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Furono i "compagni" e non CasaPound a colpire il loro militante

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Decisiva una testimone che era allo stadio L'ultrasinistra mise a ferro e fuoco la città

Chissà se è stato un colpo sfuggito di mano o un clamoroso errore di persona o cos'altro: ma la bastonata che il 18 gennaio 2015 a Cremona spedì in coma il militante antagonista Emilio Visigalli va catalogata indubbiamente come «fuoco amico». A colpire violentemente Visigalli (netturbino in provincia di Lodi, da sempre militante dell'ultrasinistra) sul lato destro del cranio, rischiando di ammazzarlo, non fu un neofascista di Casa Pound ma uno dei suoi stessi compagni, uno del gruppone del centro sociale «Dordoni» accorso per dare una lezione ai rivali. Due sabati dopo, per «vendicare» Visigalli, la tranquilla Cremona fu messa a ferro e fuoco dagli autonomi calati da tutta la Lombardia. Peccato che a colpire l'uomo fosse stato uno dei loro.

In tribunale a Cremona è in corso il processo a esponenti di entrambi i fronti: sul banco degli imputati siedono sia i «rossi» del «Dordoni» che i «neri» di Casa Pound. Ed è nell'ultima udienza del processo che è stata interrogata una testimone oculare del pestaggio di Visigalli. Era già stata sentita tre volte, durante le indagini preliminari e aveva sempre raccontato la stessa versione. Ma ora il suo racconto fa irruzione nell'aula del processo rischiando di ribaltarne l'esito.

Tutto accade all'esterno del bar Matisse, vicino allo stadio di calcio. Un gruppo di neofascisti, andando a vedere il derby Cremona-Mantova, passa di lì: e appiccica uno po' di adesivi di Casa Pound sulla porta (chiusa) del «Dordoni», il centro sociale che sta lì accanto, covo da anni dell'ultrasinistra. Mentre si gioca la partita, tra i militanti del centro sociale parte il tam tam, la chiamata a raccolta per rispondere alla provocazione aspettando i «fasci» al termine della partita. Così avviene. E a uscirne peggio di tutti è il non più giovane (cinquantun anni) Visigalli. Che però, appena si riprende dal coma, prima ancora di venire dimesso dall'ospedale, si dà ad organizzare la rappresaglia: per questo finisce anche lui arrestato e sotto processo.

Martedì, in aula, arriva una donna che era allo stadio per i fatti suoi, una signora né di destra né di sinistra, che quando scoppia il parapiglia si ritrova accanto ai contendenti. Il suo ricordo è netto: «Ho visto quell'uomo, era a circa sette metri da me. A colpirlo con un bastone è stato uno con il casco integrale che era dietro di lui, spostato un po' sulla destra, e infatti lo ha preso sul lato destro. Lui ha barcollato un po', poi è crollato».

Il dettaglio del casco è decisivo, perché a indossare i caschi erano solo quelli del centro sociale. La testimone non sa dire se il colpo partì apposta o per sbaglio, ma sull'autore non ha dubbi. Dice che poi, una volta a terra, Visigalli fu colpito a calci e pugni: e lì, probabilmente, a picchiarlo furono i neofascisti. Sarà il medico legale, quando verrà interrogato in aula in una delle prossime udienze, a spiegare se a mandare in coma Visigalli furono la legnata in testa, o i calci e i pugni ricevuti dopo. Ma un dato è certo, perché portato in aula dal dirigente della Digos dell'epoca: «gli esponenti del Dordoni erano i soli ad essere travisati e armati di spranghe e bastoni».


Il prete pedofilo, la Curia e il fondo per zittire le vittime

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Sacerdote accusato di abusi lasciato a contatto con i bimbi. Il ruolo dell'arcivescovo Delpini: "Decisione che presi io"

Fondi riservati della Curia milanese per azzittire le vittime dei preti pedofili. È questa la cruda realtà che emerge dal processo a don Mauro Galli, il sacerdote imputato di violenza sessuale ai danni di un giovane parrocchiano. Centocinquantamila euro di risarcimento sono stati versati alla vittima perché ritirasse la sua querela. Non certo da don Galli, che risulta nullatenente. A officiare l'accordo è stato Mario Zanchetti, difensore dell'Arcivescovado. Tra le clausole imposte alla famiglia: non rivelare la provenienza dei quattrini.

Ieri, nella nuova udienza del processo al prete, appare con chiarezza - nel racconto di altri due sacerdoti - il motivo che avrebbe spinto la Curia all'esborso. Sia don Alberto Rivolta che don Carlo Mantegazza, entrambi in servizio nella parrocchia di Rozzano dove si svolsero i fatti, hanno raccontato di avere informato immediatamente il vicario episcopale dell'epoca, ovvero l'attuale arcivescovo Mario Delpini. «Noi pensavamo che don Mauro andasse spostato a livello prudenziale non in un contesto di pastorale giovanile», ha raccontato il parroco, don Mantegazza: l'importante era tenere il prete lontano dai bambini. Invece don Galli venne trasferito a Legnano, proprio alla pastorale giovanile. A deciderlo, emerge dagli atti, fu Delpini: «Questa decisione l'ho presa io», ammette il prelato in una conversazione.

Ieri in aula, i due preti-testimoni raccontano di avere appreso subito quanto era accaduto la notte del 19 dicembre 2011: don Mauro che invita il ragazzo a dormire a casa sua con il consenso della famiglia, ma invece che nella camera degli ospiti lo fa dormire insieme a lui nel letto matrimoniale. E nel cuore della notte allunga le mani. «Quando chiedemmo spiegazioni, ci disse che il ragazzo aveva avuto un incubo e lui lo aveva afferrato per non farlo cadere dal letto».

Solo più tardi, il ragazzo (allora quindicenne) aggiungerà di essere stato violentato dal prete. Ieri si apprende che comunque, fin dall'immediatezza dei fatti, Delpini aveva saputo che don Galli si era portato a letto il ragazzino. Ma si guardò bene dall'accogliere la richiesta dei suoi sottoposti di allontanare don Mauro da ulteriori tentazioni.

Anzi è lui stesso ad avvisare don Mauro dell'esistenza di una indagine a suo carico, e ad organizzargli la difesa. La prima circostanza è ammessa dallo stesso Delpini nel suo interrogatorio: «In quell'incontro dissi a don Mauro che c'era probabilmente un procedimento penale a suo carico»; e nelle intercettazioni don Galli parlando con un amico dice «ho ricevuto una mail da Delpini che diceva telefonami, scrivimi che ho bisogno di vederti".. l'ho chiamato subito e mi ha detto non è il caso che parliamo per telefono, vieni qui che poi ti spiego, poi dobbiamo stare molto attenti"». Anche della seconda circostanza ci sono tracce chiare nelle intercettazioni: il 4 settembre 2014 don Mauro chiama l'avvocato Zanchetti: «Mario Zanchetti si presenta a Mauro dicendo di essere l'avvocato, gli dice che monsignor Delpini gli ha scritto due righe dicendo che Mauro lo avrebbe chiamato, gli chiede se voleva vederlo per una cosa un po' delicata». Eppure un mese più tardi, interrogato dalla Mobile, Delpini dichiara: «L'avvocato Zanchetti non ha con me alcun tipo di contatto».

Cosa fosse accaduto davvero quella notte, lo racconta ieri in aula la ragazza della vittima: «A. era andato a casa di don Mauro, si era confessato, una confessione lunga e profonda. Si era esposto, era vulnerabile, avrebbe fatto qualunque cosa. Don Mauro l'ha fatto andare nel suo letto, sono andati a dormire e nella notte A. si è svegliato urlando. Lo aveva abbracciato da dietro».

Criticare i magistrati è lecito: assoluzione piena per Ferrara

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Nel febbraio del 2014 il pm antimafia Di Matteo aveva querelato Giuliano Ferrara per diffamazione aggravata. Ma i giudici danno ragione al giornalista

Eh sì, criticare i giudici si può: anche se il magistrato in questione è una sorta di icona dell'Antimafia come il pm palermitano Nino Di Matteo.

Nel febbraio del 2014 Di Matteo aveva querelato Giuliano Ferrara, allora direttore del Foglio, che in un articolo - firmato con la consueta sagoma dell'elefantino - aveva osato scrivere che i colloqui intercettati nel carcere di Opera tra il boss Totò Riina e un altro detenuto erano stati "una spaventosa messa in scena il cui obiettivo è mostrificare il Presidente della Repubblica, calunniare Berlusconi, monumentalizzare Di Matteo e il suo traballante processo". Il "traballante processo" era ovviamente l'interminabile processo alla presunta trattativa Stato-Mafia, avviato da Antonio Ingroia e ora proseguito da Di Matteo.

La conclusione di Ferrara era severa: "Siamo il paese di Massimo Ciancimino, il pataccaro, e delle avventure politiche degli Ingroia, cioè dei colleghi di Di Matteo che cercarono, anche a colpi di interviste di quest'ultimo, di trascinare nella fogna del sospetto il Quirinale. È tollerabile che con simili metodi si possa procedere oltre?". Di Matteo, come è noto, aveva cercato invano di acquisire agli atti del processo alcune telefonate dell'allora capo dello Stato, Giorgio Napolitano con il senatore Nicola Mancino, ministro degli Interni all'epoca della presunta trattativa e ora sotto processo per favoreggiamento,

La lettura dell'articolo del Foglio aveva suscitato le ire del pm Di Matteo, che aveva sporto querela per diffamazione aggravata contro Giuliano Ferrara chiedendo la condanna del giornalista ad un robusto risarcimento economico. Secondo Di Matteo insinuare che Lorusso, il detenuto che chiacchierava con Riina all'ora d'aria, fosse una sorta di "agente provocatore" mandato dalla Procura era un oltraggio a lui e alla sua funzione.

Ma il giudice Maria Teresa Guadagnino assolve con formula piena il direttore del Foglio. Nelle motivazioni depositate oggi si ricorda che "si tratta pacificamente di un editoriale, ovverossia di un articolo che ha la funzione di esprimere il punto di vista della testata su fatti di rilevante attualità. Il Foglio è un giornale di opinione che esprime un preciso orientamento politico e culturale, e nel caso dell'articolo in esame il direttore fa delle considerazioni critiche relativamente a tali fatti, così esprimendo delle idee non suscettibili di essere valutate come vere o false. Non si tratta di un articolo di cronaca giudiziaria ma di una riflessione sulle implicazioni del processo Stato Mafia".

Secondo il giudice, "il diritto di critica si concretizza nella espressione di un giudizio o piu genericamente di una opinione che come tale non può pretendersi rigorosamente obiettiva, posto che la critica, per sua natura, non può che essere fondata sulla interpretazione. La libertà riconosciuta dall'articolo 21 della Costituzione di manifestazione del pensiero e di formulazione di critica nei confronti di chi esercita funzioni pubbliche comprende il diritto di critica giudiziaria, ossia l'espressione di dissenso anche aspro e veemente nei confronti dell'operato di magistrati i quali, in quanto tali, non godono di alcuna immunità, nonchè degli atti da costoro compiuti".

L'unico limite sono gli "attacchi personali diretti a colpire su un piano individuale la figura orale del giudice". Ma questo non è certo accaduto. D'altronde molti dei fatti esposti da Ferrara sono veri: che Lorusso fosse un agente provocatore lo aveva scritto senza venire querelata La Repubblica un anno prima. E nel suo articolo Ferrara attribuisce l'arruolamento del provocatore non a Di Matteo ma a "settori oscuri dello Stato". Quanto ai tentativi di trascinare nel fango il Quirinale, la sentenza ricorda che proprio Di Matteo era finito sotto procedimento disciplinare (poi archiviato) per una intervista in cui "aveva comunque messo in cattiva luce l'allora Presidente della Repubblica".

Conclude la sentenza: "il giornalismo scomodo e polemico di Ferrara non persegue l'obiettivo di ledere l'onore e la reputazione della persona offesa ma solo quello di criticare e disapprovare alcuni fatti e comportamenti connessi al processo che ancora si sta svolgendo presso la Corte d'assise di Palermo". Pertanto Ferrara va assolto "perchè il fatto non costituisce reato".

Ferrara assolto: "Criticare le toghe si può"

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L'ex direttore del «Foglio» era stato querelato dal pm anti mafia Di Matteo

Milano - Una sentenza che potrebbe segnare una svolta, dopo anni in cui un bel numero di magistrati si è visto riconoscere risarcimenti per decine di migliaia di euro a carico dei giornali che avevano osato criticarli. Ieri vengono depositate le motivazioni della sentenza con cui il tribunale di Milano ha assolto l'ex direttore del Foglio Giuliano Ferrara dall'accusa di diffamazione aggravata a mezzo stampa. A denunciare il giornalista era stato uno dei più famosi magistrati d'Italia, il pm palermitamo Nino Di Matteo, che si era sentito ingiuriato da un articolo - scritto da Ferrara medesimo - sulla inchiesta che è il cavallo di battaglia della Procura di Palermo: quello sulla presunta trattativa tra Stato e mafia. È il processo che Di Matteo ha ereditato dal collega Antonino Ingroia, e per il quale ha recentemente pronunciato la requisitoria conclusiva.

Ferrara aveva definito «una spaventosa messa in scena» le intercettazioni realizzate nel carcere di Opera delle chiacchierate all'ora d'aria tra Totò Riina e un altro detenuto, il pugliese Alberto Lorusso, utilizzate da Di Matteo per rafforzare la posizione dell'accusa nel processo (definito «traballante» nell'articolo di Ferrara). Di fatto, Lorusso sarebbe stato un «agente provocatore» al soldo di «poteri oscuri».

La sentenza che assolve Ferrara, emessa dal giudice Maria Teresa Guadagnino, ripercorre punto per punto la vicenda dei colloqui in carcere tra Riina e Lorusso, e riconosce che buona parte dei fatti indicati da Ferrara a sostegno della sua tesi sono tutt'altro che falsi. Ma la sentenza ha il suo cuore nel valore che riconosce alla funzione di critica della stampa libera, e nella esplicita indicazione del potere giudiziario tra i poteri che l'informazione ha il dovere di tenere sotto controllo.

Da anni, nei tribunali di tutta Italia, direttori di giornale e cronisti finiscono sotto processo proprio per avere svolto questa funzione; i giudizi critici vengono trattati come crimini (ne sa qualcosa il giornalista che venne condannato a tre mesi di galera per avere definita «incauta» una giudice); e al momento di quantificare i risarcimenti, i giudici giudicanti sono assai generosi verso i giudici querelanti, che si vedono riconoscere somme a quattro e a volte a cinque zeri. L'onore di una toga vale più di quello di un uomo qualunque.

Ora invece la sentenza che assolve Ferrara cerca di riportare il tema all'interno della Costituzione: «Il diritto di critica si concretizza nella espressione di un giudizio o più genericamente di una opinione che come tale non può pretendersi rigorosamente obiettiva, posto che la critica, per sua natura, non può che essere fondata sulla interpretazione. La libertà riconosciuta dall'articolo 21 della Costituzione di manifestazione del pensiero e di formulazione di critica nei confronti di chi esercita funzioni pubbliche comprende il diritto di critica giudiziaria, ossia l'espressione di dissenso anche aspro e veemente nei confronti dell'operato di magistrati i quali, in quanto tali, non godono di alcuna immunità».

I misteri di Soffiantini, l'imprenditore eroe che perdonò i carcerieri

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Nel 1997 fu rapito e segregato per 237 giorni I lati oscuri, il militare infedele e la toga suicida

Li aveva perdonati prima ancora di venire liberato; nei mesi terribili passati in ostaggio, incatenato come un cane, pregava per loro. Giuseppe Soffiantini era fatto così, uno di quei cattoliconi che hanno fatto Brescia ricca e grande, la fede in Cristo radicata e profonda persino più della religione del lavoro: che è tutto dire. Nelle grinfie dell'Anonima sequestri passò 237 giorni, tra il giugno del 1997 e il febbraio 1998. Tornò senza due pezzi d'orecchio e con cinque miliardi in meno sul conto in banca: soldi fatti arrivare ai rapitori aggirando il blocco dei beni, nel marasma incredibile che segnò la gestione delle indagini da parte dello Stato, mai come in quella circostanza diviso e allo sbando. Una Caporetto investigativa il cui culmine fu il blitz che doveva bloccare la consegna del riscatto, e che si risolse invece nell'ammazzamento da parte dai suoi stessi colleghi dell'agente dei Nocs Samuele Donatoni. Ma quella tragedia fu preceduta, causata e seguita da un viluppo di fatti in cui ancora oggi è difficile distinguere tra l'insipienza e il torbido.

Soffiantini muore ieri, a 83 anni, nell'ospedale bresciano in cui era ricoverato da qualche giorno per i problemi di cuore: acciacchi che si portava appresso già nel 1997, quando i banditi lo andarono a prelevare nella sua villa di Manerbio, e che non gli impedirono di sopravvivere a otto mesi in condizioni bestiali, né di tornare per i vent'anni successivi al suo lavoro e alla sua famiglia. Fibra invidiabile. Ma forse c'entra anche il perdono che, come diceva lui, «rafforza chi lo concede». E lui lo aveva concesso così tanto e così in fretta che dopo avere incontrato in carcere Attilio Farina, uno dei capibanda, invece di costituirsi parte civile contro di lui ne pubblicò a proprie spese un libro di poesie.

Del lato oscuro del suo sequestro, dei pateracchi dello Stato, non si volle mai occupare, come se avere portato a casa la pelle fosse già soddisfazione sufficiente: certo, quando nove anni dopo incontrò in un bar di Manerbio il basista che lo aveva indicato ai rapitori, già tornato libero, manifestò comprensibile stupore, «solo in Italia succedono queste cose». Ma poi alzò le spalle, e tornò alla fabbrica di tessuti e ai nipotini.

Di domande avrebbe potuto farne tante. Va bene che erano anni terribili, un sequestro dopo l'altro: quando toccò a lui venire prelevato, l'Anonima aveva ancora in mano Silvia Melis, che tornò a casa solo dopo 265 giorni; e mentre lui era in ostaggio, a Milano venne portata via Alessandra Sgarella, che venne tenuta prigioniera per 266 giorni, non si riprese mai davvero, ed è morta sette anni fa. Ma la pressione feroce da parte delle bande criminali non basta a spiegare il disastro di quei giorni, con la Procura di Brescia e gli «specialisti» di polizia e carabinieri sempre più lontani, incomunicanti, spaccati sulle strategie. Non chiarisce come fu possibile che l'auto con Soffiantini e i rapitori venisse fermata a un posto di blocco e lasciata proseguire. Non spiega come un generale dei carabinieri, Francesco Delfino, riuscisse a farsi consegnare un miliardo dalla famiglia con la promessa di favorire il rilascio. Non racconta perché venne lasciata cadere la proposta dell'editore sardo Nicky Grauso, che spiegò di essere stato contattato dalla banda, e di poter garantire per la liberazione «a credito». Non dice quale peso avessero le verità nascoste sul sequestro Soffiantini nelle angosce che il giudice cagliaritano Luigi Lombardini si lasciò alle spalle l'11 agosto 1998, sparandosi in testa nel suo ufficio. Non aiuta a capire perché appena sette giorni dopo la liberazione, il fratello del «pentito» Agostino Mastio si gasò in auto insieme alla moglie e al figlio di appena sette anni.

Qualcosa forse potrebbe dirla il cervello della banda, Attilio Cubeddu: ma è latitante da vent'anni, e nessuno lo cerca più.

"Facendo cadere Prodi, Berlusconi danneggiò l'Italia". E ora i giudici gli chiedono i soldi

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La Corte dei Conti chiede di risarcire i danni di "immagine allo Stato" per avere fatto cadere Prodi nel 2008. Il Cav, che fu vittima dello spread, ora viene accusato di averlo fatto salire

Mancavano solo i giudici della Corte dei Conti, nel panorama delle toghe che in questi anni si sono date da fare per la caccia a Silvio Berlusconi. La lacuna adesso è colmata, anche se il tema è quasi surreale: la Procura regionale per il Lazio della Corte dei Conti ha aperto una inchiesta contro il Cavaliere, cui intende chiedere di risarcire i danni di "immagine allo Stato" per avere fatto cadere il governo Prodi nel 2008. Secondo la tesi d'accusa, la crisi di governo avrebbe minato la credibilità dell'Italia sui mercati finanziari internazionali, alzando pesantemente lo spread. I magistrati contabili si sono presi la briga di affidare alla Guardia di finanza una indagine (che si sarebbe potuta agevolmente fare con i ritagli di stampa) sull'andamento dello spread a cavallo delle dimissioni di Romano Prodi: hanno accertato che a maggio 2008, alla vigilia della crisi, il tasso era di 43,3 e dopo le dimissioni del Professore salì ininterrottamente fino alla cifra record di 522,8 alla caduta del successivo governo Berlusconi.

Su quell'innalzamento dello spread, oggettivamente abnorme, ha indagato a lungo come è noto la Procura di Trani, che però vi intuiva colpe esattamente opposte: a spingere per affossare i titoli di Stato italiani erano le grandi agenzie di rating, che manovravano per sgomberare l'Italia da Berlusconi e spianare la strada all'avvento dei "tecnici", con in testa Mario Monti. Il processo di Trani si è però concluso con la assoluzione degli imputati. Ora la Corte dei Conti capovolge la vicenda, e attribuisce a Berlusconi e alla sua operazione contro Prodi la colpa di tutto.

Per i magistrati contabili, il misfatto si sarebbe consumato con la "compravendita" di voti in Senato: in particolare con il passaggio nelle file dell'opposizione del senatore Sergio De Gregorio, entrato in Parlamento nelle file dell'Italia dei Valori, il partito di Antonio Di Pietro. Per avere finanziato De Gregorio in cambio del salto di schieramento, Berlusconi è finito sotto processo a Napoli, dove è stato condannato in primo grado. Su quella condanna si basa l'indagine ora aperta dalla Corte dei Conti, che si preparerebbe a chiedere a Berlusconi il doppio dei tre milioni di finanziamento concesso a De Gregorio.

Peccato che quella condanna non sia mai divenuta definitiva: in appello il processo si è estinto per prescrizione. E peccato soprattutto che a fare cadere il governo Prodi non fu solo il voto di De Gregorio, ma la dissoluzione della maggioranza raccogliticcia che lo aveva tenuto in piedi fino a quel momento. A votare la sfiducia al Professore a Palazzo Madama, la sera del 24 gennaio 2008, al termine di una seduta infuocata, furono una lunga serie di senatori della sua stessa maggioranza: come il rifondarolo Franco Turigliatto, i liberaldemocratici di Lamberto Dini e l'intero blocco dell'Udeur di Clemente Mastella. La Corte dei Conti chiederà i danni anche a loro?

Follia dei giudici contabili: "Berlusconi paghi i danni per la caduta di Prodi"

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La Corte dei conti: deve risarcire l'Italia per il cambio di campo di De Gregorio (due anni prima)

Per mandare a casa il governo Prodi, il 24 gennaio 2008, ci si misero in tanti: quasi tutti fino a quel momento suoi alleati, da Clemente Mastella (Udeur) a Lamberto Dini a Franco Turigliatto (Rifondazione), che in Senato votarono la sfiducia al governo causandone la caduta. Ma ora la Corte dei Conti del Lazio chiede i (presunti) danni di quella crisi di governo all'uomo che era allora il leader dell'opposizione, e che dopo le elezioni anticipate prese il posto di Prodi a Palazzo Chigi: Silvio Berlusconi. Assolutamente inedita l'accusa: facendo dimettere Prodi, Berlusconi avrebbe causato un rilevante danno di immagine all'Italia, dimostrato dal successivo innalzamento dello spread sui nostri titoli di Stato.

É la prima volta che un leader politico si vede citare in giudizio per avere voluto andare al governo. Al Cavaliere i magistrati contabili rimproverano in particolare di avere fatto transitare nelle file dell'opposizione il senatore dell'Italia dei Valori Sergio De Gregorio, che in seguito venne incriminato per un finanziamento di tre milioni ricevuto da Berlusconi. Anche il Cavaliere finì sotto processo, venne condannato in primo grado e prosciolto per prescrizione in appello: ma contro questa sentenza i suoi legali hanno presentato ricorso in Cassazione per chiedere la piena assoluzione, e l'udienza non è stata ancora fissata. Penalmente parlando, il caso dunque è ancora del tutto aperto. Ma senza aspettarne l'esito, la Procura regionale del Lazio della Corte dei conti ha aperto un fascicolo, la cui esistenza è stata rivelata ieri da Il Tempo, con al centro un rapporto commissionato alla Guardia di finanza sull'andamento dello spread nel periodo del cambio di governo: il differenziale subì un brusco innalzamento, passando dal 43,3 del gennaio 2008 al 522,8 degli ultimi mesi del governo Berlusconi. Per la Procura regionale fu tutta colpa della perdita di credibilità internazionale dell'Italia causata dal cambio della guardia a Palazzo Chigi. E poiché tra i voti che fecero cadere Prodi ci fu quello di De Gregorio, i tre milioni di finanziamento versati al senatore dell'Idv sono una sorta di corpo del reato, che la Procura vuole chiedere a Berlusconi di restituire (raddoppiati, come sanzione).

La situazione in realtà è piuttosto surreale, perché il voto di De Gregorio non fu decisivo: il governo Prodi venne bocciato con cinque voti di scarto, 161 no e 156 sì. Il peso maggiore lo ebbe il passaggio all'opposizione del gruppo parlamentare dell'Udeur, innescato da un'altra inchiesta giudiziaria: quella, poi finita in nulla, contro il suo leader Clemente Mastella, dimesso da ministro dopo l'arresto di sua moglie Sandra. Ma non risulta che la Corte dei Conti abbia chiesto i danni né a Mastella né al pm che lo aveva incriminato ingiustamente.

Scontro sulla giudice diventata mamma: Tribunale bloccato

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La toghe si spaccano sul caso di una collega che per la maternità eviterà alcuni incarichi

Tutto bloccato: la riorganizzazione delle sezioni giudicanti, la assegnazione delle competenze, le nomine dei giudici. In tribunale uno scontro frontale tra i capi degli uffici e all'interno delle correnti delle toghe paralizza i piani di aggiornamento delle attività. A innescare lo scontro, un tema delicato: il diritto delle giudici-mamme a vedersi sollevare dagli impegni più difficili da conciliare con il loro ruolo domestico. Il singolo caso di una magistrata ha diviso in due il Consiglio giudiziario, l'organo locale di autogoverno. E a sbrigare la rogna dovrà ora essere il Consiglio superiore della magistratura. Nel frattempo, tutto fermo.

A rivendicare il diritto a un trattamento di riguardo è stata Natalia Imarisio, giudice per le indagini preliminari. In base alle norme, essendo madre da poco, avrebbe diritto non a lavorare di meno, ma a lavorare diversamente: fare meno turni, meno provvedimenti urgenti, e dedicarsi soprattutto alle richieste di ordini di cattura avanzate dalla Procura. La Imarisio chiedeva però che questo diritto le venisse riconosciuto d'ufficio, senza bisogno di presentare una domanda. Apparentemente un dettaglio, una questione di principio, che però - nelle complesse dinamiche tra giudici - è risultato irrisolvibile.

Il superiore diretto della Imarisio ha girato la palla al presidente del Tribunale, Roberto Bichi: che a sua volta ha cercato una mediazione proponendo una interpretazione delle norme che salvasse capra e cavoli. Quando la grana è approdata sul tavolo del Consiglio giudiziario, la spaccatura si è fatta frontale. Con la Imarisio si sono schierati i giudici «centristi» di Unicost, i rappresentanti dell'Ordine degli avvocati e soprattutto il presidente della Corte d'appello, Marina Tavassi. Contro, sia la corrente moderata di Magistratura indipendente e, a sorpresa, quella progressista di Area: il gruppone di cui fa parte Magistratura democratica, le toghe di sinistra che dei diritti delle donne in toga hanno sempre fatto uno dei loro cavalli di battaglia. Al presidente Roberto Bichi è stato chiesto di congelare la questione delle giudici-mamma, e di procedere con il resto del progetto di riorganizzazione del tribunale, rendendolo operativo. Bichi si è rifiutato: o tutto o niente. E il progetto si è arenato.

I toni accesi della discussione si sono tradotti nella spaccatura sul voto finale e in una serie di comunicati contrapposti. A rendere la questione incandescente non c'è solo la questione delicata dei carichi di lavoro, che molti giudici considerano già oggi eccessivi e che vengono inevitabilmente aggravati dagli alleggerimenti concessi ad alcuni: il guaio è che tra poche settimane scatterà la campagna per il rinnovo del Consiglio superiore della magistratura. Vecchie appartenenze ideologiche sono in crisi, la competizione tra correnti si sposta dai grandi ideali ai bisogni concreti: e anche il caso del giudice-mamma diventa elemento di questa aspra gara.


Quel cappello fatto sparire poteva raccontare la verità

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Le "ronde proletarie" e il pestaggio dello spacciatore. Il mistero dell'ufficio "corpi di reato" del tribunale di Milano

Eppure la verità era a portata di mano, pronta a riemergere alla prima occasione, appena una nuova tecnica o un nuovo spunto ne avessero fornito la possibilità. Magari, come spesso accade, quella verità avrebbe deluso le aspettative: raccontando che dietro la tragedia di via Mancinelli non c'era un complotto dello Stato e dei suoi servizi deviati, non c'erano le torbide e crudeli manovre dalla destra eversiva venuta da Roma. Avrebbe riportato la morte di Fausto e Iaio nella durezza concreta di quegli anni milanesi, fatti di politica ma anche di eroina: con i collettivi dell'ultrasinistra scatenati a dare la caccia agli spacciatori di droga, il nemico che nelle loro file faceva più vittime della repressione poliziesca. Nessun grande complotto, nessuna trama oscura: solo la feroce vendetta di una banda di spacciatori. A ben guardare, una verità che avrebbe dato maggiore grandezza alla figura dei due ragazzi, vittime precise di una vendetta precisa e non caduti casuali e inconsapevoli di una improbabile strategia della tensione.

La verità sulla morte di Fausto e Iaio stava in un cappello di lana scura, conservato all'ufficio corpi di reato del tribunale. E svanito nel nulla. È il cappello sporco di sangue trovato sul luogo del delitto, identico a quello indossato di solito da un personaggio della zona, preso di mira e sprangato pochi giorni prima da una delle «ronde proletarie» che davano la caccia agli spacciatori. Sia Fausto che Iaio erano presenti al pestaggio dello spacciatore: a dirlo sono la ragazza di Fausto, Paola, e la sorella di Iaio. Può apparire assurdo, che due ragazzi di appena diciannove anni partecipassero o almeno assistessero a una aggressione tanto brutale: ma brutali erano quegli anni a Milano.

Nel 1988, a vent'anni dal delitto, un giudice istruttore riapre il caso del delitto di via Mancinelli. Chiede di esaminare il cappello. Incredibilmente, l'ufficio Corpi di reato del Tribunale gli risponde che non esiste più: è stato buttato via, «per motivi igienici», nonostante il delitto fosse ancora irrisolto, dopo l'allagamento che aveva colpito i sotterranei del Palazzo di giustizia. E la pista della vendetta degli spacciatori si richiude lì.

Eppure, fin dall'inizio, molte tracce portavano in quella direzione: fatti e testimonianza concrete, ben più delle rivendicazioni - contraddittorie, tardive, e in qualche caso visibilmente apocrife - che nei giorni successivi erano piovute sulle redazioni dei giornali a firma di improbabili gruppi neofascisti romani, mai comparsi prima e mai riapparsi dopo. Perché la morte di un estremista di destra romano, ucciso da un gioielliere durante un tentativo di rapina, dovesse venire vendicata ammazzando due ragazzi del Leoncavallo, d'altronde nessuno l'ha mai spiegato. E se a dover essere vendicata era la morte di Sergio Ramelli, il diciassettenne del Fronte della Gioventù ucciso tre anni prima a Milano, l'obiettivo ovvio sarebbe stato Andrea Bellini, capo della «banda» omonima, di cui nè Tinelli nè Iannucci facevano parte: era Bellini, grazie all'operazione di depistaggio organizzata dai veri assassini di Ramelli, a venire indicato in quel periodo come il colpevole dell'aggressione al giovane neofascista.

La «pista romana», rilanciata anche di recente da un libro, viaggia su racconti di pentiti, testimonianze de relato, spesso vaghe: ed è, soprattutto, priva di un movente comprensibile. Mentre è invece visibile, indicato da segni precisi, il sentiero che portò l'inchiesta a scavare nel mondo della malavita, degli spacciatori di eroina: che poi, nella Milano di quegli anni, erano spesso fascisti o ex fascisti. Ma la pista venne seguita maldestramente, fin dall'inizio. Ne dà conto l'ordinanza del 2000 del giudice Clementina Forleo che archivia per l'ultima volta le indagini. Quando parla della presenza sul luogo del delitto di una Kawasaki verde intestata a un pregiudicato, il giudice scrive: «Non venivano svolte ulteriori indagini al riguardo». Che verso la malavita avesse senso scavare, lo dicevano testimonianza precise: e tutte provenienti dagli amici e dai parenti delle vittime. E tutti o quasi mettevano l'accento sul «Libro bianco dell'eroina», il dossier con nomi e cognomi degli spacciatori preparato in quel periodo dal «Leoncavallo». Celina, amica di Fausto, racconta che Iaio stava lavorando al dossier e che per questo era stato affrontato a brutto muso in un bar da un certo Franjo («stai attento»). Il parroco del Casoretto dice di avere ricevuto una telefonata in cui una donna fa nome e cognome di uno spacciatore che dopo il delitto dice «quei due finalmente non parleranno più». E poi c'è il fatto più eclatante, il tipo col cappello di lana pestato una settimana prima al Parco Lambro da venti giovani con i fazzoletti rossi sul volto e le chiavi inglesi, che lo accusano di essere «un fascista e uno spacciatore di droga».

Serviva altro, per convincersi che di tutte le spiegazioni possibili fosse questa la più solida? Eppure la traccia cruciale, il berretto di lana, sparì. Forse non sarebbe servito a nulla. Forse avrebbe raccontato tutto.

Quegli ex Br che danno lezioni in tv: nuovo sfregio alla memoria di Moro

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Il capo della polizia contro l'esposizione mediatica dei criminali

Una sorta di pacificazione prematura, una operazione revisionista in cui i torti e le ragioni sfumano e quasi si equivalgono: così è stata vista da più parti la valanga mediatica che sta accompagnando il quarantesimo anniversario del rapimento di Aldo Moro e del massacro della sua scorta. In un paese in cui le ferite e i lutti degli anni di piombo non sono ancora elaborati, il protagonismo di alcuni dei colpevoli di quella tragedia è parso fuori misura. E ieri il capo della Polizia, Franco Gabrielli, alla cerimonia commemorativa della strage di via Fani ha usato parole che insieme agli ex Br, e forse più di loro, chiamano in causa giornali e televisioni che hanno offerto loro la ribalta del quarantennale.

Gabrielli ha ricordato che i cinque poliziotti della scorta di Moro (vittime che nelle ricostruzioni di questi giorni vengono spesso liquidati come semplici comparse del dramma) «stavano dalla parte giusta, gli altri stavano dalla parte sbagliata: e oggi riproporli in asettici studi televisivi come se stessero discettando della quintessenza della verità rivelata, credo che sia un oltraggio per tutti noi ma soprattutto un oltraggio per chi ha dato la vita e il sangue per questo Paese». Siamo di fronte, ha detto, a un «perverso ribaltamento»: «nei giorni in cui si rievoca il quarantennale della strage abbiamo subito l'oltraggio di vedere dei sottopancia nei quali si riporta dirigente della colonna romana delle Brigate rosse».

La polemica sulla visibilità pubblica offerta ai protagonisti della lotta armata si trascina da tempo, fin da quando Sergio Zavoli portò senza filtro su Rai 1, con La notte della Repubblica, i volti e i pensieri dei capi brigatisti. Ma ora, con il profluvio di articoli e speciali televisivi, la discussione è ripartita. In realtà anche i brigatisti si sono divisi. Del nucleo storico delle Brigate Rosse hanno accettato le richieste di intervista Adriana Faranda, Valerio Morucci (che era nel commando di via Fani) e Anna Laura Braghetti, intestataria del covo-prigione di via Montalcini. Subissati di richieste, hanno scelto la via del silenzio gli altri big dell'epoca: Mario Moretti, Franco Bonisoli, Lauro Azzolini, Rocco Micaletto e Barbara Balzerani: quest'ultima, però, finita comunque al centro delle polemiche per un post su Facebook («che palle il quarantennale») suonato comprensibilmente di cattivo gusto alla famiglia Moro. Di Mario Moretti e di Prospero Gallinari (anche lui in via Fani, morto nel 2013) La7 ha riproposto una intervista al regista francese Mosco Levi Boucault.

Il tema della visibilità concessa ai protagonisti della stagione brigatista si trascina da tempo, alimentato dall'assenza a tutt'oggi tra i membri della direzione strategica delle Br di casi di pentimento. Ciò nonostante, due anni fa la Scuola di formazione della magistratura invitò a tenere un seminario la Faranda e Bonisoli, e dovette fare marcia indietro subissata dalle critiche. Ora si ricomincia, con lo schema consueto: i giornalisti che danno la caccia a improbabili retroscena inediti, i brigatisti che rivendicano la genuinità dell'operazione Moro. Ma intanto, secondo Gabrielli, pontificano un po' troppo: «Questi signori erano delinquenti due volte, perché non solo uccidevano, non solo rapinavano, non solo privavano dei loro affetti figli, padri e madri, ma cercavano in una logica di morte di sovvertire le istituzioni democratiche del Paese».

I 40 anni di Fausto e Iaio. L'ultimo mistero milanese

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La scelta del sindaco di Milano Sala di andare a rendere omaggio alla memoria ricorda il periodo buio cominciato con l'omicidio di Ramelli

Compie quarant'anni l'ultimo mistero milanese degli anni di piombo: e l'anniversario porta con sè commozione, qualche polemica, e speranze ormai labili che la nebbia prima o poi venga diradata. Avevano diciannove anni, Lorenzo «Iaio» Iannucci e Fausto Tinelli, quando vennero ammazzati in via Mancinelli: stavano andando verso casa di Fausto, dopo essersi trovati davanti al «Leoncavallo». Non erano dei duri, dei picchiatori: ma erano ragazzi dell'ultrasinistra, calati appieno in quella temperie di asprezze e di violenze che sembrava non dovesse finire mai.

Ad aspettarli erano in tre, all'angolo della via: ma a sparare fu uno solo. Una testimone assistette al colpo di grazia ad uno dei ragazzi, già a terra rantolante. A leggere gli atti oggi, ci si sorprende della approssimazione con cui gli accertamenti vennero fatti: persino la marca delle pallottole venne indicata dai primi periti nel modo sbagliato. Dissero che erano Winchester, si scoprì poi che erano Fiocchi: e non fu l'unica sciatteria. Forse erano minori i mezzi tecnici a disposizione. O forse l'attenzione delle forze dell'ordine e degli investigatori era girata da un'altra parte, verso la caccia appena iniziata - in una Italia attonita e sconvolta - ai brigatisti rossi che due giorni prima a Roma avevano rapito Aldo Moro sterminandone la scorta.

Eppure per Milano la morte dei due ragazzi fu un trauma, una emozione più forte di quanta ne recassero le immagini raggelanti del massacro di via Fani. I due ragazzi del «Leoncavallo», per la loro età, per le loro facce e le loro storie, vennero vissuti dalla città come vittime che avrebbero potuto esservi in qualunque famiglia. Anche in quegli anni di scontri espliciti, questo fece della loro morte un lutto cittadino, e non solo della parte politica di cui erano espressione. La scelta del sindaco Beppe Sala di andare l'altro giorno a rendere omaggio alla loro memoria è, in un certo senso, la prosecuzione di quel lutto collettivo.

Non erano i primi ragazzi qualunque a venire uccisi a sangue freddo: a destra, tre anni prima, era toccato a Sergio Ramelli, ammazzato dalle chiavi inglesi di Avanguardia Operaia; tre mesi dopo Ramelli, in piazza San Babila i fascisti avevano ucciso a coltellate Alberto Brasili, colpevole di avere staccato da un muro un adesivo dell'Msi. Ma della morte di Fausto e Iaio si colse subito anche l'anomalia, il non essere spiegabile con gli schemi - orrendi ma lineari - delle vendette e delle controvendette.

Le indagini non aiutarono a rispondere alle domande che la città si poneva. Nel frattempo altri delitti - dall'omicidio di Ramelli a quello del commissario Calabresi - trovavano spiegazione e colpevoli. Sulla morte di Fausto e Iaio, un po' alla volta, iniziarono ad affastellarsi spiegazioni sempre più complesse e inevitabilmente più fumose, indimostrabili e quindi, di riflesso, non smentibili. Fino all'ultima, quella - sia detto col rispetto dovuto a una madre che ha perso il figlio - meno ancorata a dati di fatto e sostenuta dalla famiglia di Tinelli, che lega l'agguato al covo delle Brigate Rosse in via Montenevoso, davanti al quale i servizi segreti avevano affittato un appartamento. Tinelli, che abitava lì, forse aveva visto qualcosa.

La realtà forse fu più semplice, e qualcosa nelle carte dell'inchiesta affiora.

Si scusa ma non troppo e lo condannano a 12 anni

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Il salvadoregno, autore di altre due violenze sessuali Scrive una lettera alle sue vittime: per colpevolizzarle

Luca Fazzo

Ha cercato, come purtroppo accade spesso, di cavarsela dando la colpa alla sua vittima: dicendo che la turista canadese salita sul suo (finto) taxi alle cinque del mattino, con il suo atteggiamento aveva lasciato capire di essere d'accordo. Ma il racconto della donna, e gli accertamenti compiuti subito dopo il crimine al centro anti violenza della clinica Mangiagalli, raccontano e dimostrano un'altra storia: un' aggressione brutale, subìta da una vittima che non aveva possibilità di difendersi. Per questo Josè Balmore Iraheta Argueta, 28 anni, uno degli esponenti più noti della gang salvadoregna degli MS18, ieri viene condannato per stupro.

E non era la sua prima volta. Dall'aggressione alla turista, l'esame del Dna ha portato gli investigatori fino a uno stupro di otto anni fa rimasto allora senza colpevole, l'aggressione a una infermiera sul treno per Vignate. Anche quella volta, il violentatore era Iraheta. La condanna complessiva che il giudice preliminare Natalia Imarisio infligge ieri al salvadoregno è pesante: dodici anni di carcere. Sarebbero stati diciotto se l'uomo non avesse scelto il rito abbreviato per limitare i danni.

Ieri Josè appare in aula, davanti al giudice Imarisio, per assistere alla requisitoria del pm Gianluca Prisco. È smilzo, vagamente torvo. In aula non ci sono le sue vittime, solo i loro avvocati. L'uomo chiede la parola per una breve dichiarazione, ripercorre le tesi difensive che ha esposto nelle lettere inviate a entrambe: che non sono affatto lettere di scuse, perché in nessuna delle due il pandillero ammette le sue colpe. All'infermiera dice soltanto di avere cercato di rubare il cellulare, accampando l'alibi della povertà e della giovinezza: ma si guarda bene dallo spiegare come il furto si sia trasformato in stupro, provato scientificamente dalla presenza del suo liquido seminale sulla donna. E alla turista dice addirittura di essere convinto che lei non vedesse l'ora di fare l'amore con lui.

Nel capo di imputazione c'è una ricostruzione che non lascia spazio ad equivoci di questo genere: dopo essersi presentato alla ragazza come tassista e essersi offerto di portala a casa, Iraheta prende un'altra strada, si dirige in un luogo appartato, qui prende la nordamericana per i capelli e le fa picchiare la testa per tramortirla e intimidirla. Lei riesce a fuggire, lui la raggiunge e la trascina in un cespuglio dove le infila due dita in gola per impedirle di gridare. Per un attimo sembra calmarsi, si ferma, si scusa. Ma poi si scatena di nuovo, la trascina in un parcheggio, la picchia e la stupra ripetutamente.

Altrettanto brutale la scena dello stupro del 2010: Iraheta è sul treno per Vignate, la giovane infermiera ha la sfortuna di trovarsi da sola sul vagone con lui. Si accorge che la sta fissando, si alza per cambiare vagone ma lui le sbarra la strada e la scaraventa a terra puntandole alla gola un coltello da venti centimetri. Le abbassa gli slip e la violenta. Poi, «approfittando del suo stato di terrore» si fa dare anche il suo Iphone 4 e se ne va.

Vittime per l'amianto alla Scala, si ritorna in aula

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Un mese fa l'ultimo decesso. Dieci casi tra i lavoratori del teatro. Le motivazioni della sentenza "Pirelli bis" in ritardo di un anno

Dieci croci in legno davanti al tribunale, tante quanti i lavoratori della Scala uccisi dall'amianto: così parenti delle vittime e dirigenti sindacali hanno fatto sentire ieri mattina la loro presenza nel processo, finalmente avviato dopo una serie di inciampi, ai vertici del Teatro, accusati di omicidio colposo per avere consapevolmente tollerato la presenza di amianto. Mentre quattro ex sindaci (Carlo Tognoli, Paolo Pillitteri, Gian Piero Borghini e Marco Formentini) sono stati prosciolti al termine delle indagini preliminari, sul banco degli imputatati sono stati chiamati l' ex sovrintendente dell'ente scaligero Carlo Fontana e altri quattro dirigenti.

È l'ennesimo processo che si apre a Milano, dove quasi tutte le grandi aziende - dalla Pirelli, all'Alfa, all'Atm, alla Breda - sono state incriminate per i decessi da mesotelioma pleurico, il tumore classico da esposizione all'amianto, di decine di lavoratori. Quasi tutti i processi si sono conclusi con l'assoluzione degli imputati, sollevando le proteste dei familiari. Ieri il legale delle vittime, Laura Mara, denuncia una pecca ingiustificabile di uno dei processi: la sentenza che il 9 dicembre 2016 mandò assolti i dirigenti della Pirelli, sotto accusa per ventotto operai morti o ammalati, non è mai stata depositata. Nonostante il termine massimo concesso dal codice per la stesura delle motivazioni sia scaduto da oltre un anno, il giudice Anna Maria Gatto le sta ancora scrivendo. Questo rende impossibile per i difensori di parte civile presentare il ricorso in appello, e fa scorrere inesorabilmente il tempo che avvicina la prescrizione.

Alla Scala, il mesotelioma falciò lavoratori di ogni categoria: operai, orchestrali, coristi. «Mia mamma, Luciana Patelli - racconta Marcello Menegatti davanti a palazzo di giustizia - era una cantante lirica nel coro della Scala per quasi 30 anni in teatro. Finché è stata in teatro non ha avuto problemi, la malattia si è manifestata solo molto più tardi. Nel 2013 è mancata dopo poco meno di un anno di malattia».

Proprio il lungo periodo di incubazione del mesotelioma, e la difficoltà di individuare con precisione il momento di insorgenza della malattia, ha reso accidentato l'andamento di questi processi. Ma ora una nuova sentenza della Cassazione (relativa ai morti nella centrale Enel di Chivasso) accoglie le tesi delle vittime: e l'avvocato Mara chiede che le Sezioni unite facciano propria la nuova interpretazione. Ma intanto tra gli ex della Scala si continua ad ammalarsi e morire: l'ultima vittima, appena un mese fa.

Maxi graffito per l'Inter che compie 110 anni finanziato da Mediaset

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Mentre il Milan rosica è polemica nerazzurra per i simboli scelti: fuori Moratti sr e Mazzola

Nostalgia e polemiche, celebrazioni e sfottò. Su una grande facciata dell'Isola appare il mural che celebra centodieci anni di storia dell'Inter: e inevitabile scatta la spaccatura non solo tra tifosi rossoneri e nerazzurri, ma anche all'interno della community interista. Perché, per scegliere i personaggi simbolo di undici decenni, si è dovuto scegliere. In un' epoca in cui il web elegge anche i presidenti del Consiglio, ovviamente anche questa scelta è stata fatta a colpi di clic. E ora i dissidenti si fanno sentire.

Il maxiaffresco si impone alla vista di chi percorre il cavalcavia Bussa, la strada che oltrepassa i binari ferroviari di Porta Garibaldi e sbarca in via Borsieri. Resterà lì fino a fine anno, per celebrare le centodieci candeline nerazzurre. Porta il marchio del club e anche quello di Mediaset Premium: e già qui c'è chi arriccia il naso, perché Mediaset=Berlusconi=Milan. Ma, spiegano a Premium, si tratta solo di una partnership occasionale, in cui il marketing Mediaset ha risposto a una ricerca dell'Inter. Nessun inciucio, insomma.

Più appassionante il tema della qualità artistica dell'opera, che alcuni applaudono e ad altri fa storcere il naso. Ancora più avvincenti i criteri di scelta della hall of fame riassunta nel mural e il dibattito che ne consegue. Per il primo decennio (1908-1918) il sondaggio ha scelto i signori in bombetta che, riuniti al ristorante Orologio, danno vita al club: e fin qui va bene; praticamente obbligata la scelta di «Pepp» Meazza per il decennio successivo; meno ovvio che a rappresentare l'Inter Ambrosiana del 1938-1948 compaia Annibale Frossi, attaccante di piedi un po' approssimativi, più noto per la sua carriera successiva di commentatore. A impersonare i nerazzurri degli anni Cinquanta Benito «Veleno» Lorenzi viene preferito ad Angelo Moratti, il presidente che inventò la grande Inter; mentre la stagione dei successi mondiali ha come icona Armando Picchi, che nel sondaggio sconfigge il «Mago», Helenio Herrera. Mah.

La spaccatura vera riguarda la finestra 1968-1978, dove al ballottaggio vanno Sandro Mazzola e Giacinto Facchetti: vince quest'ultimo, forse anche per motivi affettivi. Ma che Mazzola resti fuori dal Gotha fa un certo effetto. E poi: lo «Zio» Bergomi batte «Kalle» Rummenigge e Graziano Bini, Ronaldo batte Massimo Moratti; nell'ultimo decennio il collettivo del Triplete sconfigge (e ci mancherebbe altro) Mauro Icardi.

Giusta o sbagliata, opinabile o meno, la scelta è fatta: e così eccoli là, un secolo e dieci anni di storia, a guardare chi si avventura all'Isola. Per sempre giovani e belli come tutti gli eroi, e come gli eroi destinati a dividere. La discussione, a volte con toni aspri, agita i social network. Le donne, ovviamente, brontolano. E i milanisti rosicano un po'.

Le offese della Balzerani finiscono sotto indagine. Rischia il centro sociale

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La Procura apre un fascicolo sull'ex Br che aveva detto: «Fare la vittima è un mestiere»

Non rischia di tornare in carcere, perché dal 2011 - dopo avere trascorso cinque anni in libertà condizionale - ha ottenuto una sentenza che dichiara scontata la sua pena: non è vincolata nè al silenzio nè alla buona condotta. Ma per Barbara Balzerani, membro negli anni Settanta e Ottanta della direzione strategica delle Brigate Rosse, le esternazioni dell'altroieri a Firenze rischiano comunque di tradursi in grattacapi giudiziari. Nel pieno delle commemorazioni per il quarantennale della strage di via Fani e del rapimento di Aldo Moro - cui partecipò in prima persona - la Balzerani ha scelto di polemizzare contro le vittime del terrorismo, «ormai la vittima è diventato un mestiere». Dichiarazioni che sono suonate oltraggiose al figlio di un caduto di quella stagione, il sindaco di Firenze Lando Conti, assassinato dalle Br il 10 febbraio 1986. Lorenzo Conti ha annunciato che sporgerà querela nei confronti della ex brigatista. E, senza aspettare la denuncia di Conti, la Procura fiorentina ha già aperto un fascicolo di inchiesta, acquisendo la relazione della Digos con il testo integrale delle esternazioni della Balzerani a margine della presentazione di un suo libro al Csa, il centro sociale dell'ultrasinistra fiorentina. Allo stato si tratta di un fascicolo esplorativo, senza ipotesi di reato. Ma è il segnale che le esternazioni della donna hanno passato il segno. Come racconta anche la reazione di un'altra familiare, Olga D'Antona, moglie del giurista Massimo, ucciso nel 1999: le parole della Balzerani, dice, «sono un incitamento a un'ulteriore violenza e un'ulteriore eversione». E conclude amara: «Ha ragione la Balzerani quando dice che il nostro diventa un lavoro. Ma noi non lo abbiamo scelto».

A documentare le parole della «Compagna Luna» sono stati i microfoni di Pietro Suber di Matrix, che ne manderà in onda la registrazione integrale nella puntata di stasera. Sono frasi che vale la pena di riportare ampiamente: «Qui c'è una cosa in questo Paese che ci riporta altro che alla caverne. Ci riporta ad un livello insopportabile. C'è una figura, la vittima, che è diventato un mestiere. Non è che se tu vai a finire sotto una macchina sei una vittima della strada. Lo sei per il tempo che ti riaggiustano il femore, non è che lo sei tutta la vita! C'è questa figura stramba per cui la vittima ha il monopolio della parola. Io non dico che non abbiano diritto a dire la loro, figuriamoci. Ma non ce l'hai solo te il diritto! Non è che la storia la puoi fare solo te!». L'ex ergastolana se la prende con le celebrazioni dell'anniversario: «Tutto questo marasma, questa isteria che c'è oggi ad dover ridurre la ricchezza di quegli anni, le conquiste di quegli anni, concentrati in un episodio, in una mattina. Come se il 16 marzo fosse venuto da Marte». Rende omaggio ai militanti no Tav della Valsusa, e ha parole pesanti per il ministro degli Interni Marco Minniti: «Questa spada di Damocle che questi signori intendono mettere sulle lotte attuali. Ai quattro ragazzi che avevano manomesso il compressore in Val di Susa gli hanno dato l'accusa di terrorismo, li hanno messi in 41 bis! C'è una sproporzione tra quello che accade e quello che i vari Ministri degli Interni con l'ultimo che Dio lo perdoni riescono ad elaborare, che mette paura, veramente».

Intanto, a vedersi presentare il conto per avere ospitato lo show della Balzerani potrebbero essere gli ultras del centro sociale Cpa di Firenze Sud. Il consiglio comunale del capoluogo toscano ha approvato ad ampia maggioranza una mozione che ne chiede lo sgombero immediato.


Altra asta per Porta Vittoria L'area fantasma è «in saldo»

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Dopo la seduta disertata i curatori ci provano ancora: prezzo base sceso a 120 milioni. Bizzi si chiama fuori

Luca Fazzo

Nella città del mattone rampante e dei grattacieli che spuntano come funghi, la più grande e più centrale delle operazioni immobiliari in corso continua a essere ferma e senza padrone: e la vasta cicatrice urbana che la ospita rischia di restare aperta chissà ancora per quanto. È la storia dell'area di porta Vittoria, l'operazione voluta dal romano Danilo Coppola, e travolta dalla bancarotta del suo ideatore. Lo scorso dicembre l'asta organizzata dai curatori fallimentari per trovare un acquirente si concluse nel mondo più triste: nessuna offerta. Ora i curatori ci riprovano, abbassando robustamente il prezzo, e sperando che qualcuno si faccia vivo. Ma non è detto che le cose vadano meglio.

Il nuovo avviso d'asta è stato pubblicato ieri sul sito del tribunale di Milano, per decisione del giudice delegato Amina Simonetti e dei tre curatori fallimentari chiamati a gestire il fardello del crac di Coppola. A dicembre, il lotto era stato messo in vendita al prezzo base di 152 milioni di euro: e sembrava già allora un prezzo conveniente, visto che il lotto comprende il grande albergo affacciato su via Cena, cui per entrare in funzione mancano solo gli allacci delle forniture, e centocinquanta appartamenti signorili, anch'essi praticamente terminati. Fino all'ultimo momento, i curatori avevano sperato che si manifestasse un acquirente. Qualche approccio preliminare c'era stato: tra questi il più concreto era parso quello di Davide Bizzi, il costruttore che con la sua «Milano Sesto» sta realizzando la gigantesca operazione residenziale sull'area Falck di Sesto San Giovanni. Ma alla fine nè Bizzi né altri formalizzarono proposte concrete.

La notizia aveva gettato nello sconforto gli abitanti della zona, chiamati a convivere con una area, la grande sterpaglia che arriva fino a viale Molise, sempre più abbandonata e degradata. Ora i curatori ci riprovano, e a prezzi quasi da saldo: per portarsi a casa l'intero compendio bastano 120 milioni, oltre il venti per cento di sconto sulla richiesta di tre mesi fa. Basterà il supersconto a risvegliare qualche interesse?

A domanda, Davide Bizzi risponde di essere per ora fuori dalla partita, Porta Vittoria non rientra più nei suoi piani. E finora non si vedono all'orizzonte altri candidati. Il rischio che anche il nuovo termine per presentare le offerte, fissato al prossimo 3 maggio, scorra senza che nessuno si faccia vivo è tutt'altro che ipotetico.

Le spiegazioni per tanta diffidenza sono molteplici. Certamente pesa in alcuni la preoccupazione che le vicissitudini giudiziarie di Coppola (recentemente condannato a 7 sette anni per bancarotta) si ripercuotano sull'operazione e la paralizzino. Ma anche le pretese del Comune, che chiede agli eventuali acquirenti di bonificare l'intera area e di costruire un centro sportivo, non stimolano a farsi avanti. Così tutto resta lì: albergo, appartamenti, sterpaglie e progetti.

Il pm sbircia nel letto di Maroni: "Va condannato"

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Chiesti 2 anni e 6 mesi per una presunta relazione del governatore con una collaboratrice

Milano - Una condanna non troppo severa, con tanto di attenuanti generiche «per adeguare la pena al caso concreto», modo elegante per dire che un processo interminabile si è consumato intorno a una bagatella. Ma i due anni e mezzo di carcere chiesti ieri per Roberto Maroni dal pm milanese Eugenio Fusco sarebbero sufficienti, se il tribunale sarà dello stesso avviso, a troncare sul nascere ogni eventuale tentazione dell'ex presidente della Regione Lombardia di tornare ad avere un ruolo pubblico, dopo le dimissioni a sorpresa del gennaio scorso. Una delle due accuse per cui Fusco ha chiesto la condanna di Maroni, la concussione per induzione, rientra infatti tra i reati che per la legge Severino rendono incandidabili a cariche pubbliche.

Sul tavolo, come è noto, ci sono i favori che Maroni avrebbe chiesto e ottenuto per due sue collaboratrici storiche, Maria Grazia Paturzo e Mara Carluccio, la prima assunta in Expo e poi inserita in una missione a Tokyo in business class e cinque stelle, e la seconda piazzata in una società controllata dalla Regione. Il piatto forte dell'accusa è il primo, il viaggio che la Paturzo doveva fare in Giappone insieme a Maroni a spese di Expo: non solo perché è qui che scatta l'imputazione più grave, ma perché il pm Fusco lo colloca esplicitamente in un contesto a luci rosse, ovvero la relazione che Maroni e la donna avrebbero intrattenuto all'epoca. Nella sua requisitoria, il pm rivendica di avere tenuto fuori dal processo le intercettazioni più imbarazzanti, «quelle morbose e sgradevoli», e racconta anche che durante i pedinamenti «i carabinieri si sono fermati non un passo indietro ma dieci passi», rafforzando così inevitabilmente la curiosità. Comunque afferma che «la relazione affettiva che legava Maroni e la Paturzo era nota a tutti». E a fare naufragare la missione, dice non furono gli altri impegni di Maroni ma le scenate di gelosia, «non solo professionale» della portavoce di Maroni, Isabella Votino. Il movente lettereccio della faccenda, per Fusco è così cruciale che chiede di incriminare le tre testi che hanno negato la liaison: la Paturzo, la Votino e la neodeputata Cristina Rossello.

Depurata dagli aspetti pruriginosi, resta l'ipotesi di reato: ma qui Fusco sa che per condannare Maroni il tribunale dovrebbe scavalcare un ostacolo gigantesco, la sentenza della Corte d'appello che ha già assolto definitivamente un altro imputato per gli stessi fatti, l'ex manager di Expo Christian Malangone. Quella sentenza dice che non vi fu alcun reato, Maroni si limitò a una richiesta «aperta e perentoria» ma senza fare minacce o promettere contropartite. Anche l'ultimo messaggio del segretario di Maroni, che finì con sbloccare le resistenze di Beppe Sala (oggi sindaco di Milano, allora amministratore di Expo) non fu un ultimatum ma una «rinnovata richiesta».

Ieri Fusco si aggrappa, per aggirare l'ostacolo, a una frase «il presidente ci tiene», contenuta nell'ultimo messaggio del segretario di Maroni a Malangone: per Fusco non è una minaccia ma una «implicita promessa» di favori al manager, che con la fine di Expo sarebbe rimasto senza lavoro. L'imbarco della amica di Maroni sul volo per Tokyo sarebbe stata la contropartita per la futura assunzione.

Sulla ricostruzione di Fusco aleggia la figura di Beppe Sala, che alla fine diede il via libera a viaggio («il capo è allineato», scrisse Malangone) ma non è mai stato incriminato; e che, prima del viaggio a Tokyo, accettò una richiesta di Maroni di valore ben più consistente, assumendo la Paturzo in Expo e tenendocela per due anni a non fare (dice lui) quasi niente. Dice il pm: «Sala aveva accettato la raccomandazione, questo è malcostume ma non reato». Il viaggio (mai fatto) a Tokyo invece sì.

Dopo le svastiche scritte Br: nuovo oltraggio agli agenti

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Imbrattata di nuovo la lapide di via Fani. La memoria di Moro calpestata dal «compromesso storico» dell'odio

C'è l'odio per lo «sbirro», quello che da sempre accomuna criminali politici e delinquenti comuni, e - nella galassia del terrorismo - è il principale punto di contatto tra eversione rossa e galassia nera. E c'è anche, nella teppaglia qualunquista che si muove nelle nostre metropoli, un immaginario confuso e grezzo, dove i drammi della storia nazionale si confondono: così per insultare degli agenti caduti facendo il loro dovere si possono impiegare indifferentemente i simboli nazisti e le sigle dei terroristi rossi.

Sulla lapide per i cinque poliziotti caduti in via Fani, un mese fa era apparsa una svastica con la scritta «a morte le guardie». Neanche il tempo di ripulirle, e le steli di marmo vengono di nuovo oltraggiate. Stavolta la vernice è rossa, e traccia semplicemente la sigla delle Br. Non le hanno tracciate certo veri brigastisti né veri nazisti. Ma la doppia ingiuria racconta bene quanto rimanga, a dispetto dei colti convegni per il quarantennale del sequestro Moro, della predicazione estremista: un magma confuso, un odio indistinto per lo Stato.

È ignoranza, ma non è solo ignoranza. La storia dei due fronti terroristi che imperversarono in Italia racconta che sia neri che rossi attinsero, al momento del passaggio nella lotta armata, nell'armamentario della malavita: l'ultradestra romana e anche frange consistenti di quella milanese erano contigue al mondo del narcotraffico; nella nebulosa della violenza rossa c'erano formazioni espressione dirette della criminalità e del mondo carcerario, come i Pac, quelli di Cesare Battisti. Che il poliziotto fosse il nemico da abbattere, ben più dell'avversario politico, era quasi naturale, vista questa matrice comune. Non è un caso che le Brigate Rosse in tutta la loro tragica epopea abbiano ucciso solo, e agli esordi, due neofascisti (i militanti missini Mazzola e Giralucci, trucidati a Padova) e abbiano poi ammazzato a sangue freddo un numero incalcolabile di carabinieri e poliziotti, come i tre agenti del commissariato Ticinese, trucidati in via Schievano la mattina dell'8 gennaio 1980, unicamente per dare il benvenuto a Milano al generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, appena nominato alla divisione Pastrengo. Fu un delitto cinico e feroce, di cui Barbara Balzerani, che partecipò personalmente al massacro, non ha mai dato alcun segno di pentimento e nemmeno di autocritica: ma di cui, a differenza del sequestro Moro, non è mai riuscita a dare una spiegazione sensata se non quella del sangue per il sangue. Nulla di strano, insomma, se ora sulla lapide che racconta altri poliziotti assassinati, a distanza di pochi giorni - tracciate dalla stessa mano, o da mani diverse: poco cambia - appaiono ingiurie distanti eppure identiche. D'altronde radici culturali e progetti politici di entrambi gli schieramenti erano tanto rozzi quanto fumosi, ed era inevitabile che alla fine i due mondi si ritrovassero contigui. Come accadde (lo racconta bene Raimondo Etro, uno del commando di via Fani) nel carcere per pentiti di Paliano, dove tra la brigatista Emilia Libera e Sergio Calore dei Nar scoppiò addirittura l'amore.

Intanto ieri Maria Fida Moro è tornata a polemizzare con lo Stato che consente alla Balzerani e altri Br di venire trattati come eroi nazionali.

Stesso reato: Romani alla sbarra, toga assolta

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Il forzista ha prestato il telefonino alla figlia, il giudice Zanon l'auto blu alla moglie

Luca Fazzo

Le trattative per le cariche istituzionali della XVIII legislatura rischiano di naufragare su una vecchia condanna di Paolo Romani, oggi candidato di Forza Italia alla presidenza del Senato, dichiarato colpevole di peculato per avere prestato alla figlia il telefono di servizio. Peccato che nelle stesse ore, a confermare che in Italia esiste una categoria al di sopra della legge, per una vicenda identica la Procura di Roma si veda costretta a chiedere l'archiviazione dell'indagine a carico di Niccolò Zanon, cattedratico illustre e giudice della Corte Costituzionale, in difesa del quale sono scesi in campo compatti tutti i suoi autorevoli colleghi.

Se Romani era accusato di avere prestato il cellulare intestato alla Regione Lombardia, Zanon doveva rispondere di avere permesso alla moglie Marilisa D'Amico di andare a spasso con l'auto blu di servizio: un benefit probabilmente anche più costoso del telefonino, visto che oltre ad auto e benzina la signora impiegava anche come chaperon il carabiniere in forza alla Consulta. Eppure ieri il procuratore aggiunto di Roma Paolo Ielo, che aveva firmato l'avviso d garanzia a Zanon, non ha altra scelta che firmare la richiesta di archiviazione del fascicolo. A meno che un giudice preliminare particolarmente rigoroso ci si metta di mezzo, Zanon è salvo. E con lui i suoi colleghi che in passato si sono comportati esattamente allo stesso modo, e che se lui fosse stato condannato avrebbero dovuto preoccuparsi a loro volta.

Come sia stato possibile il repentino affossamento della prima indagine sulla casta dei giudici costituzionali, lo spiega bene la missiva che il presidente della Consulta, Giorgio Lattanzi, ha inviato nei giorni scorsi al procuratore di Roma Giuseppe Pignatone e al suo «vice» Ielo. Lattanzi annuncia che è stato varato in fretta e furia un regolamento più restrittivo sull'uso privato delle vetture della Corte da parte dei suoi componenti. Ma intanto afferma che il regolamento in vigore fino a ieri, emanato nel 1979, secondo l'interpretazione della Consulta invece consentiva l'uso allegro delle auto e di quant'altro. La lettura dei due testi in realtà non sembra così tranquillizzante. Il testo, finora segreto, del regolamento del 1979 si limitava a indicare per l'uso delle auto dei giudici «lo stesso ambito e le stesse modalità riconosciute ai ministri»: e questo, dicono ora i giudici, consentiva l'utilizzo illimitato. Ma il nuovo testo non è molto migliore: dice che «a ciascun giudice è assegnata in via esclusiva una autovettura per uso personale, anche in relazione ad esigenze di sicurezza». Un po' poco per evitare shopping e gite fuoriporta.

La situazione è singolare, perché proprio dalla lettura del regolamento del 1979 il procuratore Ielo aveva tratto la certezza che la signora Zanon non avesse alcun diritto di usare l'auto blu per i fatti propri. Ma la Consulta è superiore alle leggi: se le fa, se le interpreta. E a quanto pare nessuno può dirle niente.

Igor il russo non si piega. Fa il duro coi pm italiani

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I giudici bolognesi in trasferta a Saragozza. Ma il killer di Budrio sceglie di non rispondere

Tranquillo, sprezzante, l'aria solida di chi ha già provato a lungo la galera ed è in grado di reggerla all'infinito senza piegarsi: ma pronto a approfittare del primo spiraglio per tirarsi fuori dai guai in un modo o nell'altro. Ieri, per la prima volta dalla primavera di fuoco di Budrio, Igor il Russo incontra l'uomo che lo ha braccato invano mentre seminava la morte nelle campagne emiliane. È Marco Forte, il pm bolognese titolare dell'indagine sull'omicidio del barista Davide Fabbri, che per tutto aprile e maggio seguì in diretta la gigantesca, inutile caccia dei carabinieri, tra paludi, cascine, canali. E che ieri si ritrova davanti il serbo inafferrabile, in una saletta del carcere di Zuera, alle porte di Saragozza. Incontro lampo. «Quieres responder?» «No».

Ai magistrati spagnoli che l'avevano interrogato dopo la cattura era andata di poco meglio. A loro Igor Vaclavic, ovvero Norbert Feher, almeno una perla l'aveva buttata lì, quando gli avevano chiesto come era arrivato in Spagna: «In bicicletta». E chissà se era guasconeria o strategia, orgoglio di fuggiasco o più prosaico tentativo di continuare a coprire la rete di appoggi che in Italia ed in Spagna lo hanno protetto fino all'ultimo inciampo, l'incidente che gli ribaltò l'auto dopo avere ammazzato un contadino e due guardie, e che il 15 dicembre scorso mise fine alla sua fuga.

Ai magistrati bolognesi, Igor non affida neanche lo sfottò. Nelle carceri italiane ha vissuto per anni, conosce norme e riti della nostra giustizia, sa che un criminale di ventura come lui non guadagna nulla a lasciarsi andare con i giudici. Almeno per ora. Se ne parlerà più in là, se e quando verrà consegnato alla giustizia italiana. Per adesso gli spagnoli se lo tengono stretto e si preparano a processarlo per i tre morti ammazzati prima della cattura. Il procuratore di Bologna, Giuseppe Amato, che guida la missione insieme a Forte, non si fa illusioni di averlo presto di qua dal Tirreno, e annuncia che i processi italiani cominceranno lo stesso, e presto. Lui, se vorrà, apparirà in videoconferenza.

Così all'ora di pranzo Amato e Forte sono già fuori dal carcere assolato, a rispondere ai microfoni dei giornalisti spagnoli. Anche a questi ultimi, più dei silenzi di Igor interessa la catastrofe della caccia: perché anche in Spagna la libertà di muoversi e di uccidere concessa al serbo in fuga ha scatenato polemiche a non finire. «Come avete fatto a lasciarvelo scivolare via?», chiedono i cronisti. E Amato: «Abbiamo fatto tutto il possibile, evidentemente qualcosa non ha funzionato. Ma non è facile dare la caccia a qualcuno che si muove come un lupo solitario». Ma proprio qui sta il problema: perché più passa il tempo e più la leggenda del lupo solitario, del diavolo in grado di sopravvivere mangiando lucertole, appare sempre meno convincente, in Italia come in Spagna. Igor il Russo è in galera, forse per sempre. Ma i suoi complici sono fuori.

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