ma ancora in vita, impegnati nella lotta senza speranze contro il mesotelioma pleurico. Uno di questi, Pierangelo Bovio Ferrassa, è morto durante il processo d’appello, e il suo nome è così andato ad aggiungersi alla serie di morti d’amianto dell’Olivetti. Ma quei morti restano senza colpevoli: almeno per ora, perché la Procura non si ferma, e chiederà alla Cassazione di annullare le assoluzioni e ordinare un nuovo processo.

Dalle Fs, alla Breda, all’Alfa Romeo, alla Pirelli: le storie dei processi per amianto celebrati in questi anni in tanti tribunali italiani raccontano molte assoluzioni e poche condanne. Accertato, quasi in tutti i casi, il legame diretto tra la presenza di amianto e il mesotelioma pleurico, le sentenza di assoluzione si sono basate in genere sulla impossibilità per i manager di conoscere gli effetti devastanti della sostanza, e - più spesso - per i medici legali di collocare precisamente nel tempo l’insorgere della malattia. Così non si è potuto, nel turnover spesso intenso dei dirigenti, individuare tra loro i responsabili diretti delle morti.

Nel caso dell’Olivetti, il giudice di primo grado aveva ritenuto che entrambi gli ostacoli fossero superati dai risultati delle indagini. Che i De Benedetti sapessero dell’amianto, lo dimostrava secondo il giudice il dossier che l’Olivetti aveva commissionato al Politecnico di Torino, e che aveva rilevato la presenza di fibre inquinanti in percentuale decine di volte superiori alla soglia di rischio. E il lungo regno dell’Ingegnere e di suo fratello in Olivetti (rispettivamente, diciotto e undici anni) li inchiodava secondo la sentenza di primo grado alle loro responsabilità. Nell’aula del processo di Ivrea erano risuonate nel gelo le risposte di Bovio Ferrassa, l’operaio morto nei mesi scorsi. C’erano cappe di aspirazione? «No» Avevate maschere? «No» Vi hanno mai parlato di amianto? «No».

Si dovranno attendere le motivazioni per conoscere quale tassello decisivo, nel castello della sentenza di primo grado, non abbia convinto la Corte d’appello. Nel frattempo, da una parte si registra l’amarezza delle vittime, dall’altro la legittima soddisfazione di De Benedetti e degli altri imputati tra cui Corrado Passera, cui in primo grado era stato inflitto un anno di carcere.

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