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Channel: Il Giornale - Luca Fazzo
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Perché violenze e delitti sono impuniti

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Sono molti i difetti del sistema di aiuto. Leggi e magistrati spesso inadeguati

«Dottore, ma io non lo sapevo che non si potesse picchiare la propria moglie!». Tutto, per il giudice Fabio Roia, cominciò così: in una sala del carcere di San Vittore, dove un uomo (non un analfabeta, un italiano evoluto ed istruito) era rinchiuso per avere riempito di botte la donna che aveva avuto la sventura di sposarlo. Era il 1992: anni dopo la rivoluzione femminista, i referendum sul divorzio e sull'aborto, insomma dopo le svolte epocali che dovevano innovare insieme alle leggi anche il comune sentire. Quel giorno Roia si dovette rendere conto di quanto lunga fosse ancora da compiere la strada perché le violenze sulla donne fossero percepite e punite con l'esecrazione che meritano.

A venticinque anni di distanza, Roia ha scritto un libro che condensa il know how accumulato occupandosi quotidianamente - come magistrato, studioso e formatore - delle prevaricazioni ai danni delle donne: dalle più banali alle più tragiche, che spesso delle prime sono il punto di approdo. Potrebbe sembrare un manuale di istruzioni, una guida per difendersi ed intervenire: ed in parte lo è. Ma è anche una analisi spietata della incapacità del sistema di affrontare con cognizione di causa l'emergenza della violenza sulle donne. A dispetto dei proclami e delle campagne di sensibilizzazione, a volte gli addetti ai lavori sono i primi a mostrarsi inadeguati di fronte ai casi di cui si occupano: «Dietro questa patina spessa e stratificata di conformismo, di culturalmente corretto, si muovono pregiudizi, stereotipi, operatori che non ci credono, che non conoscono le leggi e le dinamiche della violenza di relazione e che intervengono male, creando ulteriori danni a chi ha sofferto e soffre», scrive Roia: «Non tutte le istituzioni funzionano come dovrebbero». E chiama in causa un po' tutti: dagli assistenti sociali, ai medici, agli avvocati, alle forze di polizia, agli stessi magistrati, a volte impreparati davanti alle esigenze tutte speciali di questo genere di reati.

C'è stata un'epoca non lontana, d'altronde, in cui la maggioranza dei giudici - focalizzati su inchieste di ben altro impatto mediatico - guardava con sufficienza ai loro colleghi impegnati su questo fronte: ribattezzandoli «maranoidi», dal nome dell'ispettore di polizia Domenico Maranò che di queste inchieste era innovativo protagonista, soprattutto nella fase delicata dell'interrogatorio delle vittime. Da allora il clima è fortunatamente cambiato, e con esso le sensibilità e soprattutto le leggi. Ma proprio il profluvio di nuove norme, non sempre coordinate e raramente assimilate, ha reso ancora più necessaria la formazione di figure e uffici specializzati all'interno di tutte le categorie chiamate a svolgere il loro ruolo.

Dai maltrattamenti in famiglia, alla violenza sessuale, allo stalking fino al cyberstalking: nel suo libro Roia, oggi presidente di sezione del Tribunale di Milano, ricostruisce meticolosamente tanto il quadro normativo che le modalità concrete di applicazione delle leggi. È un quadro complesso, frutto di leggi nazionali ma anche di convenzioni internazionali come la carta di Istanbul, e tradotto in pratica da protocolli comunali e regionali. Di ognuno, il libro indica i pregi ma anche le criticità: ad esempio segnala come consentire a una vittima di violenza di ritirare la querela la esponga inevitabilmente a pressioni di ogni genere per costringerla a fare retromarcia.


Il giallo del manager svizzero Sparito, l'auto trovata a Milano

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Ha accompagnato uno dei suoi figli all'aeroporto di Malpensa il giorno di Natale. Poi si è persa ogni traccia

Un'ora di buco, la sera di Natale, prima che uno svizzero sparisca nel nulla. Alle 18 del 25 dicembre Enrico Maccari, manager farmaceutico, brava persona, conti a posto, è nella sala partenza dell'aeroporto di Malpensa, ad accompagnare uno dei figli, che parte per qualche giorno di vacanza. Clima sereno, gli abbracci consueti, «Ci vediamo al ritorno».

«Papà era tranquillo, assolutamente» ricorda adesso Fabio, l'altro figlio. Eppure qualcosa accade. Poco più di un'ora dopo, alle 19,35, il telefono di Maccari aggancia per l'ultima volta una cella telefonica, poi svanisce: è il telefono personale del manager. L'altro cellulare, l'utenza aziendale, è muta già da due giorni prima. E insieme ai due telefoni sparisce anche lui, 55anni, classico uomo d'azienda: efficiente, organizzato. «Uno specialista nel risolvere i problemi», lo descrive chi ha lavorato con lui. Nulla nel suo passato e nel suo presente può spiegare una fuga volontaria, e nemmeno può far credere che sia rimasto vittima di qualche nemico. Ma Maccari non si trova più. Dopo i primi, naturali, tentennamenti i figli hanno scelto di rivolgersi alla magistratura di Varese e di Lugano. E ora sui due lati del confine, ricerche e indagini si muovono per far luce su un mistero che, ora dopo ora, si tinge di ombre cupe.

Il 30 dicembre Maccari doveva vedersi con la sua compagna, una francese, ma a quell'incontro non arriva mai. Contro ogni spiegazione, scende in Italia, a Milano, dove la sua automobile viene trovata posteggiata in via Fratelli Pozzi, nella zona di Gorla: ed anche questo è un dettaglio che aggiunge mistero a mistero, perché siamo in una zona popolare, lontana da alberghi a quattro stelle, da stazioni. Che ci faceva, a Gorla, il manager Maccari? Poiché a questa domande non è facile trovare una risposta sensata, allora gli inquirenti dovranno farsene un'altra: c'è arrivato di sua spontanea volontà, Maccari, in Italia? C'era qualcun altro insieme a lui? Sono domande inquietanti. Ma non è normale che un uomo attaccato al lavoro come lui abbandoni la propria auto, lasciando a bordo non solo le medicine di cui ha bisogno ma persino il suo personal computer.

«Maccari è maggiorenne e sano di mente - spiegano gli investigatori - quindi per i primi giorni dopo la denuncia della scomparsa la ipotesi privilegiata è stata quella di un allontanamento volontario. Certo, con il passare dei giorni diventa necessario battere altre piste». Ma quali siano queste possibili piste per ora non si capisce. «Finora - spiega Fabio, il figlio dello scomparso - il magistrato non ha ritenuto neanche di poter chiedere i tabulati dei telefoni, per accertare quali siano stati gli ultimi contatti di nostro padre. E non sappiamo nemmeno se le sue carte di credito siano state utilizzate nei giorni successivi alla sua scomparsa. Per quel che ci risulta, qualcuno potrebbe stare svuotando i suoi conti correnti»

D'altronde, la fase della vita attraversata in questi giorni da Maccari era la meno indicata per decidere di mollare tutto e cambiare vita, sparendo dalla circolazione: aveva appena cambiato lavoro, dimettendosi dalla Bayer - dove era approdato nel 2016 come responsabile del customer care, dopo avere lavorato a lungo in Boehringer - firmando un contratto da direttore di stabilimento in un'azienda dello stesso settore alle porte di Bellinzona, dove doveva iniziare proprio in questi giorni. Per questo aveva anche cambiato casa, da Basilea a Giubiasco, alle porte di Bellinzona. «Avevamo festeggiato tutti insieme il Natale la sera della Vigilia - racconta Fabio Maccari - proprio perché dall'indomani papà voleva terminare con calma il trasloco nella nuova casa». Ma lì non è mai arrivato.

Il processo verso lo stop elettorale

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Luca Fazzo

Non si candiderà alle elezioni regionali, ha detto che non si candiderà, se non glielo chiedono, nemmeno alle elezioni politiche che si terranno anch'esse il 4 marzo: in teoria, Roberto Maroni potrebbe nelle prossime settimane affrontare le udienze del processo in corso a suo carico da tempo immemorabile, con al centro il viaggio a Tokyo per sé e una collaboratrice, senza chiedere la sospensione delle udienze per la campagna elettorale. Visto che la campagna medesima non lo vedrà coinvolto.

In pratica, invece, tutto potrebbe fermarsi. Giovedì prossimo è prevista una udienza, con l'interrogatorio di alcuni testimoni della difesa: e in quella sede il legale del Governatore, Domenico Aiello, formalizzerà la richiesta di una moratoria elettorale. Motivazione: il ruolo istituzionale e di leader politico di Maroni ne farà comunque uno degli attori della competizione. Motivi di opportunità dunque spingerebbero a fermare le bocce almeno fino al 4 marzo.

La Procura parrebbe intenzionata a non opporsi; e d'altronde anche in occasione del referendum per l'autonomia Maroni aveva ottenuto uno stop del dibattimento con il consenso della pubblica accusa. La decisione alla fine spetterà al tribunale presieduto dal giudice Maria Teresa Guadagnino. E questa decisione è destinata a pesare negli scenari della complessa stagione elettorale che sta per aprirsi e sulle chance di Maroni di riapparire alla ribalta in un ruolo nazionale. I tempi della giustizia si incrociano con le scadenze della politica e il risultato del mix non sarà neutro.

Si tengano d'occhio i calendari: il processo a Maroni si tiene ogni giovedì; dopodomani verrà celebrata l'udienza, il 18 era già previsto uno stop, il 25 dovrebbero essere sentiti gli ultimi testi della difesa. Se non dovesse scattare la moratoria, già il 25 o al più tardi il 1° febbraio il tribunale potrebbe dare la parola al pm Eugenio Fusco per la sua requisitoria. Dal giovedì successivo tocca alle difese: e con tutta la buona volontà, è ben difficile che i quattro giovedì di febbraio non siano sufficienti per esporre le tesi a discolpa di tutti i quattro imputati. Quindi il tribunale potrebbe emettere la sentenza al più tardi il primo marzo, appena tre giorni prima delle elezioni. È chiaro che una assoluzione costituirebbe un buon trampolino di lancio per Maroni verso nuovi e più prestigiosi incarichi, ma anche che una condanna ne indebolirebbe bruscamente le prospettive. Tutti scenari che se la moratoria verrà accolta si sposteranno più in là, materializzandosi durante le trattative per il nuovo governo.

Non c'è stata alcuna corruzione: assolti ex vertici Finmeccanica

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La Corte d'appello assolve Orsi e Spagnolini dall'accusa di tangenti estere nella vendita di elicotteri in India

Milano Tutti assolti, «perché non vi è prova sufficiente che i fatti sussistano». La Corte d'appello di Milano mette una pietra tombale sull'inchiesta del pm Woodcock che decapitò Finmeccanica, e lo fa con una sentenza dal testo singolare (l'insufficienza di prove è sparita dal codice da quasi trent'anni) che comunque segna una vittoria su tutta la linea per Giuseppe Orsi e Bruno Spagnolini, i manager travolti dall'indagine. Non c'è prova che Finmeccanica abbia conquistato appalti in India corrompendo il capo di stato maggiore: quegli appalti, come rimarca a botta calda il professor Ennio Amodio, difensore di Spagnolini, furono soltanto un grande successo del «made in Italy», tanto che lo stesso elicottero venne poi comprato anche dagli americani per trasportare il presidente Obama. Ma quel successo tricolore è stato spazzato via da una indagine e da un processo durati oltre sei anni, che hanno chiuso a Finmeccanica un mercato importante.

Era il 2011 quando i pm napoletani Henry John Woodcock e Vincenzo Piscitelli, nella loro caccia alla cricca ribattezzata P4, raccolsero le dichiarazioni di Lorenzo Borgogni, ex addetto stampa di Finmeccanica, relative agli appalti che Agusta Westland aveva vinto per fornire dodici elicotteri al governo indiano. Avendo la sede Agusta (controllata da Finmeccanica) in provincia di Varese e lo stato maggiore indiano a Delhi, non era chiarissimo quale competenza avesse Napoli per condurre l'inchiesta, ma ci volle l'intervento della Cassazione per riportare il fascicolo nella sede naturale, ovvero Busto Arsizio. Intanto la bufera aveva investito i vertici dell'azienda. A Busto, dove il fascicolo era approdato già confezionato, la Procura aveva rincarato la dose arrestando Orsi per ottanta giorni: una ingiusta detenzione di cui ora l'ex amministratore delegato potrebbe chiedere il risarcimento allo Stato.

Un valzer di contatti, di consulenze, di relazioni, il solito apparato che accompagna qualunque trattativa internazionale per appalti pubblici: questo ha portato alla luce l'indagine, ed è oggettivo che alla fine il bando d'appalto dell'esercito indiano sembrasse fatto su misura per gli elicotteri Agusta. Ma la «pistola fumante», ovvero la tangente che sarebbe stata versata a Sashi Tyagi, capo di stato maggiore di Delhi, non è mai saltata fuori: ad ammetterlo, durante la sua requisitoria al processo d'appello, era stato lo stesso procuratore di Busto Arsizio, Gianluigi Fontana: «Questo è un processo indiziario», aveva detto. Ma la Corte aveva ugualmente condannato Orsi a quattro anni e mezzo per corruzione internazionale e Spagnolini a quattro anni. La Cassazione poi aveva cancellato tutto, ordinando un nuovo processo.

Ora la sentenza d'appello chiude la pratica, perché trattandosi di una seconda assoluzione (Orsi e Spagnolini erano stati dichiarati innocenti già in primo grado) la nuova legge impedisce all'accusa il ricorso in Cassazione. Restano le due carriere devastate, e l'ombra - evocata in aula dalla stessa Procura - che tutto nasca anche da un complotto interno all'azienda, insofferente verso Orsi, «il manager venuto dal nord per dare una svolta al caos».

Agente abusò di una ragazzina. Ma i giudici gli ridanno la divisa

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Il poliziotto ha fatto ricorso al Tar della Lombardia. Il tribunale lo salva: "All'epoca era ancora nell'esercito"

Ha aiutato gli stupratori di una ragazzina, tra cui suo fratello, a cercare di farla franca dopo averla martoriata per due anni; e poi si è portato a letto la ragazzina stessa, sebbene avesse appena quindici anni. Ma continuerà a fare il poliziotto. In tempi in cui di violenza sulle donne si fa giustamente un gran parlare, in direzione opposta al comune sentire si muove una sentenza del Tar della Lombardia che riammette al servizio attivo un poliziotto cacciato dal servizio dopo essere stato coinvolto nelle indagini su un turpe episodio avvenuto a Melito Porto Salvo, in provincia di Reggio Calabria. I giudici non mettono in discussione che i fattacci siano avvenuti, ma si arrampicano su questioni di diritto che li portano alla sconcertante decisione finale.

Era il settembre del 2016 quando la procura di Reggio Calabria arrestò un branco di stupratori guidato dal giovane esponente della famiglia Iamonte, uno dei clan storici della 'ndrangheta reggina. La fidanzatina di uno del branco, Davide Schimizzi, era stata ricattata dal suo ragazzo: se non vai anche con i miei amici, faccio girare le tue foto nuda. Lei, una ragazzina fragile, era finita in un incubo di stupri e angherie durato due anni.

Dalle carte dell'inchiesta saltò fuori il nome di Antonino Schimizzi, il fratello di Davide, poliziotto in servizio a Monza. Si scoprì che a lui il fratello chiese consiglio quando fu convocato per la prima volta dai carabinieri, ed ecco come gli rispose: «Allora tu in ogni qualsiasi caso ti chiamano, tu vai e dici io non mi ricordo niente! Perché no! Gli devi dire che quando mi chiamate in giudizio poi ne parliamo, adesso a titolo informativo non vi dico niente! E scrivete quello che volete! Non ho nulla da dichiarare! Esattamente così! Così gli devi dire! Davide non fare u stortu, così gli devi dire, perché altrimenti ti fanno fare, ehm ti danno un'altra cosa, tu non gli dire niente, perché se gli dici qualcosa fanno un'altra cosa loro, capito? E poi rompono i coglioni!». Ce ne sarebbe a sufficienza per rispondere di favoreggiamento. E non è tutto. Si scopre che anche Antonino ha approfittato della ragazzina. Un rapporto consenziente, e sopra i quattordici anni non c'è la presunzione di stupro: ma nell'ordinanza di custodia il giudice aveva rimarcato come «la giovane parla di consenso, ma la sua volontà già acerba ed incompleta per età e condizione evolutiva, era fortemente viziata e mutilata da una condizione di disistima e di disprezzo per la propria persona e di totale svilimento del proprio corpo che era stato ridotto (non da lei, ma da un manipolo di balordi) ad oggetto da usare al soddisfacimento dei propri brutali e patologici istinti sessuali».

Il 10 gennaio 2017 il Consiglio di disciplina decide la destituzione del poliziotto dal servizio: con i suoi suggerimenti al fratello «ha denotato l'assenza dei valori di lealtà, rettitudine e abnegazione che devono rappresentare il patrimonio genetico di ogni appartenente alla polizia di Stato».

Ma il Tar della Lombardia ora gli restituisce divisa e pistola. Motivo: quando aveva avuto rapporti sessuali con la vittima non prestava servizio in polizia ma nell'esercito. Non è chiaro cosa cambi nella gravità del fatto, ma secondo i giudici del Tar basta questo per reintegrare Schimizzi in servizio. E i consigli dati al fratello per schivare le indagini, forniti quando era già arruolato in polizia e aveva già giurato di essere fedele soltanto alla legge? La sentenza, semplicemente, non ne parla.

Processo in frenata. Il tribunale annulla le udienze già fissate

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Il governatore della Lombardia è imputato a Milano

Milano - Tre giudici, un pubblico ministero, quattro avvocati, udienze che si trascinano da tempo tra lentezze inspiegabili: è il processo in corso a Milano a Roberto Maroni per i favori che avrebbe rivolto a due giovani donne del suo staff, facendole assumere o viaggiare per il mondo a spese di Expo e della Regione. Ieri nuova udienza, insignificante al pari di molte altre, ma su cui è palpabile l'incertezza di un nuovo, imprevisto interrogativo. Il prossimo 22 marzo, quando prenderà la parola per la sua requisitoria, il pm Eugenio Fusco di chi chiederà la condanna? Di un ex politico ritirato a vita privata, o di un alto rappresentante delle istituzioni, chiamato a Roma nel rebus del dopo-elezioni?

Il futuro pubblico di Maroni si intreccia strettamente a questa vicenda giudiziaria in cui risponde di concussione e di turbativa. Finora a sedere sul banco degli imputati era il presidente della Regione Lombardia, nel pieno solstizio del suo potere. La repentina ritirata di «Bobo» dalle elezioni del 4 marzo ha scatenato una ridda di ipotesi sull'esito del processo che, in caso di condanna, lo farebbe decadere dalla carica attuale: mentre (bizzarrie della legge Severino) non avrebbe conseguenze immediate se invece fosse parlamentare o ministro. Dietrologie che avevano un difetto: davano per scontata una sentenza di colpevolezza.

Le cose però stanno diversamente. Se è (quasi) sicura una richiesta di condanna da parte del pm, i giudici dovranno invece fare i conti con un ostacolo enorme almeno per quanto riguarda il reato più grave, l'induzione: l'unico che potrebbe inficiare un ruolo pubblico di Maroni. Il principale coimputato del governatore, processato a parte, è stato infatti assolto con formula piena: il reato non è mai esistito, Maroni si limitò a chiedere un favore senza fare alcuna pressione. La sentenza è definitiva perché la Procura generale non ha fatto ricorso. Che Maroni venga invece condannato sarebbe quantomeno illogico.

Dunque la sentenza rischia di essere non una zavorra ma un trampolino per il futuro dell'attuale governatore. E allora si capisce meglio perché sia stato ieri il tribunale, con mossa singolare, ad annullare tutte le udienze già fissate per febbraio, impedendo che il processo arrivi a conclusione prima del voto. Perché fare favori a «Bobo», qualunque sia il futuro che lo attende?

"Inchiesta sulla vendita Milan" La Procura smentisce il fango

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Il pm Greco smentisce "la Stampa" che aveva parlato di un'indagine sulla vendita ai cinesi della società rossonera

"Allo stato, non esistono procedimenti penali relativi alla compravendita dell'AC Milan". Poco prima di mezzogiorno il procuratore della Repubblica di Milano Francesco Greco incontra i giornalisti e smentisce con nettezza la notizia pubblicata oggi su due quotidiani: l'apertura di un fascicolo di indagine per riciclaggio relativo alla cessione della squadra rossonera ad una compagine cinese. La notizia, pur precisando che Berlusconi non è indagato, aveva fatto nel giro di un attimo irruzione sulla scena della campagna elettorale. Invece gli inquirenti milanesi smontano il caso con una dichiarazione senza se e senza ma. "Non esiste una indagine, non esiste un fascicolo nè a carico di ignoti nè di ignoti, e nemmeno una indagine conoscitiva. Nulla".

Lo stesso procuratore della Repubblica conferma di avere incontrato nei mesi scorsi Niccoló Ghedini, legale di Berlusconi e della Fininvest, che gli aveva illustrato e documentato i passaggi della trattativa in corso per la cessione. I dubbi sulla identità degli acquirenti, spiega Greco , li aveva anche Ghedini. Ma poi le autorità di vigilanza, ovvero l Uif (Ufficio informazioni finanziarie) avevano , dopo avere esaminato le carte fornite dagli intermediari, ritenuto di non sollevare obiezioni e di dare il via libera alla operazione. Resta da capire, a fronte della netta smentita della Procura, come si sia originata la notizia. Pare certo che alcune carte relative alla operazione Milan siano arrivate effettivamente in Procura, e che siano all'esame del procuratore aggiunto Fabio De Pasquale, il medesimo che scava da decenni sui conti Esteri della Fininvest. Ma per ora, senza che sia emerso niente di illecito. E il comunicato odierno di Greco segna la volontà della Procura di non farsi trascinare, almeno stavolta, nella tempesta dello scontro elettorale.

"Berlusconi non è indagato". I pm seppelliscono la bufala

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Il procuratore di Milano Greco smentisce l'inchiesta sul Milan: nessun fascicolo, neppure conoscitivo

Una smentita tombale, che non lascia spazi a sottigliezze o vie di mezzo. L'inchiesta sulla cessione del Milan dalla Fininvest ai cinesi, annunciata in prima pagina ieri dalla Stampa e dal Secolo XIX evocando il fosco reato di riciclaggio, non esiste: lo afferma ufficialmente, a taccuini aperti davanti ai cronisti nel suo studio, il procuratore della Repubblica, Francesco Greco. La nuova «bufera su Berlusconi», precipitosamente lanciata dai siti Internet e raccolta al balzo da esponenti della sinistra, sparisce dall'orizzonte della campagna elettorale. La Stampa ribadisce: abbiamo due fonti che confermano. Ma la smentita di Greco sembra chiudere la partita.

La voce aveva cominciato a circolare la sera di venerdì, e dava addirittura Berlusconi per indagato. Interpellati da alcuni cronisti, Greco e il suo «vice» Fabio De Pasquale avevano smentito la circostanza. Ma ieri Greco va più in là: non solo Berlusconi non è indagato, ma è la indagine stessa a non esistere, neanche contro ignoti, neanche a livello esplorativo.

Della complessa trattativa per cedere il Milan, la Procura si è indubbiamente occupata: Greco ieri conferma di avere incontrato ripetutamente nei mesi scorsi l'avvocato Niccolò Ghedini, da cui ha ricevuto informalmente indicazioni sull'andamento della pratica. Incontri che nascevano dalle preoccupazioni della Fininvest sulla trasparenza dei propri interlocutori: «A un certo punto - racconta il procuratore - loro stessi volevano fare una segnalazione, perché se i soldi non arrivavano potevano diventare le parti offese. Ma poi c'è stato il via libera dalle banche e dalle autorità di vigilanza».

Ed è il placet degli organi di controllo, in particolare da parte dell'Uif (l'Ufficio informazioni finanziarie della Banca d'Italia) e dagli intermediari, ovvero le banche, il tasto su cui insiste Greco: «Gli intermediari hanno un obbligo di identificazione dei soggetti coinvolti, devono segnalare all'Uif se ci sono cose non chiare, a volte a noi viene chiesto di intervenire col freezing che è il blocco dei soldi». Nulla di questo è accaduto nella vicenda Milan.

E allora? L'unico dato che Greco non nega è la presenza in Procura di alcuni documenti relativi all'operazione: se non altro ci sono quelli consegnati da Ghedini nel corso degli incontri, oggettivamente un po' irrituali, dei mesi scorsi. C'è un rapporto della Guardia di finanza, che riprende le conclusioni positive dell'Uif. A questi potrebbero essersi aggiunte altre carte, verosimilmente provenienti da altre indagini già aperte sul mondo del calcio, come quella (destinata peraltro all'archiviazione) sulle aste per i diritti tv del campionato; e persino, negli ultimi tempi, un esposto presentato dal M5s. La tesi è che il pacchetto di controllo del Milan sia stato ipervalutato, e che nel prezzo finale di 740 milioni versato dall'imprenditore Yinghong Li una parte servisse a Fininvest per riportare in patria capitali. Ma è una tesi sgonfiata dagli accertamenti delle banche, tra cui Intesa, e dell'Uif.

Greco non chiude le porte a scenari futuri, nè potrebbe farlo: «D'altronde sapete che i tempi di riflessione di De Pasquale non sono brevi», dice, e suona come la conferma che da qualche parte, fuori da un fascicolo, delle carte ci sono. Ma la sostanza non cambia: almeno per questa volta, la campagna elettorale non avrà avvisi di garanza a carburare gli oppositori di Silvio Berlusconi. Intanto Ghedini definisce «surreale» l'insistenza della Stampa, e Marina Berlusconi, «indignata», sottolinea come il presunto scoop sia apparso su quotidiani appartenenti a Carlo De Benedetti.


Quegli atti che dimostrano che tutto è corretto

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È stata la difesa del Cav a consultare i magistrati su Li Yonghong e a produrre i documenti

Milano - Una lettera su carta intestata della banca d'affari americana Lazard, indirizzata a Danilo Pellegrino e Alessandro Franzosi, amministratore delegato e capo del business development di Fininvest: «Non abbiamo riscontrato nulla di pregiudizievole a carico di mr. Li Yonghong», scrive Marco Samaja di Lazard, e aggiunge che «mr. Li Yonghong dispone di adeguate risorse finanziarie per realizzare l'operazione». È il più esplicito tra i documenti che la Procura di Milano ha sul suo tavolo, consegnati nel corso dei mesi da Niccolò Ghedini e Salvatore Pino, legali del gruppo Fininvest, per documentare lo «stato dell'arte» delle trattative per la cessione del Milan. Sono documenti che per buona parte sono anche nelle mani dell'Uif di Banca d'Italia, insieme alle certificazioni di Intesa, l'unica banca italiana coinvolta nell'operazione, e dell'advisor Rotschild.

Sulla solidità finanziaria di Li Yonghong molto si è scritto dopo che la cordata cinese si era fatta avanti per acquistare il Milan. Più di una perplessità, si evince da queste carte, la aveva anche la Finnvest, che ha scavato a lungo sul suo interlocutore. Ma alla fine ne è emersa la solidità, certificata esplicitamente da Lazard e dimostrata poi dal saldo da parte dei cinesi di tutte le tranche dell'accordo.

Della documentazione consegnata alla Procura di Milano, e ritenuta così esauriente da non confluire in un fascicolo di inchiesta, fa parte anche un documento più delicato: la ricostruzione dei flussi finanziari dei fondi pervenuti a Fininvest, quelli indicati negli articoli di stampa come di «provenienza oscura» e al centro, nella notizia divulgata ieri da Stampa e Secolo XIX, dell'ipotesi di riciclaggio. Lo schema dimostra invece secondo i legali di Fininvest come i capitali siano interamente tracciabili, e riportino a disponibilità di Li Yonghong e dei suoi soci.

In particolare viene analizzata la prima e più discussa tranche dell'operazione, i cento milioni di cauzione che pervengono a Fininvest dalla Rossoneri Sport Investment Co. di Hong Kong. «Detto importo - si legge nella nota esplicativa - è il frutto degli apporti finanziari di quattro soggetti (tre persone giuridiche ed una fisica) puntualmente individuati e profilati». La persona fisica è la moglie di mister Li, le persone giuridiche sono due banche cinesi e una finanziaria, la Great Lucky Money Exchange. Altrettanto chiara è l'origine della seconda tranche da cento milioni, che deriva da un prestito dello stesso importo erogato dalla Willy Shine International, controllata dalla Banca Huarong, interamente rimborsato nel gennaio 2017 dalla Rossoneri Champion Co. Il rimborso avviene grazie a soldi che mister Li fa arrivare a Hong Kong dopo un passaggio alle Antille, ma comunque provenienti dal suo patrimonio: sulla cui solidità e consistenza, a partire dalle miniere di fosforo, gli advisor dell'operazione forniscono analisi dettagliate, anch'esse in mano ora alla Procura.

Degno di nota è che tra queste carte c'è anche una lettera dello studio legale Chiomenti che dà il nullaosta all'operazione anche grazie alle rassicurazioni fornite dagli studi legali che assistono i cinesi: e si apprende che il primo di questi consulenti è stato lo studio Ripa di Meana, da sempre consigliere dell'editore Carlo De Benedetti.

Greco smentisce la bufala e "La Stampa" lo censura

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Il procuratore ha negato qualsiasi indagine sul Milan Ma il giornale dell'Ingegnere occulta le sue parole

Milano - Qualcuno non la racconta giusta. O la Stampa e il Secolo XIX che ribadiscono di avere avuto da due fonti la notizia dell'inchiesta sulla vendita del Milan ai cinesi aperta dalla Procura di Milano. O la Procura, e direttamente il suo capo Francesco Greco, che sabato ha smentito tutto con lo smalto delle grandi occasioni: rientro in ufficio in pieno week end, giornalisti convocati, dichiarazione dettata parola per parola: «Non c'è nessun fascicolo». Un smentita talmente netta da trasformare la notizia dell'ennesimo impeachment di Berlusconi in una sorta di boomerang ripiombato addosso agli esponenti della sinistra che già si preparavano a utilizzarla in campagna elettorale.

Ma come stanno esattamente le cose, in questa vicenda che ha tutti i requisiti per diventare un caso di studio sui rapporti tra giustizia, informazione e politica? Ieri la Stampa non parla più di un'inchiesta formale ma di una «indagine» e di «verifiche» in corso. Che un fascicolo vero e proprio non esista, dunque, appare ritenerlo possibile anche il quotidiano torinese: e d'altronde davanti alla nettezza delle smentite di Greco era difficile sostenere il contrario. Anche se negli ambienti di palazzo di giustizia si dice che la sera di venerdì, prima della pubblicazione del presunto scoop, Greco aveva risposto in modo un po' più possibilista alla richiesta di conferme di un giornalista della Stampa.

Per difendere la propria linea, però, ieri il quotidiano torinese riporta solo in parte le dichiarazioni di Greco: che non si è limitato a negare l'esistenza di una inchiesta, ma anche quella di un fascicolo esplorativo, il cosiddetto «modello 45»; e soprattutto ha spiegato come l'intera operazione Milan-Cina sia passata sotto la lente di ingrandimento della Banca d'Italia, attraverso il suo Ufficio informazioni finanziarie (Uif), che ha dato il via libera non avendo riscontrato irregolarità. E non è tutto: nella lunga chiacchierata con i cronisti Greco ha smentito anche l'ipotesi che elementi sull'affare Milan siano emersi dalle rogatorie sull'asta per i diritti tv («Non c'entra un cavolo»); e ha ribadito di essere stato tenuto al corrente da Niccolò Ghedini («lui mi informava step by step») dei vari passi avanti delle trattative. E aveva concluso ribadendo che la Procura non aveva motivo di intervenire: «Noi ci muoviamo se c'è una denuncia». Ma una denuncia, allo stato, non c'è: a meno che non si voglia considerare tale l'esposto del Movimento 5 Stelle, ovvero di un soggetto politico in aperto scontro con Berlusconi: difficile che la Procura di Milano voglia farsi usare in una polemica elettorale.

Eppure, qualcosa sul tavolo dei pm c'è. Come scritto ieri dal Giornale, la Procura ha in mano un rapporto della Guardia di finanza, che riporta anche le conclusioni dell'Uif. La Stampa e il Fatto riportano la medesima notizia. E d'altronde la stessa Fininvest conferma di avere consegnato documentazione a Greco sui rapporti con Li Yonghong e la sua cordata. La questione vera è ora capire quale sia il contenuto della informativa delle Fiamme gialle. Un nulla di fatto, un accertamento che conclude per la regolarità dell'operazione, sull'onda dell'analisi della Banca d'Italia: questo risulta al Giornale, ma solo sulla base di fonti di seconda mano. Chi invece spinge sulla tesi del riciclaggio e dell'autoriciclaggio (soldi di Fininvest fatti rientrare con lo schermo dell'operazione) è convinto invece che gli accertamenti Uif abbiano dimostrato l'irregolarità dell'operazione. Ma se così fosse, la Procura avrebbe avuto il dovere, a norma dell'articolo 335 del codice di procedura penale, iscrivere «immediatamente» la notizia di reato nel registro apposito. E questo, ormai è sicuro, non è avvenuto.

Il processo sull'amianto che fa tremare l'Ingegnere

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De Benedetti è nervoso: il 7 febbraio a Torino inizia l'Appello per i morti all'Olivetti di Ivrea

Andrebbero riletti gli straordinari articoli che su Repubblica il suo (allora) direttore Ezio Mauro dedicò al rogo dell'acciaieria Thyssen a Torino, scavando a fondo nel rapporto perverso tra impresa e profitto, tra lavoro manuale e tragedia: tra spregiudicatezza imprenditoriale e crimine. Andrebbero riletti per capire a fondo lo psicodramma che agita oggi Repubblica, caso senza precedenti di un quotidiano che scarica brutalmente il suo editore: Carlo De Benedetti, l'uomo che ventisette anni fa salvò il quotidiano di Scalfari dalle grinfie di Silvio Berlusconi, e da cui oggi la direzione prende platealmente le distanze.

Cosa c'entra la Thyssen? C'entra. Perché se la strage degli operai dello stabilimento torinese - nella notte tra il 6 e 7 dicembre 2007 - dell'azienda tedesca fu un capitolo terribile del dispregio delle norme di sicurezza, ancora più terribile e catastrofica fu la strage silenziosa che si consumò in un'altra azienda: l'Olivetti di Ivrea. E per cui tra una manciata di giorni affronterà il giudizio d'appello proprio il «presidente onorario» di Repubblica: Carlo De Benedetti.

L'Ingegnere è stato condannato in primo grado a cinque anni di carcere per omicidio colposo plurimo. Ora è stato fissato il processo d'appello: 7 febbraio, a Torino. È questa comunicazione, notificata nei giorni scorsi al suo difensore Giuliano Pisapia, a turbare davvero i sonni di De Benedetti. Perché è l'ultima chance di dimostrare nel merito la sua innocenza, convincere i giudici di non avere saputo nulla dell'amianto che giorno dopo giorno ammazzava operai e impiegati della gloriosa fabbrica di Ivrea. Poi, solo l'esile schermo della Cassazione lo salverà dalla condanna definitiva, dalla prospettiva di passare alla storia non come un maestro dell'etica politica, non come un grande editore né come un consigliere e facitore di ministri e di premier ma più banalmente come un assassino di operai. Un capitalista-squalo da caricatura di Grosz.

Anche per questo De Benedetti è nervoso, e anche questo forse ha spinto Mario Calabresi, direttore di Repubblica, a spiegare ai suoi lettori che il giornale non ha nulla a che fare con gli affari privati del suo presidente onorario: né quando si faceva passare dal presidente del Consiglio informazioni riservate su cui speculare in Borsa; ma neppure quando, in nome del profitto - così sta scritto nella requisitoria del processo di primo grado - lasciava che la polvere d'amianto, di cui conosceva perfettamente la presenza e gli effetti, ammazzava i dipendenti che avevano la sventura di lavorare per lui. Nella fabbrica che il suo fondatore Adriano Olivetti aveva immaginato come azienda simbolo di un capitalismo umano e responsabile, e che invece sotto la gestione di Carlo De Benedetti (e di suo fratello Franco, condannato insieme a lui) si trasformò in una specie di mattatoio.

La speranza dell'Ingegnere era forse che i tempi lunghi della giustizia diluissero il caso, lo spostassero verso il limbo della prescrizione. Invece la Corte d'appello di Torino, pur ingolfata di processi, ha deciso di fissare il processo. E sul giudizio che si apre il 7 febbraio incombono come magli le motivazioni della sentenza di primo grado e le perizie del tribunale, che dimostrano come davanti a concentrazioni di amianto cinquanta volte superiori ai limiti di legge, l'Olivetti di De Benedetti non fornisse agli operai nemmeno una mascherina di protezione. Nei diciott'anni passati alla guida dell'azienda di Ivrea, l'Ingegnere girò gli occhi dall'altra parte. La sentenza che affronta il giudizio di secondo grado attribuisce De Benedetti sette morti: ma il totale, nei fascicoli ancora aperti, raggiunge la cifra di ottantacinque. Un editore scomodo, per il giornale dei diritti civili.

Milan, nessuna anomalia nell'affare. E la Procura ribadisce: è tutto ok

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Il rapporto della Finanza non è sfociato in un'inchiesta perché gli accertamenti hanno dimostrato che era tutto regolare

Milano - Vanno delineandosi con maggiore precisione i contorni del «caso Milan», ovvero la presunta indagine in corso sulla cessione del club rossonero alla cordata cinese guidata da Li Yonghong: indagine annunciata sabato da due quotidiani (Stampa e Secolo XIX) e immediatamente smentita dal capo della Procura milanese, Francesco Greco.

Ieri un lancio dell'agenza Agi conferma quanto scritto nei giorni scorsi dal Giornale e dal Fatto: alla Procura è effettivamente pervenuto un rapporto del Nucleo di polizia tributaria della Guardia di finanza, incentrato sui movimenti finanziari che hanno portato la Rossoneri Sport Investment Co. di mister Li ad acquisire da Fininvest la quasi totalità del pacchetto di controllo del Milan. Le Fiamme gialle riportano le conclusioni cui era pervenuta la Unità informazioni finanziarie della Banca d'Italia, l'organismo di analisi e vigilanza che ha il controllo sulle operazioni internazionali, e che aveva scavato, in relazione al caso Milan, su alcune «segnalazioni di operazioni sospette». La Banca d'Italia, con cui il procuratore Greco collabora strettamente da sempre, ha all'interno della Procura milanese un suo terminale investigativo, ma è prassi costante che le conclusioni degli accertamenti Uif vengano girate alla Finanza e sia questa a consegnarli direttamente in Procura.

Una attività di segnalazione dunque esiste, pacificamente: e del resto Greco, nella sua improvvisata conferenza stampa di sabato mattina, non l'aveva negata. Ma le conclusioni di questa attività, stando a quanto risulta al Giornale, non confermano i dubbi avanzati da più parti sulla trasparenza dell'operazione Milan. Le cosiddette «segnalazioni di operazioni sospette» scattano praticamente in automatico, ogni volta che la provenienza o l'importo dei flussi finanziari appaiano anomale: e oggettivamente lo schema utilizzato da Li Yonghong per fare approdare i soldi in Italia, triangolandoli tra le Isole Vergini e Hong Kong, poteva dare adito a qualche dubbio: fugato però, a quanto si può capirne, dagli accertamenti. A dirlo sono due passaggi della conferenza stampa di Greco: quello in cui afferma che «non c'è stata nessuna denuncia», mentre in presenza di reati la Gdf avrebbe dovuto denunciarli; e quello in cui racconta che Niccolò Ghedini, legale di Fininvest, aveva ipotizzato di presentare lui stesso un esposto contro i cinesi, e che «poi hanno deciso di non farlo dopo avere ricevuto il via libera dalle banche», ovvero da Intesa e Rotschild, obbligate anch'esse a vigilare sulla regolarità dei flussi. E poi, sempre dalla conferenza stampa di Greco: «Loro (Ghedini e Fininvest, ndr) si rimettevano alle valutazioni degli organi istituzionali sulla regolarità della procedura, e ci fu un parere dell'autorità di controllo che diede il via libera». Sarebbe stato proprio il placet dell'Uif a tranquillizzare la Fininvest sulla serietà e la praticabilità dell'operazione.

Insomma: non c'è una inchiesta vera e propria, non c'è un procedimento penale aperto, ma esiste un informale cono di attenzione degli inquirenti sull'operazione Milan, basato sulle attività di Bankitalia e Guardia di finanza. È accaduto più volte in passato che la Procura milanese partisse con verifiche informali simili a questa, e poi passasse all'attacco ben più pesantemente. Ma la nettezza della smentita di Greco, e la serenità ostentata dai legali del gruppo di Silvio Berlusconi fanno ipotizzare che stavolta tutto potrebbe concludersi senza né morti né feriti.

Nuova smentita sull'inchiesta. E il Milan minaccia querele

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I legali del Cav negli uffici del procuratore Greco

Milano - In oltre ventitrè anni di grattacapi giudiziari, a Silvio Berlusconi non era mai successo che a toglierlo d'impiccio fosse proprio la Procura di Milano. La smentita tassativa da parte di Francesco Greco, procuratore della Repubblica, sull'esistenza di un fascicolo sull'affare Milan è stata accolta ad Arcore come il segnale di un nuovo clima. E così ieri mattina gli avvocati di Fininvest, Niccolò Ghedini e Salvatore Pino, salgono al quarto piano del palazzo di giustizia per un lungo e cordiale incontro con Greco. Gli avvocati ringraziano. E Greco riconferma a loro quanto detto sabato ai giornalisti: non esiste nessuna inchiesta, né contro Berlusconi né contro nessun altro, e nemmeno a carico di ignoti, per la vendita del club rossonero ai cinesi; non c'è nessuna ipotesi di riciclaggio.

I legali del Diavolo sanno perfettamente, e per scienza diretta, che sul tavolo di Greco e del suo aggiunto Fabio De Pasquale qualcosa sul Milan c'è: se non altro perché a formare quel carteggio informale hanno contribuito anche loro, fornendo passo passo documenti e analisi sulle trattative con il finanziere cinese Li Yonghong; sanno che la Procura ha in mano anche il rapporto della Guardia di finanza che raccoglie le valutazioni di Bankitalia sulle «operazioni sospette» emerse vagliando la provenienza dei quattrini cinesi. E sanno anche che per ora né Banca d'Italia né fiamme gialle né Procura hanno ravvisato elementi penalmente rilevanti nell'accordo tra Fininvest e mister Li.

Quest'ultimo, il finanziere cinese divenuto il ventiseiesimo presidente del Milan, dopo tre giorni di bailamme mediatico in cui molti sono tornati ad avanzare dubbi sulle sue fortune ieri esce allo scoperto con un comunicato dai toni accesi, pubblicato sul sito del club: Li Yonghong parla di «spiacevole e inaccettabile campagna mediatica basata su congetture e informazioni non corrette», riafferma che «il processo di acquisizione di Ac Milan si è sempre svolto con la massima trasparenza, regolarità e correttezza». E ricorda che tutte le authority coinvolte (e quindi anche l'Uif, l'Unità informazioni finanziarie della Banca d'Italia) «hanno ricevuto nei tempi previsti la documentazione necessaria o richiesta per valutare ed approvare non solo il processo di closing ma anche i requisiti della nuova proprietà ora alla guida del club». E conclude minacciando querele: «Ci riserviamo di avviare tutte le opportune azioni legali al fine di tutelare al meglio l'immagine, la reputazione e la consistenza economica delle società del gruppo Ac Milan».

Su dj Fabo la procura vuole l'assoluzione per Cappato

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Per la procura il radicale "rispettò la volontà di morire" di Fabiano Antoniani

La Procura di Milano chiede l'assoluzione di Marco Cappato, l'esponente radicale sotto processo per avere agevolato il suicidio di Fabiano Antonioli, il disc jockey ridotto in condizioni vegetative da un incidente stradale e spirato in una "clinica della dolce morte" in Svizzera. Al termine di un processo sofferto e a volte commovente, i pubblici ministeri Sara Arduini e Tiziana Siciliano hanno insistito sulla linea seguita fin dall'inizio: il comportamento di Cappato non ha violato il codice penale, perché Dj Fabo aveva maturato autonomamente e irrevocabilmente la sua decisione di porre termine a una vita intollerabile. E il ruolo di Cappato non ebbe alcun peso nella decisione e nella sua esecuzione.

Il radicale si era autodenunciato, per sollevare pubblicamente il tema della mancanza in Italia di una legge sul fine-vita al passo con i tempi. La Procura aveva chiesto il suo proscioglimento, ma un giudice aveva invece ordinato il processo: il testo attuale dell'articolo 580 del codice penale, che punisce esplicitamente chiunque agevola un suicidio, non lasciava margini di interpretazioni favorevoli a Cappato.

Invece oggi, al termine del processo, le due pm insistono. La pm Arduini ha rIcostruito la genesi del calvario di Dj Fabo, il suo "viaggio della speranza" in India, la delusione, la disperazione, la decisione lucida di farla finita. I contatti con la clinica Dignitas, ha ricordato, sono precedenti all'ingresso in scena di Cappato. E una volta entrato in contatto con Fabiano, il radicale si limitò a spiegagli le possibilità tecniche, ricordandogli in ogni passaggio che poteva ripensarci. Lo portò in Svizzera con la sua auto, è vero. Ma non entrò nella stanza dove Cappato, stringendo con i denti una provetta, si diede la morte. "Se condannate Cappato - ha concluso la Arduini - dovreste incriminare anche il notaio che ne ha raccolto il testamento, il medico che lo ha visitato. E anche sua madre e la sua fidanzata".

Dopo di lei, Tiziana Siciliano ha spiegato perché la Procura sta dalla parte di Cappato: "Io mi rifiuto di essere l'avvocato dell'accusa, io rappresento lo Stato, e la mia funzione è anche quella di trovare le prove a favore e sollecitare l'assoluzione quando penso che sia giusto". La pm ha descritto crudamente le condizioni di Fabo, "quale dignità c é nell'urlare terrorizzato per la paura di soffocare, dipendere da una mano pietosa, vivere immerso nei propri fluidi corporei senza poter controllare nulla?". Ha ricordato che la Corte Europea dei diritti dell'uomo ha più volte dettato linee guida agli Stati sul tema del diritto al suicidio, e ha chiesto di interpretare l'articolo 580 del codice penale alla luce di queste indicazioni, e alla realtà di "una società che muta, cose che apparivano pietre miliari del sentimento della nazione si sono sciolte come neve al sole", come il delitto d'onore. La mutata realtà, dice la Procura, deve portare ad assolvere Cappato: perché "Cappato è imputato di avere aiutato qualcuno a esercitare un suo diritto. Non il diritto al suicidio, il diritto alla dignità".

Solo se la Corte d'assise ritenesse di non potere accettare questa richiesta, la Procura chiede che il processo sia sospeso e gli atti inviati alla Corte Costituzionale perché valuti la conformità dell'articolo 580 alla Carta fondante della nostra Repubblica.

E il pm chiude citando S. Tommaso Moro. "Afferma che un malato incurabile, se sofferente, può decidere di morire per evitare inutili sofferenze a sè e fatiche agli altri". Nel pomeriggio la parola passa alla difesa.

Dj Fabo, il pm si ferma «Cappato non lo aiutò a uccidersi in Svizzera»

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Chiesta l'assoluzione dell'esponente radicale: «Dobbiamo fare un importante passo avanti»

Milano Un abisso tra il buon senso e la legge, tra il comune sentire e la macchina della giustizia. Arriva la puntata finale del processo a Marco Cappato, radicale, accusato di avere aiutato a uccidersi il disc jockey Fabiano Antonioli. La Procura chiede l'assoluzione di Cappato, e probabilmente non c'è una sola persona nella ressa che riempie la Corte d'assise che non condivida la passione civile e le pause di commozione dei due pubblici ministeri, le invocazioni al diritto alla dignità, le lacrime davanti alle frasi di Fabiano prima di morire: «Questa è una vittoria». Ma poi c'è il codice penale, un articolo purtroppo di una chiarezza senza ombre: dice che Cappato ha commesso un reato, come chiunque «rafforza l'altrui proposito al suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l'esecuzione».

Cappato non rafforzò il proposito di «Dj Fabo», che aveva già deciso di morire, ridotto da un incidente stradale a una larva cieca e dolorante. Ma che ne abbia agevolato il suicidio è indubbio: lo aiuta a scegliere la clinica della «dolce morte», lo porta in auto a destinazione, partecipa alle prove generali del suicidio. Ieri, le pm Sara Arduini e Tiziana Siciliano provano a negare anche questo, a dire che non vi fu un «contributo causale», e che se si condannasse Cappato andrebbe incriminato anche il portinaio che aprì il portone della casa dell'infermo, avviato all'ultimo viaggio. Ma sanno bene che non può essere questa la via d'uscita: e a non volerlo è anche l'imputato, che rivendica con orgoglio di avere aiutato Antonioli a morire, sfidando una legge che considera ingiusta.

Così la Procura affronta il tema del diritto al suicidio, del trattamento dei malati terminali, della morte dignitosa. Dj Fabo, spiegano le pm, in base alla legge italiana avrebbe potuto rifiutare le cure: sarebbe morto, certo, ma «il trattamento inumano avrebbe avuto come vittime la mamma e la fidanzata, che dovevano assistere passivamente alla lenta, rantolante agonia del loro congiunto. Una morte che getta nella disperazione quelli che amiamo è una morte dignitosa?».

Il dj aveva diritto di morire, «se per mezz'ora avesse potuto muoversi avrebbe fatto da solo». Ma era immobile, e allora «aveva bisogno di un braccio meccanico che operasse per lui». Questo fu Cappato: l'esecutore indispensabile di una volontà legittima. Se Fabo aveva il diritto di morire, chi lo ha aiutato non può essere punito: è, in fondo, quella che il codice chiama legittima difesa.

Le due pm invocano l'assoluzione «perché il fatto non sussiste», consapevoli di chiedere alla Corte d'assise un atto di coraggio, perché «è una interpretazione innovativa che richiede la volontà di fare un passo avanti molto importante». Certo, le immagini scioccanti degli ultimi istanti di vita di Dj Fabo potrebbero spingere i giurati verso questo atto di coraggio. Ma la legge è netta e una sentenza che la trascurasse precipiterebbe nel caos una materia già drammaticamente complessa. Così le pm indicano alla Corte un piano B: mandare tutto alla Corte Costituzionale, perché sia essa a vagliare e semmai a modificare l'articolo 580, che punisce senza distinguo chi aiuta il prossimo a suicidarsi.

In un modo o nell'altro, dice l'accusa, Cappato non deve essere condannato. Perché Tommaso Moro, dopo avere teorizzato il diritto al suicidio degli infermi, venne condannato a morte, e cinquecento anni dopo riabilitato e fatto santo: «Non vorremmo vedere oggi la condanna di Cappato e la sua beatificazione tra qualche secolo».


Parla "Lo Zingaro" delle Case Bianche di Milano

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Parla "Lo Zingaro" delle Case Bianche di Milano in cui sei stranieri hanno occupato la casa di un'anziana pensionata mentre lei era in ospedale: "Io non c'entro nulla. La galera? Me ne vado in vacanza"



Liberata casa di nonna Rosa: grazie, se si vuole si può

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Neanche il tempo di lasciar asciugare l'inchiostro sulle copie del Giornale di ieri, e la signora Rosa ha riavuto la sua casa. L'appello accorato lanciato alle autorità - Questore e Prefetto in primo luogo - perché non abbandonassero al suo destino una donna anziana, privata della sua casa da un racket spietato mentre si trovava in ospedale, non è rimasto inascoltato. Questo induce alla gratitudine per la solerzia della risposta dello Stato (il «segnale immediato» di cui parla giustamente il Questore), e racconta - consolazione non da poco, di questi tempi - che un qualche ruolo la libera stampa continua a poterlo esercitare. E però pone inevitabilmente anche delle domande: quante altre donne, in questo Paese, vivono il dramma di Rosa? Quante sono costrette a risalire ogni giorno le scale, portando al braccio la borsa della spesa e nel cuore la domanda: troverò ancora la mia casa, il mio guscio, le povere, piccole cose che per me sono tutto? O dentro, tra le mie cose, ci sarà gente senza volto che il prepotente di turno ha voluto al mio posto? E chi mi ridarà la mia casa?

I blindati della Celere che ieri restituiscono a Rosa la sua casa dicono che difendere gli indifesi è possibile oltre a essere giusto. Servono risorse, certo: ma servono soprattutto volontà, direttive politiche, la consapevolezza che l'essenza di uno Stato è anche difendere i deboli contro i prepotenti. Senza aspettare un articolo di giornale.

Insulti, rabbia e desolazione La guerra fra disperati nel fortino della malavita

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L'arrivo della polizia alla Trecca è salutato con grida e offese Alta tensione fra residenti regolari e abusivi E un senso di abbandono: qui lo Stato è assente

Milano «Pezzidimmerda!». L'insulto piove dalle finestre di chissà quale piano delle torri scrostate alle dodici e un quarto, appena il primo blindato della Celere si affaccia davanti alla Trecca: e vai a sapere se quello che urla ce l'ha con i poliziotti, con le telecamere dei giornalisti, o con gli inquilini che li hanno chiamati. O forse l'insulto abbraccia in una parola sola tutti quelli che si ostinano a pensare che un assaggio di legalità possa toccare anche a questo quartiere (Trecca da tri caà, tre case: prima che gli sciagurati palazzoni sorgessero) dove da troppo tempo lo Stato è assente: e dove neanche le parole di Papa Francesco, arrivato in visita dieci mesi fa, hanno fatto breccia davvero. Il Papa se n'è andato, in via Salomone il degrado è rimasto. Qui la nettezza urbana non svuota i cassonetti, l'istituto delle case popolari non aggiusta i citofoni, il commissariato non arresta i balordi. E l'incredibile storia di Rosa, l'anziana cui una famiglia di senegalesi ha occupato la casa appena è finita in ospedale, è figlia in qualche modo dell'abbandono in cui il quartiere è stato lasciato per anni, fino a raggiungere il punto di non ritorno.

Il rapporto base tra le persone sembra essere l'insulto. C'è quello dalla finestra che insulta poliziotti e giornalisti; ma c'è anche il signore che porta giù il cane, e che appena vede un malconcio rom in bici avvicinarsi ai cassonetti lo copre di male parole, «animali, siete voi che li svuotate per cercare la roba che vi serve, e lasciate tutto in giro, fate schifo»: e dentro c'è l'esasperazione, la rabbia senza sbocchi accumulata ogni giorno che gonfia i capillari. Tutti insultano tutti: gli inquilini regolari insultano gli abusivi, gli abusivi insultano i regolari che fanno la spia, tutti insieme insultano l'Aler, il Comune, la polizia, il mondo.

Il sistema di vendere al miglior offerente l'accesso alle case sfitte, ovvero il racket, esiste da tempo immemorabile: «Anni, decenni», dicono le donne dalla faccia stanca che ieri assistono all'irruzione della Celere nella casa di nonna Rosa: «Con ottanta euro al mese ti fanno dormire in cantina, che è sempre meglio che dormire per strada». Cliente e anche vittima del racket, in fondo, si proclama anche il signore che molti indicano come «l'immobiliarista», il dominus della tratta degli alloggi. Lo chiamano lo Zingaro, e ieri è arrabbiato perché un suo nipote è stato arrestato per avere stuprato con due amici una ragazza dopo averla drogata in un locale, e i filmati sono finiti su tutti i giornali: «Ma lui è un bravo ragazzo, sono gli altri due che l'hanno violentata! E poi oggi sono le donne che vanno a violentare gli uomini». In via Salomone, lo Zingaro c'è arrivato da un campo nomadi: «Ho comprato la casa per cinquemila euro», ovviamente dal racket. «Io non sono il capo di niente, io di mestiere compro e vendo automobili e chi mi accusa è un infame». Nel palazzo, lo temono e lo odiano. Un po' detestano anche il parroco che allo Zingaro porta ogni settimana il pacco con i viveri: «Ma come, quello gira in Mercedes e il prete gli porta da mangiare. Quando abbiamo protestato ha detto: gli porto il pacco viveri perché ha un Ise pari a zero».

Mentre la Celere libera la casa di nonna Rosa, lo Zingaro (che in realtà si chiama Giulio Guarnieri) se ne sta assiso come in trono al centro del cortile, circondato dalla sua corte dei miracoli, e racconta tutto fiero ai cronisti dei suoi quindici anni in carcere per tentato omicidio. Della casa scippata a Rosa dice «io non so niente, saranno stati gli albanesi», e magari è anche vero. Bisbigliano le donnine del cortile: «Si dice che a vendere la casa ai senegalesi è stata la badante. Lo Zingaro per vendere le case almeno aspetta che siano vuote». Ma se a smerciare il diritto d'accesso alle case popolari ci si mettono anche le badanti, allora davvero per via Salomone non c'è più speranza.

«Il citofono non funziona», «il siciliano Biagio = mafia»: ma anche «I lov you». I graffiti negli androni di via Salomone raccontano una quotidianità dove, inesorabile, fa capolino la voglia di vivere una vita normale. Ma come si fa, con cento appartamenti su 470 in mano al racket, con le facciate che cadono a pezzi, con il messaggio a tutto campo che qui non valgono le leggi dello Stato e neppure quelle della convivenza civile, si può orinare in ascensore, buttare i rifiuti dalle finestre, e nello spelacchiato verde centrale i cani fanno i comodi loro, e nessuno raccoglie niente? Non nasce ieri questo dramma, e chi è cresciuto qua dentro si adatta o almeno si rassegna. Ieri nessuno applaude l'arrivo della polizia. «Quando c'erano gli albanesi in piazza Ovidio, a cacciarli via siamo stati noi», dice uno: giustizia fai da te, legge del più forte. Ed è un inquilino regolare, uno che in un altro posto magari starebbe dalla parte dello Stato: ma non alla Trecca.

Stalking, mafia e Pa La Procura completa le nuove «squadre»

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Il capo dell'ufficio Greco compone gli otto pool Ai reati sessuali 12 pm, toga «rugbista» in Dda

Luca Fazzo

Una decisione lunga e sofferta, destinata a disegnare il volto per i prossimi anni della Procura della Repubblica: ma anche, in tempi più ravvicinati, a gratificare alcuni magistrati, ed inevitabilmente a scontentarne altri. Francesco Greco, procuratore della Repubblica, chiude ieri la sua operazione di ristrutturazione del più delicato ufficio giudiziario della città, alla cui guida raccolse nel giugno 2016 l'eredità di Edmondo Bruti Liberati. Ed è evidente la filosofia di fondo: puntare alla compattezza della Procura, organizzare gli otto pool specializzati in modo che le inchieste - dalle più semplici alle più delicate - vengano gestite in armonia, senza le tensioni che attraversarono l'epoca Bruti.

CORRUZIONE

È il pool che nei giorni scorsi Greco ha affidato a Ilda Boccassini, in attesa del rientro in servizio del suo titolare Giulia Perrotti. Avrà in squadra tra gli altri Stefano Civardi, il pm del caso Telecom, e Piero Basilone, finora impegnato sul fronte del terrorismo e dei centri sociali.

FINANZA INTERNAZIONALE

È la nuova creatura di Greco, la squadra che indagherà sui grandi crimini finanziari internazionali. Il capo sarà Fabio De Pasquale: a lavorare con lui saranno anche il suo collega più fidato Sergio Spadaro, e Paolo Storari, finora in forza alla Direzione distrettuale antimafia.

BANCAROTTE

Sotto il procuratore aggiunto Riccardo Targetti lavoreranno sei pm: tra essi una specialista del settore come Donata Costa e Roberto Fontana, a lungo giudice della sezione fallimentare e quindi buon conoscitore della materia, di ritorno a Milano dopo un breve servizio a Piacenza.

TRUFFE INFORMATICHE

È il pool ora guidato da Eugenio Fusco, che dalle truffe tradizionali (specie a danno degli anziani) ha allargato la sua competenza al capitolo sterminato dei reati informatici. Otto pm in tutto, dove restano in servizio i più esperti, Francesco Cajani e Alessandro Gobbis.

STUPRI E STALKING

È il dipartimento creato da Piero Forno, l'apripista delle indagini sui reati sessuali, alla cui guida è approdata ora Letizia Mannella. È tra i più numerosi (dodici pm) ma ha visto in questi anni un intenso turnover. Ora vi approda tra gli altri Michela Bordieri, che per anni ha lavorato come pm alla Procura per i minorenni, a contatto con le problematiche dei «soggetti deboli».

SALUTE E LAVORO

Alla guida del pool c'è Tiziana Siciliano, divenuta celebre per la coraggiosa linea seguita nel processo al radicale Marco Cappato per il suicidio assistito del disc jockey Fabiano Antoniani. Con sé avrà anche Sara Arduini, anche lei in aula nel processo Cappato, e Mauro Clerici che lascia il settore dei reati finanziari.

RAPINE E OMICIDI

A coordinare il settore c'è il procuratore aggiunto Laura Pedio, cui vengono affidati sei nuovi pm: tra questi Isabella Samek Lodovici, nipote del leggendario presidente dei maxiprocessi, e Leonardo Lesti, che si occuperà anche di terrorismo sotto il coordinamento di Alberto Nobili.

ANTIMAFIA

Le ultime nomine di Greco per questo delicato settore guidato da Alessandra Dolci erano state criticate dal Csm, che aveva ritenuto ingiusta la bocciatura del pm (nonché rugbista in serie B) Stefano Ammendola: che ora viene inserito nel pool insieme alla collega Silvia Bonardi, per anni pm Antimafia a Brescia.

«Pochi giri di parole Incarichi in giunta? Sono prontissima»

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La record woman in Lombardia siederà in Comune e in Regione

Non ha dormito tutta la notte, e ieri era lo stesso a Palazzo Marino con un gruppo di abitanti della Comasina «a denunciare la grave situazione del quartiere». «Quando mi hanno visto in aula mi hanno detto: Miii, ancora qua sei? Sì, sono ancora qua e ci resterò, perché le cariche di consigliere comunale e regionale non sono incompatibili. Sono stata il peggior incubo di Beppe Sala e continuerò ad esserlo».

Silvia Sardone, 35 anni, 11.312 preferenze cosa significa?

«Vuol dire tre cose: che sono la donna più votata in Lombardia; che a Milano ho raddoppiato le preferenze delle comunali; e che il rapporto diretto con i cittadini è decisivo, infatti più di cinquemila voti li ho presi tra la zona 2 e Sesto, nel territorio dove vivo».

Per i cronisti milanesi, le sue dichiarazioni sono un appuntamento costante che riempie le caselle di posta elettronica, come quelle leggendarie di Riccardo De Corato. È lei il De Corato del terzo millennio?

«Una volta un giornale mi definì De Corato in gonnella: è uno degli articoli più belli che mi siano stati dedicati».

Per legge le due cariche in Comune e in Regione sono compatibili, ma lei pensa davvero di poterle fare bene entrambe?

«Finora io timbravo il cartellino tutte le mattine, adesso invece potrò chiedere l'aspettativa. Quindi avrò più tempo, e non meno, da dedicare alla attività politica. E riuscirò anche a vedere qualche partita in più dei miei bambini».

È consapevole che nei suoi temi preferiti, come la sicurezza e l'immigrazione, le competenze della Regione sono più indirette, l'idea di trovarsi in un contesto più rarefatto della trincea di Palazzo Marino non la preoccupa?

«Quali che siano i poteri della Regione, io li userò nel modo migliore possibile», dice. Ma l'intervista sarebbe incompleta senza un'ultima domanda.

Vuole fare l'assessore?

«A me stanno sul gozzo quelli che a queste domande rispondono Io sono a disposizione, Se verrò chiamato risponderò per spirito di servizio, eccetera. E siccome non amo parlare in politichese dico che per i voti che ho preso, per la gavetta che ho fatto e per le competenze che mi appartengono è logico che io faccia l'assessore».

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